sabato 31 marzo 2012

LA PSICOLOGIA DI COMUNITA'




La Psicologia di Comunità è un’area di ricerca e di intervento sui problemi umani e sociali che si rivolge in modo particolare all’interfaccia tra la sfera personale e quella collettiva, tra la sfera psicologica e quella sociale. Si occupa pertanto di problemi relativi alla promozione del benessere, alla tutela della salute, al settore dell’igiene mentale, alla formazione di operatori in vari campi del lavoro sociale, ecc. Si indirizza per altro anche a problematiche di più ampio respiro che insorgono nella vita associata quali ad es., quelle dell’educazione, dell’orientamento scolastico e professionale, dell’occupazione e della disoccupazione, della sicurezza personale e sociale e della partecipazione all'istituzioni ed organizzazioni della società organizzata. La Psicologia di Comunità fa propria, per un verso, l’ottica della tradizione clinica che guarda all’essere umano in quanto portatore di un problema e, dall’altro, considera l’essere umano non come un individuo isolato, ma come un essere sociale. Ciascuno individuo attualizza nel contesto sociale le sue competenze specie-specifiche di ordine biologico e psichico: i processi psicologici sono dunque  strettamente interconnessi con quelli sociali.
Il concetto di comunità vale a specificare il senso di questa articolazione imprimendole un significato particolare. Tale concetto, infatti, sottolinea il valore (psicologico e politico) della relazione umana vista nel suo inserirsi nel quadro di un’attiva partecipazione al gruppo sociale nella sua territorialità locale. Ovviamente il concetto di comunità non è quello della «comunità organica» dell’idealismo tedesco: quello cioè di un’entità collettiva che trascende l’individuo e su di esso si impone quale unica dimensione in cui egli può trovare dignità, identità e completezza psicologica. La comunità non è da intendersi in opposizione all’idea di «individuo come principio e come valore»: è piuttosto uno strumento per dare forza alla dignità e all’identità personale nell’ambito di una società democratica capace di sviluppare questi valori attraverso le sue istituzioni e i servizi che offre al cittadino, proprio perché tutela nello stesso tempo i principi di solidarietà, di partecipazione, di uguaglianza.
La specificità della psicologia di comunità è data dalla considerazione dell’essere umano, quale coacervo di aspetti cognitivi ed emotivi, inserito nella realtà sociale. 
 L'essere umano non è un soggetto che reagisce passivamente agli stimoli esterni ma un soggetto che costruisce il mondo in modo attivo dal punto di vista della conoscenza, dell'emozione e dell'azione. Analizziamo nello specifico le tre dimensioni:
- "Cognizione": un individuo, posto davanti ad un oggetto, lo assimila integrandolo con conoscenze pregresse e costruisce una rappresentazione dell'oggetto (d’accordo con Neisser la conoscenza è frutto di una continua transazione dell'individuo con il mondo).
- "Emozione": l'essere umano connette il vissuto emozionale esperito con cognizioni che modulano e definiscono l'emozione stessa e la risposta comportamentale. Tale valutazione cognitiva (appraisal) dell'emozione, può anche seguire il processo di una dinamica inconscia.
-"Azione":  Il concetto di azione lega il soggetto alla dimensione dell’agire in un contesto. Il soggetto dell’azione non è quello del modello behaviorista, è anzi in contrapposizione ad una visione meccanicista: il soggetto in questione agisce intenzionalmente e modifica l’ambiente sul quale agisce.  L’individuo possiede capacità di autodeterminazione: dunque non solo soggetto desiderante e conoscente, ma soggetto attivo, capace di fare e di cambiare, dotato di risorse e non solo di difese.
Passiamo ora a definire nello specifico il concetto di Comunità. Essa costituisce uno stato particolare che ogni collettività può assumere, e non necessariamente una collettività concreta (Gallino “Dizionario di sociologia”, Torino, 1993). Una collettività può essere definita una comunità quando i suoi membri agiscono reciprocamente e nei confronti di altri, non appartenenti alla collettività stessa, anteponendo più o meno consapevolmente i valori, le norme, i costumi, gli interessi della collettività, considerata come un tutto, a quelli personali o del proprio sotto-gruppo o di altre collettività. Si parte dalla polis di Aristotele fino all’accezione di Comunità proposta dal Romanticismo sulla base della nozione di sentimento: prima quella del filosofo e teologo tedesco Schleiermacher, poi quella di Tönnies, che definisce la comunità come un organismo naturale in cui prevale una volontà comune, prevalgono gli interessi collettivi, i membri sono scarsamente individualizzati, l’orientamento morale e intellettuale è dato da credenze di tipo religioso, la condotta quotidiana è regolata dai costumi, la solidarietà è globale e spontanea, la proprietà comune. Nella società, al contrario, domina la volontà individuale, gli interessi dei singoli prevalgono, i membri sono fortemente individualizzati, l’azione di ciascuno è orientata all’opinione pubblica, la moda controlla l’agire quotidiano, la solidarietà si realizza solo in termini contrattuali e ruota intorno allo scambio di merci e servizi, la proprietà privata predomina.  Si ha una comunità quando l’orientamento dell’azione si fonda sull’appartenenza reciproca soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) dai membri, si ha società se ci sono interessi motivati razionalmente. Nel primo l’orientamento dell’azione è emotivo e tradizionalistico, mentre nella seconda è razionale rispetto allo scopo e al valore. In realtà, le relazioni sociali, secondo Weber (1922), hanno in parte carattere di una comunità e in parte il carattere di un’associazione.
Da qui si può evincere che la Società è una popolazione, una collettività insediata su un territorio delimitato da cui è escluso l’insediamento e il transito in massa di altre popolazioni, i cui membri condividono da tempo una medesima cultura, sono coscienti della loro identità e continuità collettiva, hanno tra di loro rapporti economici e politici, nonché particolari relazioni affettive, strumentali, espressive, complessivamente più intensi ed organici che non i rapporti e le relazioni che hanno con altre collettività. E’ dotata di strutture – che possono assumere forma di organizzazione o di stato – parentali, economiche, politiche, militari, per mezzo delle quali la popolazione è capace di provvedere ai principali bisogni di sussistenza, produzione e riproduzione biologica, materiale e culturale, di difesa interna ed esterna, di controllo del comportamento individuale ed associativo, di comunicazione e di distribuzione delle risorse (Gallino, “Dizionario di sociologia”, Torino,1993).
Dal concetto di società si passa a definire quello di Stato. Tale termine è spesso usato per denotare l’insieme di una società, cioè una data popolazione con i suoi organi di governo che occupa un territorio delimitato da cui sono escluse altre popolazioni. In termini sociologici la natura, il contenuto, la forma dello Stato, come parte della società, variano secondo due dimensioni: le funzioni che svolge, le strutture sociali in cui si realizza.  Lo Stato è una caratteristica universale delle società umane. 
Uno dei limiti della psicologia tradizionale è stato determinato dal voler considerare esclusivamente  il Soggetto epistemico, la psicologia di comunità assume come nucleo imprescindibile della propria indagine  l’analisi del Soggetto in situazione.
I fenomeni sociali e i concetti che essi comportano quali, quello di giustizia, dignità, libertà, sono strettamente legati al problema dell’etica e della moralità che regolano l’individuo all’interno della società, un individuo che sempre più agisce, sceglie e traduce le idee in fatti.
La norma sociale, la moralità divengono un aspetto fondamentale dell’interfaccia individuo-società. 
La libertà oggi è sempre più potere di, al di là di ogni norma morale, ma sempre più necessità di una moralità che diventi norma. In una società che si regola secondo le leggi di un’economia di mercato, le disuguaglianze crescono appiattendosi verso il molto alto e verso il molto basso, chi ha molto potere lo ha ancora, chi invece ne ha meno, ne avrà sempre meno. E’ questo lo scenario nel quale ci muoviamo. 
La visione etica contemporanea si basa sulla consapevolezza che la morale è guidata da una ragione e pertanto si può essere fiduciosi nella capacità razionale umana: c’è la possibilità di autocorreggersi, di rivedere i propri errori e quindi anche di spingersi ad agire, ad essere più concreti. E’ questo fondamento che motiva l’impegno etico-sociale. 
Il discorso sulla morale diventa ancora più complesso quando si intreccia con il discorso politico. Si può ben dire che non esiste una politica senza morale, potere e libertà sono strettamente legati alla questione della giustizia e del bene. Sandel e Taylor sostengono che una giustizia neutrale, indipendente da una concezione del bene sia  del tutto insostenibile. Secondo costoro depositaria del bene è la comunità, come luogo di appartenenza geografico, sociale, culturale. Il bene comune è anche il metro del bene individuale. Da questa concezione si può estrarre un concetto che ne diventa l’asse portante che è l’individualismo, secondo cui il soggetto con la propria capacità di scegliere, con le proprie azioni di cui diviene pienamente responsabile, costruisce una norma morale prettamente orientata in questo senso, cioè su misura delle sue effettive capacità, che se da un lato lo fanno sentire pienamente uomo, nel pieno dominio di sé, dall’altro, lo isolano e atomizzano. Taylor, in particolare, sottolinea il grosso rischio a cui si può andare incontro : “ La dignità umana è sempre legata a qualche forma di società (…) al di fuori della società viene minata alla base la possibilità stessa di realizzare ciò in cui la dignità stessa consiste”.


