giovedì 2 giugno 2011

TEATRO E PSICOLOGIA: UN INCONTRO NECESSARIO


 Teatro e psicologia: scienze umane
Queste due discipline sono molto più vicine di quanto i rispettivi professanti siano disposti ad ammettere. La Psicologia come ambito di studio si occupa dell’integrità dell’esperienza umana nelle sue dimensioni: mentale, corporea, relazionale. Il Teatro come ambito di studio si occupa dell’esperienza umana nella sua totalità di espressioni: mentali, linguistiche, corporee, relazionali, storiche. Il teatro quindi non è (solamente) un “luogo” dove si va per distrarsi, ma una “attività di ricerca”, di studio, di conoscenza. Da sempre il teatro è stato una forma di conoscenza:  La poesia, l'epica, il teatro svilupparono mezzi per la rappresentazione di particolarità individuali e di leggi sociali molto tempo prima che se ne occupassero la psicologia scientifica e la sociologia, e ancor oggi sono molto più avanti nel cogliere e rappresentare la tensione fra soggetto e oggetto. Il teatro infatti può essere visto come un “dispositivo conoscitivo” molto articolato, mediante il quale si realizza una forma di conoscenza psicologica dell’uomo. Quindi pur avendo metodi diversi e diversi obiettivi, la Psicologia e il Teatro possono essere considerati ambedue forme di conoscenza del mondo umano. Ma possono anche essere visti, nella loro dimensione applicativa, come forme di comunicazione, modi di entrare in relazione, strumenti per inter-venire (situarsi tra) e provocare cambiamento, in una situazione, in una persona, in un gruppo. La Psicologia come campo di intervento si occupa del cambiamento: favorire cambiamenti di diversa natura (educativo, formativo, psicoterapeutico, …). Il Teatro come pratica sociale si occupa del cambiamento: favorire cambiamenti nell’attore e/o nello spettatore a diversi livelli (educativo, emotivo, conoscitivo, relazionale…). Conoscenza, comunicazione e cambiamento vanno visti come momenti di un unico processo. Nel teatro la comunicazione, l’espressione tende a coincidere con una trasformazione dell’uomo (attore/spettatore), su diversi piani. Questa coincidenza tra conoscenza, comunicazione e trasformazione apre al ritorno ad una “arte umana”: l’arte non più dissociata dalla personalità e dalla vita dell’artista. Le operazioni artistiche (processi e prodotti) convergono nel punto di irradiazione dell’interezza della persona. Ecco allora che il binomio teatro-psicologia non è più imbarazzante ma necessario. Ambedue sono strumento di conoscenza della realtà umana e strumento di cambiamento, di trasformazione dell’uomo. E difatti l’incontro si è più volte realizzato da quando la Psicologia è nata come disciplina. Intorno agli anni ‘60 alcuni “fatti nuovi” e nuove risonanze favorirono una diversa possibilità di incontro fra Teatro e Psicologia. Ad esempio la nascita dei Laboratori teatrali e un nuovo training dell’attore, l’antropologia teatrale; un rinnovato modo di lavorare nel setting psicoterapeutico, la nascita di settings esperienziali, nuove teorie psicologiche e psicoterapeutiche. Se, in campo psicologico, l’attenzione con Freud era stata focalizzata sull’inconscio e la “immersione” nelle esperienze associate all’insorgenza dei sintomi, ora l’attenzione si sposta sui vissuti del qui-ed-ora e sulla dimensione consapevole dell’esperienza. La consapevolezza può essere raggiunta attraverso l’auto-osservazione, che presuppone una certa distanza, una non-identificazione con i contenuti mentali. In campo teatrale Brecht ribadisce la necessità di una distanza critica dell’attore verso il personaggio e il testo. Molti teorici ritornano sulla tesi diderotiana della non-immedesimazione. Vengono problematizzate e spesso rifiutate l’idea di spontaneità e la prassi dell’improvvisazione. La distanza implica la distinzione tra l’azione e il riflettere sull’azione stessa, la separazione fra il ruolo e l’attore. Brecht fornisce un modello di distanza intesa come separazione tra l’attore ed il ruolo, tra lo spettatore e la sua memoria. Brecht in opposizione al naturalismo di Stanislavskij, propone un teatro come laboratorio socio-politico in cui componenti sociali e psicologiche si confrontano per portare a una trasformazione. Al fine del cambiamento occorre che le componenti emozionali e razionali, la personalità e la persona, l’individuo e l’istituzione, siano “distinti” e interdipendenti. E’ necessaria una distanza equilibrata, cioè: a) per quanto riguarda l’attore, la capacità di recitare il ruolo ed essere allo stesso tempo osservatore del proprio ruolo, oppure b) all’interno del setting psicoterapeutico, la capacità di rivivere un conflitto della propria esistenza senza essere sopraffatti dalla immedesimazione nel problema. Eppure la distanza si presenta in modo paradossale, infatti l’operazione realizzata dal teatro consiste nell’ottenere il massimo dell’identificazione col massimo della differenziazione, la maggiore verità con un minimo di tendenziosità, la partecipazione massima con un minimo di credenza. Tutto questo viene prodotto dal teatro con mezzi molteplici, alcuni dei quali sono legati alle strutture formali del dispositivo rappresentativo; altri sono generati dalla maestria dell’attore». La scena teatrale, con la sua demarcazione, attribuisce un carattere decisamente artificiale allo spettacolo che viene offerto. Proprio questo permette l’identificazione con esso. Solo in uno stato di equilibrio la persona è in grado di esperire la catharsis, che è appunto uno stato di distanza estetica, attraverso laquale vengono vissute esperienze emotive precedentemente represse, senza però esserne sopraffatti. A teatro ciò vale sia per l’attore che per lo spettatore, infatti «nello spettatore ci deve essere sempre un qualche grado di consapevolezza circa il fatto che nello spettacolo si produce illusione» (Petrella). In questo senso la funzione del teatro «sembra qui consistere nel riuscire a collocare l’osservatore in quel punto archimedeo, fuori dal mondo, in cui gli affanni degli umani sono colti da un unico sguardo supremo, il solo in grado di afferrare con un tratto tutte le stratificazioni e i rivolgimenti del processo che viene esibito e dei conflitti che lo attraversano» (Petrella). Uno dei compiti principali del dispositivo teatrale è la collocazione dello spettatore in questo punto di vista “sinottico” da cui contemplare e conoscere i meccanismi e le illusioni che governano il mondo (Brecht, Mejerchol’d, Piscator). La “distanza” nel teatro permette alla persona, all’attore o allo spettatore, di avanzare fra due mondi: quello oggettivo e quello soggettivo, proprio perché il teatro è una esperienza in cui le persone immaginano e si comportano “come se” fossero altro, in un altro posto in un altro tempo.












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