giovedì 18 agosto 2011

LA LETTURA AD ALTA VOCE

Leggimi subito, leggimi forte
Dimmi ogni nome che apre le porte
Chiama ogni cosa, così il mondo viene
Leggimi tutto, leggimi bene
Dimmi la rosa, dammi la rima
Leggimi in prosa, leggimi prima

Bruno Tognolini, poeta, 
per Nati per Leggere


Tutto ha inizio con un suono.
Il nostro bambino scivola via dalla culla che l’ha ospitato per nove, lunghissimi mesi, e il primo contatto che abbiamo con lui o con lei è la sua voce che ci dice 'eccomi, sono qui finalmente!'  Allo stesso modo il piccolo riceve i primi segnali di contatto col mondo 'di fuori' attraverso la voce materna, ancor prima di nascere. Già nella vita prenatale, infatti, può ascoltare il respiro della mamma, il battito del suo cuore, i rumori che il suo corpo produce, insieme alla voce che gli parla e che arriva “da dentro”.
Che meravigliosa magia!
Proviamo questa ricetta: una mamma o un papà, la sua voce, una bambina o un bambino, un libro di qualità (preferibilmente un albo illustrato, specialmente quando si tratta di bambini in età prescolare), un tempo senza distrazioni, un angolino in cui accoccolarsi. Mescoliamo con cura gli ingredienti e il nostro impasto di emozioni è pronto! Perché è questo che accade quando un adulto legge con un bambino: la voce si trasforma in un tramite di emozioni, che connette la sfera cognitiva a quella emotiva, suscitando così interesse crescente per quel magico oggetto che contiene immagini, segni e significati. Nella lettura a voce alta c’è condivisione, partecipazione, prossimità e calore del corpo, senso di protezione, coinvolgimento della mente e delle emozioni. È la potenza della lettura che, connettendo materiale conscio e inconscio, attiva processi che hanno a che fare non soltanto con l’area cognitiva ma anche con quella emotiva.
La lettura a voce alta è uno straordinario strumento che facilita la relazione tra adulti e bambini: stabilisce una relazione profonda, calda, fisica, sensoriale; conferisce qualità al tempo vissuto insieme; diventa un 'fattore di protezione'. Inoltre, soprattutto quando praticata sin dai primissimi mesi di vita, addirittura quando il bambino è ancora nella pancia della mamma, la pratica della lettura a voce alta favorisce l’acquisizione di abilità e strumenti che sostengono la costruzione della identità e il rafforzamento dell’autostima, oltre a potenziare le capacità cognitive del bambino (la lettura a voce alta influisce sulla maturazione cerebrale, potenzia le connessioni neurologiche, incrementa l’attività dei processi mentali).
Leggere a voce alta significa leggere 'con' il bambino e non 'per' il bambino: in questa meravigliosa attività è la relazione che fa la differenza. E leggere a voce alta significa 'esporsi', mettersi in gioco in prima persona, aprirsi totalmente attraverso quel mezzo potentissimo, così sottovalutato o male utilizzato, che è il respiro, e il respiro che si veste di voce.
Niente paura: non bisogna essere lettori professionisti!
Ogni genitore può ricercare ed esplorare il proprio stile, provando e sperimentando fino a sentirsi a proprio agio. La condizione è una sola: che la storia piaccia e susciti emozioni innanzitutto nell’adulto che legge. Una storia che non piace non “arriverà” mai al bambino, e anzi risulterà inefficace e controproducente.
Come confermato ormai da numerose esperienze ed evidenze scientifiche, leggere ad alta voce, con continuità, rispettando i tempi di attenzione del bambino (che aumentano progressivamente con l’età), ha un impatto positivo sia sui processi relazionali tra bambini e genitori, che su quelli cognitivi (l’acquisizione del linguaggio e la comprensione dei testi scritti si sviluppano più precocemente e con maggiore qualità).
Innumerevoli le ricadute sul successo scolastico: i bambini che possono godere di un’esposizione alla lettura giornaliera giungono a scuola con maggiori capacità e conoscenze di base per la futura decodifica delle parole e del progressivo ampliamento del vocabolario (Wittgenstein diceva 'I limiti del mio vocabolario sono i limiti del mio mondo').
Anche il piacere di leggere e il desiderio di farlo da soli si consolida e, se correttamente coltivato, diventerà un’abitudine che accompagnerà il bambino in tutte le fasi della sua vita, grazie proprio a quell’imprinting precoce basato sulla relazione: un bambino amerà la lettura perché ama chi legge per lei/lui.
Nella scelta dei libri si parte dalle ninne nanne, dalle filastrocche, e poi le piccole storie in rima, per proseguire con libri più complessi, popolati di personaggi e situazioni a cui prestare la voce.
I bambini sono lettori plurisensoriali: leggono con tutto il corpo e mettendo in moto tutti i sensi. La produzione editoriale, a partire dai piccolissimi, è ampia: dai libri da mordicchiare a quelli multimaterici, ai cartonati da usare con tutto il corpo, agli albi illustrati…
La scelta lascia margini al gusto personale del genitore e del bambino, ma va fondata su criteri di qualità e di non omologazione alle mode del momento.
Conoscere i libri per bambini, lasciarsi incantare dalla loro magia, donare la propria voce per stabilire un contatto nuovo, profondo, emotivamente coinvolgente è un dono che arricchisce l’adulto non meno del bambino. Perché, come diceva Lewis Carroll, l’autore di Alice nel paese delle meraviglie: “Le storie sono doni d’amore”.
Suggerimenti di lettura per i genitori:
  • Leggere ad alta voce di Rita Valentino Merletti - Mondadori Editore (collana INFANZIE, 1996 e III ed. riveduta e ampliata, 2000)
  • Libri e lettura da 0 a 6 anni di Rita Valentino Merletti - Mondadori Editore
  • Coccole e filastrocche di C. Carpi Germani, G. Baronchelli - Giunti Kids
  • Leggimi forte - Accompagnare i bambini nel grande universo della lettura di Rita Valentino Merletti, Bruno Tognolini - Salani
  • Nati per leggere - Una guida per genitori e futuri genitori a cura di Associazione Italiana Biblioteche, Associazione Culturale Pediatri, Centro per la salute del Bambino - AIB
Suggerimenti di lettura per i più piccoli:
  • Guarda che faccia di Stefania Manetti e Pasquale Causa - Giunti Kids
  • Dieci dita alle mani, dieci dita ai piedini di  M. Fox e H. Oxenbury - Il castoro
  • Dormi dormi, tartaruga di Roberto Aliaga e Alessandra Cimatoribus - Logos
  • Un nido di filastrocche di Janna Carioli e Rachele Lo Piano - Sinnos
  • Oh, che uovo!  di Eric Battut - Bohem Press
  • Morsicotti, Cri e Ninie -Topipittori
  • Indovina Chi…di Guido Van Genechten - Clavis
  • Dormi tranquillo piccolo coniglio di Stefan Gemmel e Marie-José Sacré - Bohem Press
  • Un piccolo passo di James Simon - Zoolibri
  • Ninnananna per una pecorella di Eleonora Bellini, Topipittori
  • Fiabe per occhi e bocca di Roberto Piumini e Emanuela Bussolati - Einaudi Ragazzi