(Contributo On-line)

domenica 25 marzo 2012

NEUROSCIENZE E NEUROENDOCRINOLOGIA



L'accertamento della natura chimica della trasmissione nervosa, aveva indotto ad equiparare, dal punto di vista funzionale, i neuroni alle cellule endocrine. L'attività del sistema nervoso si svolgerebbe, in sostanza, con meccanismi di trasporto e trasduzione dell'informazione analoghi a quelli usati dal sistema endocrino. A quest'ultimo sistema, peraltro, l'organizzazione nervosa è accomunabile per le funzioni di integrazione e regolazione delle attività dei diversi apparati organici che entrambi svolgono. Queste sorprendenti analogie portarono, intorno agli anni '30, ad una crescente convinzione dell'esistenza di precise relazioni tra sistema endocrino e sistema nervoso. Ma attraverso quali meccanismi si realizzanno tali interazioni e quali sono le basi anatomiche e fisiologiche di questa "superorganizzazione" funzionale? La lunga e complessa ricerca su tali questioni doveva condurre, sul finire degli anni cinquanta, alla definizione di un'idea che ha di fatto rivoluzionato la neurobiologia e messo in discussione alcune delle sue più incrollabili certezze: il concetto di neurosecrezione.
La prima idea dell'esistenza di un'attività neurosecretoria diversa da quella localizzata a livello sinaptico venne suggerita nel 1928 dalle ricerche di Ernst Scharrer, sulla base dell'osservazione della presenza di grandi neuroni fortemente vascolarizzati e dotati di granuli secretori nell'ipotalamo di alcuni pesci teleostei.[1] Tali evidenze morfologiche furono ulteriormente sostanziate da indagini su altri animali, uomo compreso, e da osservazioni citologiche che testimoniavano la sostanziale identità tra gli organelli intracellulari individuati da Scharrer e quelli già dimostrati nelle cellule endocrine non nervose. Questi studi, inoltre, avevano dimostrato che il materiale secretorio prodotto da questi "neuroni gigantocellulari", localizzati nei nuclei sopraottico e paraventricolare dell'ipotalamo dei Mammiferi, è presente nelle fibre assoniche che conducono al lobo posteriore dell'ipofisi.[2] Soltanto nel 1951-52, tuttavia, W. Hild[3] e W.A. Stotler[4] riuscirono a specificare, rispettivamente sulle rane e sui gatti, l'esistenza e la direzione di un flusso assonico in queste fibre, dimostrando definitivamente che gli ormoni rilasciati dalla neuroipofisi, ossitocina e vasopressina sono elaborati a livello ipotalamico dai neuroni gigantocellulari.
Queste evidenze furono certo fondamentali per lo sviluppo del concetto di neurosecrezione e per la comprensione delle funzioni endocrine svolte dal sistema nervoso, ma non ponevano realmente in evidenza le interazioni e le integrazioni tra il controllo organico operato in via ormonale e quello realizzato in via nervosa. I prodotti rilasciati dai neuroni gigantocellulari dell'ipotalamo, infatti, agiscono in via diretta sugli organi bersaglio come qualunque altro ormone effettore del sistema endocrino.
Diverso è il caso dell'interazione tra sistema nervoso centrale, adenoipofisi e ghiandole periferiche in atto nel controllo di alcune funzioni fisiologiche come, ad esempio, la riproduzione. Il sistema riproduttivo, infatti, come dimostrò F.H. Marshall nel 1936, è soggetto, in special modo sotto l'aspetto della periodicità, all'influenza dei fattori ambientali, cioè a dire, da informazioni recettoriali che afferiscono al sistema nervoso centrale e da esso vengono elaborate.[5] Un'interazione triangolare tra ipotalamo, ipofisi e gonadi, era già stata, peraltro, ipotizzata nel 1932 da Walter Holweg e Karl Junkmann. Essi avevano evidenziato che una lesione ipotalamica nei cani, eseguita senza danneggiare l'ipofisi, poteva condurre ad un'atrofia genitale.[6] Nel 1937, l'endocrinologo inglese Geoffrey Wingfield Harris riesce ad indurre l'ovulazione nelle femmine di ratto, un fenomeno che normalmente si dà soltanto al momento del coito, attraverso la stimolazione elettrica dell'ipotalamo e dell'ipofisi.[7]
Il problema che si poneva ora ai ricercatori era quello dell'individuazione dei meccanismi con i quali si esercita l'interazione tra ipotalamo e ipofisi anteriore. Era apparso subito improbabile, data l'assenza di fibre nervose all'interno dell'adenoipofisi, che essi si realizzassero a livello nervoso. Era stata dimostrata, invece, nel 1933 la presenza di un letto vascolare venoso tra ipotalamo e adenoipofisi lungo l'infundibolo ipofisario[8] con un flusso diretto dalla prima alla seconda di queste strutture:[9] il sistema portale ipotalamo-ipofisario. L'importanza di questo sistema, tuttavia, venne intuita solo dieci anni più tardi da John Davis Green e Geoffrey Harris, i quali avevano eseguito studi dettagliati di questo distretto su vari Mammiferi. Essi furono i primi a suggerire che le funzioni adenoipofisarie potessero essere regolate dal sistema nervoso centrale «attraverso fattori umorali rilasciati lungo il sistema portale ipofisario».[10] Tale idea, pertanto, complicava ulteriormente la gerarchia dell'organizzazione endocrina, situando a livello centrale una nuova stazione dominante di controllo a retroazione.
La teoria di Green ed Harris, inoltre, si rivelò in breve corretta. Nel 1955, infatti, Murray Saffran, Andrew Schally e B.J. Benfey, dimostravano sperimentalmente l'esistenza del primo fattore di controllo ipotalamico, il releasing factor - questo fu il nome che essi diedero ai fattori umorali ipotizzati da Green e Harris - della corticotropina.[11] Ciò scatenò in molti laboratori la caccia ai releasing factors relativi agli altri ormoni adenoipofisari. L'esistenza del fattore di liberazione dell'ormone luteinizzante viene provata nel 1960 da S.M. McCann, S. Taleisnik e Friedmann, la sua struttura fu determinata nel 1971 da Schally. La presenza del fattore di rilascio della tireotropina fu dimostrata nel 1961da V. Schreiber e collaboratori. Schally, in seguito, riuscì ad isolare e sintetizzare tale ormone, rispettivamente nel 1966 e nel 1969. Nel giro di pochi anni, in tal modo, venne provata conclusivamente l'esistenza di un fattore di rilascio ipotalamico di natura peptidica (i peptidi sono macromolecole costituite da un numero limitato di aminoacidi) per ogni ormone dell'ipofisi anteriore, ma fu scoperta anche la presenza di prodotti ipotalamici con azione inibente la secrezione di quattro ormoni di tale ghiandola: la prolattina, l'ormone della crescita, la tireotropina e la melanotropina.
Agli inizi degli anni '70, dunque, era già disponibile un dettaglio piuttosto ricco di conoscenze sui meccanismi con cui il sistema nervoso centrale presiede alle funzioni endocrine. Meno precisa, invece, era la comprensione delle influenze esercitate sul sistema nervoso centrale dagli ormoni secreti nel sangue, che in tali funzioni vengono anche definiti neuromodulatori. La ricerca in questo campo, tuttavia, ha subito da allora uno sviluppo rapidissimo. Numerose, infatti, sono oggi le azioni ormonali sul sistema nervoso sperimentalmente accertate. Si conosce ad esempio, piuttosto specificamente, il controllo esercitato dalle gonadi sullo sviluppo del sistema nervoso, sulla sua caratterizzazione sessuale e sui comportamenti riproduttivi da esso mediati, il ruolo dell'insulina nel comportamento alimentare; quello dell'angiotensina nella regolazione della sete, l'influenza dei corticosteroidi sulle funzioni delle strutture cerebrali responsabili dei comportamenti emotivi e l'azione degli ormoni tiroidei sulla maturazione del sistema nervoso centrale. L'accertamento sperimentale dell'esistenza di recettori cerebrali per alcuni di tali ormoni ha già permesso di comprendere queste azioni in termini estremamente analitici.
Ancora più recentemente sono emerse, invece, le azioni neurotrope degli ormoni liberati dall'ipofisi ghiandolare. Tali azioni, che sembrano svolgersi per vie diverse da quella ematica, probabilmente attraverso il liquor cerebrospinale e i liquidi pericellulari, riguardano, in alcuni casi, le funzioni più complesse del sistema nervoso. Per esempio, Rigter e Crabbe hanno dimostrato che la corticotropina è un mediatore importante nei processi mnestici e di apprendimento,[12] mentre De Wied ha chiarito il ruolo di tale ormone nell'organizzazione dei comportamenti d'emergenza e nello stress.[13]
Rispetto a questi dati, tuttavia, maggiore portata teorica hanno, a nostro avviso, le nuove evidenze sulla modulazione dell'attività del sistema nervoso esercitata dalle sostanze peptidiche della neurosecrezione. Negli ultimi quindici anni, esse si sono andate accumulando con un ritmo esponenziale. Sono oggi noti, in alcune loro azioni centrali e periferiche, 40-50 neuropeptidi e si pensa che ve ne siano almeno altrettanti da scoprire. L'esplosione delle conoscenze su questa famiglia di agenti chimici del cervello ha, non solo, sconvolto il quadro teorico di riferimento delle neuroscienze, ma ha avuto, anche un notevole impatto su gravi problematiche socio-sanitarie. È il caso della scoperta delle endorfine, neuropeptidi con una struttura molecolare molto simile alla morfina, implicati nella modulazione del dolore e del tono emotivo, con le quali si stanno oggi indagando i meccanismi cerebrali della dipendenza alle droghe e dalle quali si tenta di trarre terapie efficaci per il recupero e la disintossicazione dei tossicodipendenti. Le endorfine sono state isolate e descritte nella loro struttura chimica da John Hughes e Hans W. Koesterlitz dell'università scozzese Aberdeen nel 1975,[14] sulla base della dimostrazione dell'esistenza di recettori cerebrali per sostanze morfino-simili fatta da Candace B. Pert e Solomon H. Snyder nel 1973.[15]
Due dimostrazioni ormai "datate" (la velocità con cui cresce la conoscenza in tale settore di ricerca fa diventare vecchie le indagini dopo pochi mesi), invece, possono chiarire dove risieda il significato rivoluzionario dei dati sui neuropeptidi. La prima è quella dell'azione di rinforzo della vasopressina sulla memorizzazione ed il ruolo dell'ossitocina nell'organizzazione dei comportamenti materni negli animali. La seconda è quella dell'identificazione della corrispondenza funzionale tra ruolo neurotropico e ruolo di controllo del sistema endocrino dei releasing factors. Ad esempio, il ruolo neurotropico dell'ormone di rilascio per la tireotropina si esplica a livello centrale in una serie di influenze attivatorie: aumento dell'attività motoria, aumento della vigilanza e del tono dell'umore. Ciò corrisponde alle funzioni di tale ormone nell'organizzazione endocrina, dove stimola la sintesi e la secrezione della tireotropina da parte della pituitaria e produce, in via periferica, il rilascio di ormoni tiroidei e l'attivazione metabolica generale. Tali attività neurotrope e tali corrispondenze funzionali suggeriscono, allora, che l'organizzazione dell'attività nervosa non si esaurisca, come si è pensato da Cajal e Sherrington in poi, soltanto in una struttura connessionistica fatta di vie nervose e sinapsi, ma includa anche un sistema proprio di più lente e persistenti, però precise, autoregolazioni umorali.
Una nuova idea dell'elaborazione nervosa dell'informazione si va così precisando e con essa un orizzonte rivoluzionario di nuovi modelli per la comprensione delle funzioni e delle patologie del sistema nervoso comincia a delineare il volto della neurobiologia del futuro.