(www.paginemamma.it)

domenica 14 agosto 2011

LA COMUNICAZIONE

 

Nozione psicologica e filosofica

La comunicazione (dal latino cum = con, e munire = legare, costruire e dal latino communico = mettere in comune, far partecipe) non è soltanto un processo di trasmissione di informazioni (secondo il modello di Shannon-Weaver). In italiano, il termine "comunicazione" ha il significato semantico di "far conoscere", "rendere noto". La comunicazione è un processo costituito da un soggetto che ha intenzione di far sì che il ricevente pensi o faccia qualcosa.

Studi e descrizione

La comunicazione riguarda sia l'ambito quotidiano (ad esempio un colloquio tra amici) sia l'ambito pubblicitario e delle pubbliche relazioni: in ciascuno di questi ambiti la comunicazione ha diverse finalità. Gli agenti della comunicazione possono essere persone umane, esseri viventi o entità artificiali. Infatti è colui che "riceve" la comunicazione ad assegnare a questa un significato, per cui è la potenzialità creativa dell'essere umano ad assegnare significati ad ogni cosa, creando il "sistema comunicazione" con le sue due caratteristiche: l'immaginazione e la creazione di simboli.
È tuttavia argomento di discussione se la comunicazione presupponga l'esistenza di coscienza, o se si tratti di un processo che può avvenire anche tra macchine. Se infatti è colui che riceve la comunicazione ad assegnare un significato ogni "cosa" può comunicare.
Il concetto di comunicazione comporta la presenza di un'interazione tra soggetti diversi: si tratta in altri termini di una attività che presuppone un certo grado di cooperazione. Ogni processo comunicativo avviene in entrambe le direzioni e, secondo alcuni, non si può parlare di comunicazione là dove il flusso di segni e di informazioni sia unidirezionale. Se un soggetto può parlare a molti senza la necessità di ascoltare, siamo in presenza di una semplice trasmissione di segni o informazioni.
Nel processo comunicativo che vede coinvolti gli esseri umani ci troviamo così di fronte a due polarità: da un lato la comunicazione come atto di pura cooperazione, in cui due o più individui "costruiscono insieme" una realtà e una verità condivisa (la "struttura maieutica" proposta da Danilo Dolci); dall'altro la pura e semplice trasmissione, unidirezionale, senza possibilità di replica, nelle varianti dell'imbonimento televisivo o dei rapporti di caserma. Nel mezzo, naturalmente, vi sono le mille diverse occasioni comunicative che tutti viviamo ogni giorno, in famiglia, a scuola, in ufficio, in città.