Note 
1 E. Scharrer, «Die Lichttempfindlichkeit blinder Elritzen», Zeit. vergl. Physiol., 1928, 7, pp. 1-38.
2 R. Gaupp, E. Scharrer, «Die Zwischenhirnsekretion bei Mensch und Tier», Z. ges. Neurol. Psychiatr., 1935, 153, pp. 327-355.
3 W. Hild, «Experimental-morphologische Untersuchungen über das Verhalten der "Neurosekretorischen Bahn" nach Hypophysenstieldurchtrennungen, Eingriffen in den Wasserhaushalt und Belastung der Osmoregulation», Virchow Arch. path. Anat. physiol., 1951, 319, pp. 526-46.
4 W.A. Stotler, «The relationship ofthe terminals of the hypothalamic-hypophyseal tract in the morphology of the pars nervosa of the hypophysis of the cat», Anat. Rec., 1951, 114, p. 275 (abstr.).
5 F.H. Marshall, «Sexual periodicity and the causes which determine it», Phil. Trans. Roy Soc. Lond. (B), 1936, 226, pp. 423-56.
6 W. Holweg, K. Junkmann, «Die hormonal-nervöse Regulierung der Funktion des Hypophysenvorderlappenns», Klin. Wschr., 1932, 11, pp. 321-23.
7 G.W. Harris, «The induction of ovulation in the rabbit, by electrical stimulation of the hypothalamo-hypophysial mechanism», Proc. Roy Soc. Lond. (B), 1937, 22, pp. 374-94.
8 Gregor T. Popa, Una Fielding, «A portal circulation from the pituitary to the hypothalamic region», Anat. Rec., 1933, 65, pp. 88-91.
9 George B. Wislocki, Lester S. King, «The permeability of the hypophysis and hypothalamus to vital dyes, with a study of the hypophyseal vascular supply», Amer. J. Anat., 1936, 58, pp. 421-72.
10 J.D. Green, G.W. Harris, «The neurovascular link between the neurohypophysis and adenohypophysis», J. Endocrinol., 1947, 5, pp. 136-46.
11 Murray Saffran, A.V. Schally, B.G. Benfey, «Stimulation of the release of corticotropin from adenohypophysis by a neurohypophysial factor», Endocrinol., 1955, 57, pp. 439-44.
12 H. Rigter, J. Crabbe, «Modulation of memory by pituitary hormones», Vitamins and Hormones, 37, Academic Press, New York, 1979.
13 D. De Wied, "Pituitary-adrenal system hormones and behavior", in H. Selye (a cura di), Selye's guide to stress research, Van Nostrand Reinhold, New York, 1980.
14 J. Hughes e H.W. Koesterlitz et al., «Identification of two related pentapeptides from the brain with potent opiate agonist activity», Nature, 1975, 258, pp. 577-79.
15 C. Pert, S.H. Snyder, «Opiate receptor: demonstration in nervous tissue», Science, 1973, 179, pp. 1011-14.

(Contributo On-line)


martedì 6 marzo 2012

LE BASI NEUROANATOMICHE DELLO STRESS



Da un punto di vista anatomico, i sistemi che nell’organismo sono deputati al controllo della risposta agli stimoli stressanti sono essenzialmente due, peraltro interconnessi tra loro: l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e il sistema limbico.