Un modello formale di comunicazione

Generalmente si distinguono diversi elementi che concorrono a realizzare un singolo atto comunicativo.
  • Emittente: è la persona che avvia la comunicazione attraverso un messaggio.
  • Ricevente: accoglie il messaggio, lo decodifica, lo interpreta e lo comprende.
  • Codice: parola parlata o scritta, immagine, tono impiegata per "formare" il messaggio.
  • Canale: il mezzo di propagazione fisica del codice (onde sonore o elettromagnetiche, scrittura, bit elettronici).
  • Contesto: l' "ambiente" significativo all'interno del quale si situa l'atto comunicativo.
  • Referente: l'oggetto della comunicazione, a cui si riferisce il messaggio.
Come si è detto, il processo comunicativo ha una intrinseca natura bidirezionale, quindi il modello va interpretato nel senso che si ha comunicazione quando gli individui coinvolti sono a un tempo emittenti e riceventi messaggi.
In realtà, anche in un monologo chi parla ottiene dalla controparte un feedback continuo, anche se il messaggio non è verbale, un esempio ne è la frase: "parla quanto vuoi, io non ti ascolto". Questo fenomeno è stato riassunto con l'assioma (di Paul Watzlawick) secondo il quale, in una situazione in presenza di persone, "non si può non comunicare": perfino in una situazione anonima come in un vagone della metropolitana noi emettiamo per i nostri vicini continuamente segnali non verbali (che significano pressappoco "anche se sono a pochi centimetri da te, non ti minaccio e non intendo immischiarmi nella tua sfera intima"), e i nostri compagni di viaggio accolgono il messaggio, lo confermano e lo rinforzano ("bene; lo stesso vale per me nei tuoi confronti").
Già da questo semplice modello possiamo individuare diversi aspetti potenzialmente problematici del processo comunicativo:
  • Il processo di comunicazione, pur essendo formalmente cosa separata dal mezzo attraverso il quale avviene, ne è altamente influenzato: se utilizzo il codice Morse, cercherò di limitare il messaggio allo stretto necessario, se utilizzo una lettera userò un tono tendenzialmente più formale rispetto ad una telefonata. Il mezzo influenza la comunicazione, ciascuno in un modo diverso, e quindi si potranno individuare dei mezzi di comunicazione particolarmente adatti a trattare un certo argomento, ma inadatti ad un altro.
  • Non è detto che il gran numero di singoli messaggi, verbali e non verbali, emessi in un dato momento (vedi oltre), siano sempre congruenti tra loro. Posso dire due cose diverse con le parole e con i gesti (ad esempio dire al mio rivale in amore "lieto di conoscerti" con un'espressione del volto assai contrariata).
  • Non è detto che l'interpretazione del contesto all'interno del quale avviene lo scambio comunicativo sia sempre identica o congruente. Nell'aula di una scuola, il docente potrà pensare di avere uno stile partecipativo e "democratico", mentre lo studente potrà sentirsi parte di una relazione asimmetrica e autoritaria.
Da quanto appena detto emerge chiaramente che la comunicazione non sempre "funziona"; questo dato viene confermato innumerevoli volte dalla nostra esperienza quotidiana. In situazioni particolari come i conflittipatologie mentali la comunicazione diventa particolarmente difficile e può produrre ulteriore disagio. interpersonali, o anche quando sono in gioco 

Modelli di comunicazione interpersonale

Paul Watzlawick e colleghi (1967) hanno introdotto una differenza di fondamentale importanza nello studio della comunicazione umana: ogni processo comunicativo tra esseri umani possiede due dimensioni distinte: da un lato il contenuto, ciò che le parole dicono, dall'altro la relazione, ovvero quello che i parlanti lasciano intendere, a livello verbale e più spesso non verbale, sulla qualità della relazione che intercorre tra loro.
Il modello di Friedemann Schulz von Thun: il quadrato della comunicazione.
 
In epoca recente (1981), lo psicologo Friedemann Schulz von Thun, dell'Università di Amburgo, ha proposto un modello di comunicazione interpersonale che distingue quattro dimensioni diverse, nel cosiddetto "quadrato della comunicazione":
  • Contenuto: di che cosa si tratta? (lato blu del quadrato, in alto).
  • Relazione: come definisce il rapporto con te, che cosa ti fa capire di pensare di te, colui che parla? (lato giallo, in basso).
  • Rivelazione di sé: ogni volta che qualcuno si esprime rivela, consapevolmente o meno, qualcosa di sé (lato verde, a sinistra).
  • Appello: che effetti vuole ottenere chi parla? Ciò che il parlante chiede, esplicitamente o implicitamente, alla controparte di fare, dire, pensare, sentire. (lato rosso, a destra).
Queste quattro dimensioni si possono tener presenti sia nel formulare messaggi che nell'ascolto e nell'interpretazione dei messaggi di altri. In questo secondo caso la "scuola di Amburgo" parla delle "quattro orecchie" (corrispondenti ai "quattro lati del quadrato della comunicazione") su cui ci si può sintonizzare. Ad esempio, per riuscire a "prendermela", ad offendermi nell'ascoltare la comunicazione x, dovrò assegnare ad essa significato sintonizzandomi sull'orecchio "giallo", quello che tende a vedere nella comunicazione degli altri il loro soppesarci, il segno cioè di quanto questi ci rispettino. Questo modello visualizza come noi si sia sempre liberi di assegnare a qualsiasi comunicazione un significato oppure un altro, evidenzia così il potere di chi ascolta nel contribuire a definire la qualità di una interazione. Con un poco di allenamento è possibile, ad esempio, sintonizzarci sull'orecchio verde, invece che su quello giallo, e chiederci, dentro di noi, di fronte ad una comunicazione che ci pare irritante (e lo farà solo se siamo sintonizzati sull'orecchio giallo!): "come si sente, la persona che parla, per sentire il bisogno di parlarmi in questo modo?"
La comunicazione interpersonale, che coinvolge più persone, è basata su una relazione in cui gli interlocutori si influenzano vicendevolmente come in un circolo vizioso.
La comunicazione interpersonale si suddivide a sua volta in tre parti.
  • La comunicazione verbale, che avviene attraverso l'uso del linguaggio, sia scritto che orale, e che dipende da precise regole sintattiche e grammaticali.
  • La comunicazione non verbale, la quale invece avviene senza l'uso delle parole, ma attraverso canali diversificati, quali mimiche facciali, sguardi, gesti, posture.
  • La comunicazione para verbale, che riguarda in ultima analisi nella voce. Ossia nel tono, nel volume e nel ritmo. Ma anche nelle pause ed in altre espressioni sonore quali lo schiarirsi la voce ad esempio oltreché nel giocherellare con qualsiasi cosa capiti a tiro di mano.
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Bibliografia