L’ASSE IPOTALAMO-IPOFISI-SURRENE
Dopo lo stimolo stressogeno si assiste al coinvolgimento del sistema immunitario con rilascio di alcune citochine, tra cui principalmente IL-1, IL-6 e TNF. Queste a loro volta stimolano le cellule neuroendocrine del nucleo paraventricolare dell’ipotalamo a produrre il CRH (corticotropin releasing hormon), il fattore di rilascio della corticotropina, che entra nei capillari del circolo portale ipofisario e giunge alle cellule corticotrope dell’adenoipofisi, le quali secernono ACTH (adreno-cortico-tropic hormone, adrenocorticotropina) a partire dalla propiomelanocortina. L’organo bersaglio dell’ACTH è la zona fascicolata della corticale del surrene, che viene stimolata a produrre ormoni glicocorticoidi (cortisone).



Dal cortisone deriva il pregnenolone, da esso il progesterone, l’idrossiprogesterone, il deossicortisolo e infine il cortisolo che, in virtù delle modificazioni metaboliche, comportamentali e cardiovascolari che produce è universalmente riconosciuto come “l’ormone dello stress” (1). Elevati livelli di cortisolo, infatti, sono associati con diverse condizioni patologiche stress correlate: depressione, disturbi cognitivi, aumento della morbilità per malattie cardiovascolari (2), aumento della concentrazione sanguigna di sodio, depressione del sistema immunitario, ecc.

IL SISTEMA LIMBICO
Utilizzando tecniche di neuroimaging (RM) sono stati identificate le aeree neuroanatomiche che sottendono ai processi di percezione, cognizione ed emozione. I dati sui processi emotivi suggeriscono una comune rete neurale coinvolgente corteccia prefrontale, amigdala, insula, nuclei della base e il cingolato anteriore (3,4). In particolare, diverse sensazioni negative nascono dall’attivazione della corteccia prefrontale destra, dell’amigdala e dell’insula, mentre la corteccia prefrontale sinistra è associata ad emozioni positive e ai meccanismi di ricompensa (5).
Le strutture nervose deputate al controllo dei sistemi di attenzione e vigilanza sono stati localizzati nella corteccia prefrontale destra, nel lobo parietale e nel talamo. In particolare sembra che sia proprio la corteccia prefrontale destra a giocare un ruolo chiave nella risposta allo stress, sia in quanto strettamente correlata con i meccanismi emozionali e d’attenzione, sia perché in quest’area vengono rilasciati o agiscono alcuni mediatori dello stress (ormoni, neurotrasmettitori) (6).
L’attivazione di alcune aree della corteccia prefrontale destra è stata collegata con risposte affettive di carattere negativo e con la soppressione della risposta immunitaria, suggerendo che questa area cerebrale agisca da mediatore tra lo stress psicosociale e i suoi effetti sulla salute fisica e mentale (5).
Attualmente, il ruolo delle strutture cerebrali nei meccanismi di risposta allo stress è ancora in discussione; è stato ipotizzato ad esempio come una disfunzione di alcune regioni del sistema nervoso, quali amigdala, ippocampo e corteccia prefrontale, possa essere coinvolta nella genesi di alcune patologie a carattere psicofisico, come il disturbo post traumatico da stress (3); purtroppo però, gli studi che hanno indagato questo rapporto attraverso adeguati strumenti, quali le tecniche di neuroimaging, sono a tutt’oggi troppo pochi per pensare di agire su tali aree per realizzare un trattamento terapeutico per lo stress.
Tra le ricerche più interessanti, è sicuramente degna di nota quella del Center for Functional Neuroimaging dell’ Università della Pennsylvania, che ha studiato il circuito centrale dello stress attraverso una tecnica di risonanza magnetica funzionale perfusionale in grado di misurare il flusso ematico cerebrale, utilizzando l’acqua del sangue come mezzo di contrasto endogeno, nell’ipotesi che l’esposizione a fattori stressanti potesse determinare modificazioni del flusso cerebrale in determinate aree. I risultati di tale studio hanno dimostrato un incremento di flusso a livello della corteccia prefrontale destra, con un aumento significativo anche a livello dell’insula e del putamen (5). Dall’analisi dell’Università della Pennsylvania è emerso inoltre come la modificazione del flusso sia in grado di perdurare anche dopo la scomparsa dello stimolo stressogeno e come sia significativamente correlata con le fluttuazioni del cortisolo salivare e della frequenza cardiaca. Infine, da tale studio è arrivata anche la conferma della componente ansiogena insita nel processo stressogeno: le strutture cerebrali in cui si verificano modificazioni del flusso cerebrale, infatti, sono le stesse sia in caso di ansia che di stress (5).
Altri studi di neuroimaging hanno riscontrato risposte comuni a livello della corteccia prefrontale destra in alcune patologie di carattere psichiatrico: disturbo ossessivo-compulsivo, fobia e disturbo post-traumatico da stress, suggerendo la necessità di ulteriori approfondimenti su tali porzioni anatomiche per meglio affrontare i fenomeni stress correlati (3).

BIBLIOGRAFIA:
1. Ice GH. Factors influencing cortisol level and slope among community dwelling older adults in Minnesota. Journal of Cross-Cultural Gerontology. 20:91-108. 2005.
2. Ramsay D, Lewis M. Reactivity and Regulation in Cortisol and Behavioral Responses to Stress. Child Development. 74(2):456-464. 2003.
3. Davidson RJ, Irwin W. The functional neuroanatomy of emotion and affective style. Trends in Cognition Sciences. 3(1):11–21. 1999.
4. Dolan RJ. Emotion, Cognition, and Behavior. Science 298:1191–1194. 2002.
5. Wang J, Rao H, Wetmore GS, Furlan PM, Korczykowski M, Dinges DF, Detre JA. Perfusion functional MRI reveals cerebral blood flow pattern under psychological stress. Proceedings of the National Academy of Sciences. 102(49):17804-09. 2005.
6. Sarter M, Givens B, Bruno JP. The cognitive neuroscience of sustained attention: where top-down meets bottom up. Brain Research Reviews. 35:146–160. 2001.

(Contributo on-line)

lunedì 5 marzo 2012

LO STRESS


L'uso della parola «stress» in riferimento a ciò che ci accade provocandoci ansietà e al modo in cui ne siamo colpiti, venne introdotto da un ricercatore scientifico che prese in prestito il termine dalla tecnica delle costruzioni.
Il dottor Hans Selye, che cominciò la sua carriera come ricercatore alla McGill University di Montreal negli anni Trenta, era un endocrinologo, ossia uno specialista del sistema endocrino e degli ormoni che esso produce.
A quel tempo, gli scienziati sapevano molto poco sul ruolo che gli ormoni svolgono nell'organismo. Ogni ghiandola era un territorio sconosciuto che aspettava di essere esplorato. Selye stava cercando di imparare qualcosa su una particolare sostanza appena isolata nelle ovaie degli animali.
Nessuno sapeva a che cosa essa servisse e così Selye decise di iniettare quotidianamente un estratto ovarico a un gruppo di ratti, per osservarne gli eventuali effetti. Per avere un gruppo di controllo, Selye iniettò ad altri ratti una soluzione fisiologica che non conteneva estratto ovarico.
Diversi mesi dopo, Selye scoprì che i ratti trattati con l'estratto ovarico presentavano evidenti anomalie fisiche. Avevano sviluppato ulcere peptiche; le loro surrenali si erano ingrossate; il sistema immunitario era danneggiato.
Dapprima, Selye concluse che tutto questo danno era stato provocato dall'estratto ovarico.
Poi esaminò i ratti del gruppo di controllo, che non avevano ricevuto l'estratto, e rimase stupefatto nel riscontrare che anch'essi avevano subito lo stesso tipo di danno. Selye rimase completamente sconcertato da questi risultati.
Se l'estratto ovarico non era la causa dei cambiamenti fisici, di che cosa si trattava allora?
Dopo averci pensato un po', Selye teorizzò che, anche se il contenuto delle iniezioni cambiava, entrambi i gruppi di topi avevano un'esperienza in comune: avevano tutti ricevuto delle iniezioni quotidiane.
Selye rifletté sul processo di somministrazione di queste iniezioni, e si rese conto che i ratti non le gradivano affatto; in realtà, il trattamento dava loro così fastidio che spesso doveva tenerli fermi per eseguire l'iniezione, mentre si dibattevano e si dimenavano tentando di fuggire.
Selye ipotizzò che forse la semplice sensazione sgradevole delle continue punture aveva in qualche modo innescato le alterazioni osservate.
Escogitò allora ogni sorta di situazione per rendere la vita dei ratti spiacevole.
Li tenne in stanze fredde, li costrinse a nuotare nell'acqua gelata per non annegare, li legò in modo da impedire i loro movimenti e li sottoposte a un continuo rumore molesto. Alla fine del trattamento, i ratti presentavano tutti lo stesso danno fisico subito da quelli dell'esperimento precedente. Per descrivere le forze sgradevoli che provocavano le lesioni, Selye prese in prestito un termine che era stato usato nella tecnica delle costruzioni per descrivere le forze cui sono sottoposti ponti, edifici e altre strutture (ad esempio le forze di carico, il forte vento, i terremoti).
Questo termine, naturalmente, è «stress».
Gli esseri umani, come sappiamo tutti fin troppo bene, sono spesso soggetti allo stress. Quando succede, il corpo reagisce in molti modi diversi. Questa risposta allo stress è regolata dal sistema nervoso autonomo, lo stesso che controlla funzioni vitali come il battito del cuore. Il sistema nervoso autonomo ha due componenti, il sistema nervoso simpatico e il sistema nervoso parasimpatico.
Il primo controlla quella che gli scienziati chiamano «reazione di attacco o fuga». E questo un meccanismo ancestrale di difesa e l'esempio che si usa comunemente per descriverlo è tratto dalla preistoria.
Quando siamo soggetti a una situazione stressante (per esempio, andiamo a cercare bacche e ci troviamo improvvisamente di fronte a un orso affamato), la nostra corteccia cerebrale invia un segnale al sistema nervoso simpatico, dicendogli di preparare il corpo all'azione immediata (per esempio, correre!).
Le surrenali, cominciano a secernere quelli che gli scienziati chiamano ormoni dello stress, adrenalina e noradrenalina. A loro volta, questi ormoni innescano una reazione a catena, in cui il nostro corpo si prepara letteralmente allo scontro.
La pressione del sangue si alza, il cuore pompa più velocemente e il sangue viene stornato dall'apparato digerente e inviato ai muscoli, dove è necessario per sostenere la nostra fuga.
La velocità del metabolismo aumenta, e viene consumato più ossigeno per alimentare questa attività.
Le pupille si dilatano per far entrare più luce e migliorare la visione notturna. E mentre accade tutto questo, ancora altre cellule delle surrenali cominciano a produrre i corticosteroidi, altri ormoni dello stress, che causano un brusco aumento della glicemia per procurare combustibile.
Insomma, la reazione di «attacco o fuga» ci prepara all'azione. Ci dà l'energia di cui abbiamo bisogno per correre a perdifiato o per respingere il predatore. Il meccanismo era certamente utile in passato, al tempo delle caverne, quando leoni pronti al balzo, branchi di mastodonti in fuga e vicini bellicosi popolavano la vita quotidiana dei nostri antenati.
Tutta questa eccitazione fisica aveva un utile scopo - quello di salvare la vita - e gli ormoni dello stress venivano consumati nel processo.
Tuttavia oggi la maggior parte di noi fa esperienze diverse. Pochi si trovano ormai a combattere uncorpo a corpo, a cacciare animali selvaggi (o a esserne cacciati).
Le nostre giornate non sono piene di selvaggi predatori, ma di superiori feroci, clienti difficili, cassieri scorbutici, divorzi sgradevoli ed esasperanti problemi economici. Per il nostro cervello, comunque, tutto questo è stress e non appena viene percepito innesca la reazione di «attacco o fuga», mettendoci, per così dire, in assetto di guerra.
Il problema è che per la maggior parte di noi prendere a pugni il principale o darsela a gambe non sono di solito reazioni adeguate.