  • De Saussure F., Corso di linguistica generale, (a cura di Tullio De Mauro), Laterza, Roma-Bari[1967], 2009.
  • Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D., Pragmatics of Human Communication, W.W. Norton, New York 1967. Trad. italiana: Pragmatica della Comunicazione Umana, Astrolabio, Roma 1971. ISBN 88-340-0142-7
  • Eco U., Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975. ISBN 88-452-0049-3
  • De Mauro T., Minisemantica dei linguaggi non verbali e delle lingue, Laterza, Roma - Bari 1982. ISBN 88-420-2006-0
  • Matterlat A. e M., Storia delle Teorie della Comunicazione, titolo originale: Histoire des theories de la communication, Lupetti, Milano 1997. ISBN 88-86302-88-6
  • Riva G., Galimberti C., La comunicazione virtuale. Dal computer alle reti telematiche: nuove forme di interazione sociale, Guerini e Associati, Milano 1997.ISBN 88-7802-783-9
  • Schulz von Thun F., Miteinander Reden, 1981, Hamburg
    Trad. italiana: Parlare insieme, Tea, Milano 1997.
  • Boccia P., Comunicazione e mass media, Zanichelli, Bologna 1999. ISBN 88-08-07357-2
  • Villamira M., Inter Actio o dell'interazione tra sistemi, Franco Angeli, Milano 2001. ISBN 88-464-1422-5
  • Lever F., Rivoltella P.C., Zanacchi A., La comunicazione. Il dizionario di scienze e tecniche, ERI-LAS-Elledici, Roma 2002.
  • Arielli E., Scotto G., Conflitti e mediazione, Bruno Mondadori, Milano 2003.
  • Marrone C., Le lingue utopiche, Nuovi Equilibri, Viterbo 2004, [1995].ISBN 88-7226-815-X
  • Boccia P., Linguaggi e multimedialità, Simone Scuola, Napoli 2004. ISBN 88-244-8707-6
  • Perniola M., Contro la comunicazione, Einaudi, Torino 2005.
  • Morcellini M., Industria culturale, TV e tecnologie tra XX e XXI secolo, Carocci, Roma 2005. ISBN 88-430-3125-2
  • Anolli L., Fondamenti di psicologia della comunicazione, Il Mulino, Bologna 2006. ISBN 88-15-10860-2
  • Bosticco G., Riempire i vuoti. Un manuale (soggettivo) di scrittura e comunicazione, Ibis, Como-Pavia 2007. ISBN 88-7164-241-4
  • Pacori M., Come interpretare i messaggi del corpo, DVE Editore Milano 2007.
  • Pacori M., I Segreti della Comunicazione, DVE Editore, Milano 2007.
  • Rumiati R., Lotto L., Introduzione alla psicologia della comunicazione, Il Mulino, Bologna 2007. ISBN 88-151-1538-6
  • Perniola M., Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, Torino 2009.
  • Witzany G., Biocommunication and Natural Genome Editing, Springer Verlag, Berlino 2009.
  • Marrone C., I segni dell'inganno. Semiotica della crittografia, Nuovi Equilibri, Viterbo 2010. ISBN 978-88-6222-132-0

sabato 13 agosto 2011

CREATIVITA' E DEVIANZA

La eccentricità dei creativi rispetto alle norme costituite è spesso offerta all’aneddoto quale esorcismo del loro potenziale di distruzione: distruzione delle norme, appunto, ma anche dei rapporti sociali ad esse sottostanti. La creatività è, dopo tutto, una sfida all’ordine costituito, poiché conduce in ultima analisi alla competizione tra concezioni e modi di essere diversi. Il conflitto con la norma è infatti parte integrante dell’agire creativo, e non di rado l’innovazione finisce per cancellare la vecchia norma per istituirne una nuova.


 La creatività, intesa come capacità umana di innovare introducendo nell’ordine costituito novità suscettibili di comune fruizione, implica il confronto con la tradizione. Non si dà, infatti, nulla che possa dirsi “nuovo” senza l’applicazione di criteri di giudizio costituitisi all’interno di una tradizione condivisa.

L’originalità del creativo impone quindi una cesura con quanto appare non-originario, ma, appunto, derivato dal complesso delle conoscenze tramandate. Tale rottura con il conosciuto si accompagna inevitabilmente ad un conflitto, nel corso del quale la capacità di affermazione del <nuovo> è messa alla prova di contro al potere della tradizione di negarlo, riassorbirlo, oppure accettarlo.

La eccentricità dei creativi rispetto alle norme costituite è spesso offerta all’aneddoto quale esorcismo del loro potenziale di distruzione: distruzione delle norme, appunto, ma anche dei rapporti sociali ad esse sottostanti.

La bizzarria e le stravaganze degli inventori (l’Archimede Pitagorico dysneyano ne è un prototipo), degli scienziati (ricchissimi gli esempi, da Talete ad Einstein), degli artisti (da Apollodoro che distrugge le statue delle quali non è soddisfatto a Michelangelo che dialoga con le sue creazioni) permettono al senso comune di porre una distanza tra il proprio sentire e quello, ammirato ma anche temuto, di colui che può realmente, con la sua arte e la sua tecnica, cambiare il mondo. In effetti lo stereotipo dell’artista eccentrico e dello scienziato pazzo ha spesso svolto un ruolo di protezione nell’immaginario collettivo di fronte alla paura ed al sospetto che l’eccellenza e la diversità del prossimo ha sempre ingenerato nei più.