Poiché non possiamo combattere o scappare, gli ormoni dello stress rimangono nel nostro corpo inutilizzati e con il tempo, possono causare seri danni.
Gli ormoni dello stress possono compromettere ogni organo del corpo, dal cuore al cervello. La melatonina può attenuare gli effetti negativi degli ormoni dello stress, e così facendo può impedire moltissime malattie assai diffuse.
Infatti, molti disturbi che forse non avete mai ritenuto collegati allo stress possono in realtà essere provocati o esacerbati dalla troppa tensione. In questo capitolo noteremo in che modo la melatonina può proteggerci dai danni dello stress.
Lo stress e il cuore
Il cuore è particolarmente vulnerabile agli effetti dello stress cronico. l ricercatore Hans Selye, che, come abbiamo già detto, fu il primo a usare la parola «stress» in campo medico, ha scoperto che l'esposizione continua allo stress può distruggere parzialmente il muscolo cardiaco dei topi, anche nel caso che essi non avessero dato in precedenza alcun segno di malattia cardiaca.
Non siamo ancora sicuri del perché ciò accada, ma gli effetti dello stress sul cuore sono estremamente reali. E ben documentato che lo stressuccide le cellule cardiache e, se muoiono troppe cellule del cuore, moriamo anche noi.
Questo aspetto della cardiopatia, documentato da Selye, non gode di molta attenzione da parte dei cardiologi concentrati sull'aterosclerosi, ma è un campo di interesse clinico che merita di essere nuovamente considerato.
Pare che i corticosteroidi prodotti in risposta allo stress ledano tanto il muscolo cardiaco quanto le arterie che portano il sangue dal cuore al resto del corpo. Se le coronarie vengono compromesse al punto di non potere più assicurare un adeguato rifornimento di sangue, si può avere un infarto cardiaco.
Se è indebolito il rifornimento di sangue al cervello, può verificarsi un ictus. Lo stress può anche alzare la pressione sanguigna, la qual cosa può danneggiare il cuore.
Sebbene non sia del tutto compreso il meccanismo preciso con cui lo stress aumenta la pressione sanguigna, sappiamo che quando siamo sotto tensione (ad esempio nel caso di ferite) il corpo comincia a ritenere acqua e sale per incrementare il volume di sangue.
Se il volume di sangue diminuisce a causa di una emorragia, l'organismo non sarà in grado di fornire abbastanza ossigeno ed elementi nutritivi agli organi vitali. L'aumento del volume di sangue richiede un aumento a sua volta della pressione sanguigna, che aiuti il cuore a pompare il liquido in più.
E stato dimostrato che la melatonina attenua gli effetti negativi dei corticosteroidi normalizzando i loro livelli e, impedendo loro di diventare troppo alti. Così la melatonina può proteggere il nostro cuore e i vasi sanguigni dai danni arrecati dallo stress.
Lo stress e il diabete
Una prolungata esposizione ai corticosteroidi può alzare la glicemia, al fine di rendere disponibile il combustibile per la reazione di «attacco o fuga». Tuttavia, picchi di glicemia troppo frequenti possono anche aumentare il rischio di diabete.
In effetti, la scienza medica sa da molto tempo che i diabetici hanno livelli di corticosteroidi più alti del normale. Il diabete non è solo una grave malattia di per sé, ma può aumentare il rischio di essere colpiti da malattie cardiache, ictus e cecità.
Ancora una volta, la melatonina può impedire l'insorgere dei diabete da stress, contenendo l'effetto dei corticosteroidi e ostacolando in questo modo lo sviluppo di livelli glicemici troppo alti.
Lo stress e l'osteoporosi
Sebbene l'osteoporosi non sia una malattia collegata allo stress, l'esposizione continua ai corticosteroidi (gli ormoni dello stress) può indebolire le ossa e renderle soggette a incrinature e fratture.
L'osteoporosi, condizione diffusa tra le donne più anziane, è caratterizzata da ossa fragili, che perdono consistenza. Le complicazioni derivanti dagli insulti causati dall'osteoporosi (per esempio la frattura dell'anca) sono una delle principali cause di morte fra le donne più anziane.
Perché lo stress influisce sulla salute delle ossa?
I corticosteroidi bloccano la crescita di cellule speciali all'estremità delle ossa, necessarie per la formazione di nuove cellule. Grazie al suo controllo dei livelli di corticosteroidi, la melatonina può impedire questa insidiosa malattia che si accompagna a fratture dell'anca, invalidità precoce e addirittura alla morte.
Lo stress e le funzioni cerebrali
Gli ormoni dello stress danneggiano anche le cellule cerebrali e possono agire sulla nostra capacità di pensare chiaramente e memorizzare le informazioni. Infatti, è stato dimostrato che i corticosteroidi danneggiano le cellule dell'ippocampo, una parte del cervello che controlla la memoria a breve termine. Quando si invecchia, di solito si perde in qualche misura la capacità di ricordare nuove informazioni.
Per esempio, diventa più difficile rammentare nomi e volti di persone a cui siamo stati presentati di recente, e può volerci più tempo per elaborare e assimilare fatti nuovi. Forse
questa perdita di memoria a breve termine è dovuta al fatto che per tutta la vita siamo esposti allo 
stress. Alcuni ricercatori sospettano addirittura che il morbo di Alzheimer, che comporta anch'esso una perdita della memoria a breve termine, possa essere provocato da una lesione dell'ippocampo, a sua volta legata a un grave stress e alla prolungata esposizione ai corticosteroidi.
Anche qui, il positivo effetto della melatonina, che diminuisce i livelli di corticosteroidi, può proteggere il cervello dal danno dovuto allo stress.
Lo stress e il sistema immunitario
L'esposizione prolungata ai corticosteroidi prodotti sotto stress può anche deprimere il sistema immunitario. Molti studi hanno documentato che lostress riduce il numero dei leucociti, necessari a combattere le malattie.
Per esempio, diverse ricerche sui soldati, in situazioni di combattimento, hanno indicato che il loro sistema immunitario era notevolmente indebolito, lasciandoli in balìa delle infezioni.
Uno dei motivi di ciò è che lo stress eccessivo blocca la produzione di ormone tiroideo, essenziale per tutte le principali attività dell'organismo, compresa la produzione delle cellule immunitarie che combattono le malattie.
E stato anche dimostrato che gli ormoni dello stress possono effettivamente danneggiare le stesse cellule immunitarie, impedendo loro di svolgere il proprio compito in modo efficace.
Ho riprodotto in laboratorio l'effetto dello stress, iniettando negli animali il corticosterone e controllando poi la loro risposta immunitaria. Ho scoperto che il corticosterone deprimeva la produzione di anticorpi fino al 60%. In altre parole, questi animali erano mal preparati a difendere il proprio organismo dalle malattie, e lo stesso vale per gli esseri umani sotto stress.
In precedenza, quando discutevo della funzione immunitaria, ho mostrato esempi clamorosi di come lo stress possa compromettere l'immunità, esponendoci alla malattia. Per esempio, quando un animale è sottoposto a un forte stress, il suo timo comincia ad atrofizzarsi, fino a scomparire. Quando a questi animali è stata data della melatonina, dopo averli esposti a una situazione stressante, il timo è come ringiovanito e lo stesso è successo alla loro funzione immunitaria.
Abbiamo altri esempi, anche più eclatanti, di come la melatonina possa contrapporsi agli effetti dannosi dello stress. In un'altra ricerca, ho iniettato ad alcuni topi un'alta dose di corticosterone e, com'è ovvio, la loro risposta immunitaria è risultata gravemente depressa.
In tale stato, questi animali sarebbero caduti preda della prima infezione con cui fossero entrati in contatto. Tuttavia, ho somministrato loro un'iniezione serale di melatonina. Durante la
notte il loro sistema immunitario si riprese fino a tornare normale.
Questa è un'altra prova del fatto che la melatonina può bloccare alcuni danni inflitti dagli ormoni dello stress al sistema immunitario.
Lmelatonina non solo rinforza il sistema immunitario contro gli effetti nocivi dello stress, controllando i corticosteroidi, ma opera effettivamente con speciali sostanze chimiche che attenuano lo stress e sono prodotte dal sistema immunitario.
Queste sostanze sono chiamate endorfine, e sono antidolorifici naturali prodotti sia dal cervello sia dal sistema immunitario. Le endorfine non soltanto mitigano il dolore, ma possono anche ridurre l'ansia e favorire una sensazione di euforia.
Lmelatonina si è dimostrata capace di rinforzare l'effetto delle endorfine e così facendo di aiutare il corpo ad affrontare lo stress della malattia. L'effetto dello stress peggiora
con l'invecchiamento.
Lstress è duro da reggere per individui di ogni età ma, quanto più siamo anziani, tanto maggiore è il tributo che esige. Come abbiamo visto, lostress può infliggere danni fisici
a persone di qualsiasi età, ma quando invecchiamo queste ferite sono più difficili da affrontare.
Come detto in precedenza, sotto stress il corpo produce corticosteroidi, che possono causare serie lesioni a molti organi. Fra le altre cose, essi possono danneggiare il muscolo cardiaco, alzare la glicemia a livelli abnormi, compromettere la funzione tiroidea, inibire la risposta sessuale e smorzare la reazione immunitaria. Negli individui più anziani, i livelli di corticosteroidi rimangono alti per periodi più lunghi che non in quelli più giovani. Ne risulta che, quando siamo più vecchi, il nostro corpo è inondato da questi ormoni per periodi più lunghi e perciò è più esposto al danno.
Ciò che rende lo stress ancora più insidioso per gli anziani è il fatto che gli organi cominciano a indebolirsi, e non riescono a reggere ulteriori insulti da parte dei corticosteroidi. Per esempio, il sistema immunitario è già più debole e meno capace di ingaggiare battaglia contro gli invasori estranei. Anche la tiroide ha cominciato a esaurirsi.
Il cuore ora deve lavorare di più per pompare il sangue per tutto il corpo. Il declino dell'organismo rende un anziano ancora più suscettibile agli effetti negativi dello stress.
Quando invecchiamo, ogni situazione stressante provoca una reazione dell'organismo, sconvolgendo la nostra stabilità fisica e mentale. In altre parole ci fa perdere l'equilibrio. In età avanzata perdiamo elasticità e siamo più attaccati alle nostre abitudini non solo in termini di atteggiamento mentale, ma anche di capacità fisica di rispondere al cambiamento. Ogni assalto alla nostra psiche impone un pedaggio più gravoso e durevole.
Siamo meno preparati, tanto fisicamente quanto emotivamente, a ristabilirci dopo una malattia, un avvenimento triste, una discussione, una delusione, o anche uno stress relativamente benigno come un cambiamento dello stile di vita. Con ciò non si vuole dire che certe persone giovani non siano rigide e inflessibili. In realtà, alcune di esse possono comportarsi «da vecchi» più di altre che cronologicamente potrebbero essere i loro nonni. Ma certamente, sul piano fisico, c'è una differenza tra come affrontiamo lo stress in gioventù e nella vecchiaia.
Io credo che questo generale indebolimento dell'organismo, che ci rende vulnerabili allo stress, sia imputabile a una perdita della funzione pinealee a una diminuzione dei livelli di
melatonina.
Ecco dunque che c'è un antidoto ai devastanti effetti fisici dello stress sul corpo che invecchia, ed è la melatonina, che può neutralizzare gli effetti nocivi della troppa tensione, ristabilendo il naturale equilibrio ormonale.
La melatonina può ripristinare la funzione tiroidea, che ci fornisce la forza e l'elasticità per affrontare nuove sfide. Essa può ricostruire la funzione immunitaria del timo e minimizzare
i pericolosi effetti dei corticosteroidi che, lasciati liberi di agire, possono causare enormi danni.
La melatonina può anche impedire la perdita di sonno causata dall'ansia.
La melatonina, normalizzando i livelli ormonali alterati dallo stress, serve a ricreare un senso di padronanza della situazione e ci consente di affrontare le difficoltà della vita odierna...

Dottor Walter Pierpaoli - Tratto dal libro la chiave della vita con la melatonina