La creatività è, dopo tutto, una sfida all’ordine costituito, poiché conduce in ultima analisi alla competizione tra concezioni e modi di essere diversi. I creativi, d’altra parte, sembrano talora volontariamente “indossare” il ruolo degli eccentrici (un esempio celebre fu il pittore Dalì) come strategia di difesa rispetto alla fama di sovversivi, ma anche a dimostrazione di una volontà di sfida nei confronti dello status quo (lo stesso Salvator Dalì o il compositore Cage). Tale attitudine di sfida, espressa attraverso bizzarrie e stravaganze nei comportamenti, può anche permettere che il desiderio di trasformazione ed innovazione che la maggioranza dei non creativi trova difficile esprimere per sé trovi incarnazione in figure protette dall’aura della notorietà, in tal modo favorendo la proiezione su “dissidenti di successo” di istanze contestatarie, così come i desideri di amore e lusso sono proiettati sui divi dei rotocalchi.

Tratti di eccentricità, incongruenza ed inadeguatezza nei comportamenti sono però anche effettivamente individuabili nelle personalità degli individui creativi. Come ricordano Rudolf e Margot Wittkower nel loro studio sulla figura dell’artista intitolato <Nati sotto Saturno>, tratti quali <<l’eccessiva vanità e sicurezza di sé, o la facilità all’ira, o l’incertezza dei discorsi e delle azioni, la diffidenza per gli altri e il non essere degni di fiducia altrui, l’estremo riserbo e l’intollerabile loquacità>> abbondano nelle biografie degli artisti.

Studi condotti con strumenti psicometrici moderni hanno confermato tra gli individui creativi, accanto a qualità positive, anche elementi segnati da impulsività, aggressività ed antisocialità.

In una serie di studi Cattell (1955), uno dei padri della moderna psicometria (la misurazione con appositi tests delle qualità psicologiche di una persona), ha individuato nel campione di individui creativi da lui indagato (un gruppo di scienziati) elementi distintivi rispetto alla popolazione generale quali schizotipia, auto-sufficienza, instabilità emotiva, radicalismo e disinteresse per le convenzioni.

In uno studio condotto su studenti universitari, Welsh (1975) ha individuato alcuni tratti caratteristici dei più creativi, molti permeati da evidenti elementi di antisocialità: instabilità, ribellismo, egocentrismo, mancanza di tatto, intemperanza, impulsività, trascuratezza.

Il rifiuto delle regole costituite rappresenta, in effetti, un elemento comune dei soggetti creativi, in mancanza del quale difficilmente sarebbero intrapresi progetti di innovazione.

La medesima attitudine può però favorire una più generale tendenza alla devianza, che alcuni ricercatori hanno riconosciuto come aspetto tra i più caratteristici della creatività.

Lo psichiatra e criminologo italiano Cesare Lombroso è stato, nell’Ottocento, il più coerente sostenitore di una relazione tra genialità creativa e devianza psicopatica. A suo giudizio l’uomo di genio, il criminale ed il folle erano accomunati dal loro essere “eccessivi” rispetto alla popolazione generale. Tale intrinseca devianza rispetto alla media avrebbe avuto base costituzionale, esprimentesi, secondo le circostanze, con modalità adattative (il genio), disadattative (il folle), o anti-sociali (il criminale). Per Lombroso, che ai suoi contemporanei apparve spesso paradossale esempio delle proprie teorie, una distanza sottile separa il genio dal folle, e per buona parte della vita lo psichiatra e criminologo si ingegnò a trovare dimostrazione di questa sua teoria, suscitando entusiastici consensi o scandalizzate ripulse.

A partire dai suoi studi, riassunti in un fortunato volume (<L’uomo di genio>, che fece il paio con un altrettanto celebre <Uomo Delinquente>), il tema della relazione tra creatività e malattia mentale acquista un crescente rilievo nella storia della “giovane” scienza psichiatrica, rinata, in epoca moderna, con la Rivoluzione Francese, che condusse Pinel al gesto teatrale della <liberazione dei folli dalle catene>, immortalato in un celebre quadro.

Il tema di un possibile legame tra eccellenza creativa e malattia mentale è comunque molto anteriore a Lombroso: la prima formulazione è contenuta in un breve testo poi inserito nel canone aristotelico, a noi giunto con il titolo di <Problemata XXX>. Durante il Rinascimento il tema ebbe nuova formulazione; trascurato dal “malinconico” Seicento e dal troppo razionale Settecento, il tema risorgette a nuova vita durante la breve stagione del Romanticismo. Lombroso “ereditò” il problema dai suoi predecessori, traducendolo nel linguaggio rozzamente scientista della sua epoca, imprimendogli, però, il segno particolare del suo personale, precorritore ma spesso frainteso, genio. Nonostante l’acceso dibattito che seguì gli studi di Lombroso, che stimolarono ricerche volte a dimostrare la tesi opposta, di una sostanziale “sanità” del genio, anche gli studi più recenti sembrano indicare una maggiore prevalenza di disturbi mentali tra i soggetti creativi, in particolare se artisti, rispetto alla popolazione generale (per un approfondimento: Creatività e psicopatologia).

L’argomento è tuttora aspramente dibattuto, ma la maggiore propensione alla non convenzionalità ed originalità dei soggetti creativi potrebbe essere in parte spiegata proprio da tratti di psicopatologia più o meno eccentrici, sino allo sviluppo di disturbi mentali.

La medesima relazione tra creatività e malattia mentale potrebbe spiegare anche la tendenza all’antisocialità osservata in alcuni individui creativi. Numerosi studi, in effetti, indicano l’esistenza di legami tra disturbi mentali, soprattutto disturbi che implichino un alterato rapporto con la realtà (psicosi) o un anomalo controllo degli impulsi (alcuni disturbi di personalità), e propensione a comportamenti aggressivi o apertamente antisociali, quali teppismo, delinquenza o crimini.

Tre classi di studi sembrano confermare l’esistenza di una relazione tra malattia mentale e devianza. Un primo gruppo di studi ha riconosciuto una maggiore prevalenza di disturbi mentali tra gli imputati di reati contro la persona (atti violenti) o la proprietà (furti o danneggiamenti) per confronto con controlli estratti dalla popolazione generale. Individui sottoposti a trattamento ospedaliero per un disturbo mentale hanno inoltre un rischio maggiore di subire un arresto per infrazioni legali per confronto con individui “sani” (mai ricoverati o mai trattati per un disturbo mentale).

Un secondo gruppo di studi ha indagato la frequenza di comportamenti aggressivi o illegali nella popolazione generale. Anche questo gruppo di studi ha riscontrato una prevalenza maggiore di comportamenti illegali (almeno per quanto riguarda quelli ammessi durante le interviste) tra coloro che ammettono di essere in cura per un disturbo mentale rispetto ai “sani” (coloro, cioè, che negano di essere mai stati in trattamento per un disturbo mentale).

Un terzo gruppo di studi ha indagato i “percorsi biografici” di intere classi generazionali (studi di coorte: sono indagati tutti coloro che, in una data area, sono nati durante un pre-definito periodo, e quindi condividono le medesime condizioni di sviluppo sul piano ambientale). Anche questi studi hanno osservato una relazione tra disturbi mentali e antisocialità (espressa attraverso comportamenti aggressivi o illegali).

L’insieme di questi studi suggerisce percorsi tra sofferenza mentale e devianza suscettibili di interpretazioni anche tra loro molto distanti, e nel complesso non si sottrae a critiche metodologiche o di valutazione. Al di là delle critiche, e dell’osservazione che solo una minoranza di individui affetti da disturbi mentali si esprime in modo antisociale, per di più interessando non più del 5 % dei crimini commessi nelle odierne società occidentali, tali studi suggeriscono l’esistenza di basi neuropsicologiche della devianza il cui approfondimento potrebbe contribuire ad alleviare le sofferenze dei malati, delle loro famiglie, e delle comunità cui appartengono.

E’ verosimile che l’area della devianza sia costituita da tre classi di popolazione: una, rappresentata da coloro che si esprimono in senso antisociale a causa di un disturbo mentale che ne compromette le capacità di giudizio o di controllo degli impulsi; una seconda, costituita da coloro che infrangono la legge per motivi essenzialmente socio-economici (povertà, disagio sociale, conflitti insanabili, necessità di riparare un torto non risarcibile per via giudiziaria); una terza, infine, che raggruppa coloro che hanno “scelto” il crimine come professione.

La creatività sicuramente “attraversa” questi diversi ambiti della devianza, contribuendo alla “riuscita” in quei campi ove il conflitto con l’ordine costituito può trovare soluzione nella rottura della norma piuttosto che nella sua innovazione.

La letteratura ed il cinema forniscono continuamente figure di criminali dotati di talento geniale nell’aggirare la legge: Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo, Phantomas, l’imperscrutabile criminale, sino al perfido ma romantico Diabolik, sono figure che incarnano il ruolo del <genio del male> che la religione ha volentieri consegnato ad elaborazioni più terrene.

Gli annuari della criminologia riportano anch’essi storie di criminali di genio, più rare di quanto la fantasia non vorrebbe credere, ma comunque in numero sufficiente a testimoniare un impegno della creatività a fini delinquenziali.

L’arte stessa, peraltro, ha fatto dell’inganno e della truffa attraverso il falso un’industria fiorente, ed il confine tra autenticità e simulazione ha spesso giocato un ruolo non secondario nella storia delle arti, in particolare durante tutto il Seicento (non a caso il secolo della “melanconia”).

In alcuni artisti il confine tra eccentricità visionaria e aperta devianza è stato, però, superato, e di molto, come testimoniano le vite di Benvenuto Cellini, coinvolto in crimini e delitti, e del Caravaggio, ucciso in circostanze misteriose dopo una vita votata all’eccesso. D’altra parte il conflitto con la norma è parte stessa dell’agire creativo, e non di rado l’innovazione finisce per cancellare la norma per istituirne una nuova.

L’avvento dell’era della comunicazione globale attraverso la rete (Internet o Web che dir si voglia) ha riproposto in forme paradossali il conflitto tra norma, innovazione, e libertà.

I casi recenti della comunità Napster, e quelli collegati all’uso di programmi per la riproduzione in rete o su computer di materiali soggetti a leggi di tutela (MP3 per la musica, o analoghi sistemi per i filmati), sono esemplari nell’illustrare i complessi problemi che la libera iniziativa creativa, e la fruizione dei relativi prodotti da parte del pubblico, pone all’ordine costituito (in questo caso  insorto a tutela dei corposi profitti delle Major discografiche).

La creatività si è però espressa spesso anche in senso opposto, nel limitare, cioè, la libertà altrui, rafforzando il potere di una minoranza. Gli sforzi di alcune case produttrici di software nell’indirizzare l’uso dei propri programmi in senso autoreferenziale sono stati oggetto di recente delle attenzioni del comitato americano incaricato di far rispettare la legislazione anti-trust (cioè contro la formazione di monopoli, che limiterebbero la scelta del consumatore) negli Stati Uniti.

La possibilità che l’agire creativo non sia orientato esclusivamente alla liberazione delle energie e potenzialità inespresse deve essere quindi sempre considerata, e legittimo è il diritto di esprimere riserve o dubbi sulle <magnifiche sorti e progressive> dell’innovazione, soprattutto quando guidata da interessi privati.

L’esistenza di motivazioni non propriamente “cristalline” nell’agire creativo fu sospettata sin dal suo sorgere dalla psicoanalisi, che vide nell’atto creativo la forma più pura di sublimazione, in ciò alimentata da conflitti interiori relativi a pulsioni “animali” sentite come intollerabili (e quindi non esprimibili se non in forma deviata rispetto al fine, e cioè, appunto, sublimata). Sigmund Freud riteneva che conflitti inconsci riguardanti potenti ed inespressi impulsi sessuali, ed anche più arcaiche pulsioni, offrissero motivazione per lo sforzo creativo in termini di energia indirizzabile per lo sforzo produttivo, deviando in tal modo parte della tensione che altrimenti avrebbe potuto produrre angoscia. Otto Rank in seguito sottolineò come, almeno in campo artistico, i medesime conflitti psicologici potessero offrire, oltre che alimento per lo sforzo creativo, anche materia di creazione, permettendo l’espressione di impulsi socialmente condannati quali l’odio, la gelosia, l’invidia. Le opere di Shakespeare sono, in tal senso, una miniera di esempi, e non sfuggirono allo sguardo attento, e talora un po’ bizzarro, degli esegeti di formazione psicoanalitica.

Gli aspetti più negativi della realtà, accanto a quelli più felici, hanno fornito ampia materia per la creazione artistica, e ben si può dire, parafrasando Nietzsche, che senza crudeltà non c’è arte.

La sofferenza alimentata dalla passione sembra muovere all’atto creativo quanto se non più del bisogno e della mancanza. Di ciò testimonia larga parte della produzione poetica occidentale, laddove in oriente la sofferenza sembra inabissarsi nella contemplazione dell’universo (le meravigliose poesie Cinesi, i magnifici “quadri” Giapponesi….).

Il pensiero sorge là dove c’è un pericolo, ed il creativo può essere colui che vede, nel pericolo, la possibilità della salvezza, forse perché, più di altri, soggiorna presso il lato più oscuro dell’umanità.


(Contributo on-line di Antonio Preti)