sabato 13 agosto 2011

CREATIVITA' E DEVIANZA

La eccentricità dei creativi rispetto alle norme costituite è spesso offerta all’aneddoto quale esorcismo del loro potenziale di distruzione: distruzione delle norme, appunto, ma anche dei rapporti sociali ad esse sottostanti. La creatività è, dopo tutto, una sfida all’ordine costituito, poiché conduce in ultima analisi alla competizione tra concezioni e modi di essere diversi. Il conflitto con la norma è infatti parte integrante dell’agire creativo, e non di rado l’innovazione finisce per cancellare la vecchia norma per istituirne una nuova.


 La creatività, intesa come capacità umana di innovare introducendo nell’ordine costituito novità suscettibili di comune fruizione, implica il confronto con la tradizione. Non si dà, infatti, nulla che possa dirsi “nuovo” senza l’applicazione di criteri di giudizio costituitisi all’interno di una tradizione condivisa.

L’originalità del creativo impone quindi una cesura con quanto appare non-originario, ma, appunto, derivato dal complesso delle conoscenze tramandate. Tale rottura con il conosciuto si accompagna inevitabilmente ad un conflitto, nel corso del quale la capacità di affermazione del <nuovo> è messa alla prova di contro al potere della tradizione di negarlo, riassorbirlo, oppure accettarlo.

La eccentricità dei creativi rispetto alle norme costituite è spesso offerta all’aneddoto quale esorcismo del loro potenziale di distruzione: distruzione delle norme, appunto, ma anche dei rapporti sociali ad esse sottostanti.

La bizzarria e le stravaganze degli inventori (l’Archimede Pitagorico dysneyano ne è un prototipo), degli scienziati (ricchissimi gli esempi, da Talete ad Einstein), degli artisti (da Apollodoro che distrugge le statue delle quali non è soddisfatto a Michelangelo che dialoga con le sue creazioni) permettono al senso comune di porre una distanza tra il proprio sentire e quello, ammirato ma anche temuto, di colui che può realmente, con la sua arte e la sua tecnica, cambiare il mondo. In effetti lo stereotipo dell’artista eccentrico e dello scienziato pazzo ha spesso svolto un ruolo di protezione nell’immaginario collettivo di fronte alla paura ed al sospetto che l’eccellenza e la diversità del prossimo ha sempre ingenerato nei più.

La creatività è, dopo tutto, una sfida all’ordine costituito, poiché conduce in ultima analisi alla competizione tra concezioni e modi di essere diversi. I creativi, d’altra parte, sembrano talora volontariamente “indossare” il ruolo degli eccentrici (un esempio celebre fu il pittore Dalì) come strategia di difesa rispetto alla fama di sovversivi, ma anche a dimostrazione di una volontà di sfida nei confronti dello status quo (lo stesso Salvator Dalì o il compositore Cage). Tale attitudine di sfida, espressa attraverso bizzarrie e stravaganze nei comportamenti, può anche permettere che il desiderio di trasformazione ed innovazione che la maggioranza dei non creativi trova difficile esprimere per sé trovi incarnazione in figure protette dall’aura della notorietà, in tal modo favorendo la proiezione su “dissidenti di successo” di istanze contestatarie, così come i desideri di amore e lusso sono proiettati sui divi dei rotocalchi.

Tratti di eccentricità, incongruenza ed inadeguatezza nei comportamenti sono però anche effettivamente individuabili nelle personalità degli individui creativi. Come ricordano Rudolf e Margot Wittkower nel loro studio sulla figura dell’artista intitolato <Nati sotto Saturno>, tratti quali <<l’eccessiva vanità e sicurezza di sé, o la facilità all’ira, o l’incertezza dei discorsi e delle azioni, la diffidenza per gli altri e il non essere degni di fiducia altrui, l’estremo riserbo e l’intollerabile loquacità>> abbondano nelle biografie degli artisti.

Studi condotti con strumenti psicometrici moderni hanno confermato tra gli individui creativi, accanto a qualità positive, anche elementi segnati da impulsività, aggressività ed antisocialità.

In una serie di studi Cattell (1955), uno dei padri della moderna psicometria (la misurazione con appositi tests delle qualità psicologiche di una persona), ha individuato nel campione di individui creativi da lui indagato (un gruppo di scienziati) elementi distintivi rispetto alla popolazione generale quali schizotipia, auto-sufficienza, instabilità emotiva, radicalismo e disinteresse per le convenzioni.

In uno studio condotto su studenti universitari, Welsh (1975) ha individuato alcuni tratti caratteristici dei più creativi, molti permeati da evidenti elementi di antisocialità: instabilità, ribellismo, egocentrismo, mancanza di tatto, intemperanza, impulsività, trascuratezza.

Il rifiuto delle regole costituite rappresenta, in effetti, un elemento comune dei soggetti creativi, in mancanza del quale difficilmente sarebbero intrapresi progetti di innovazione.

La medesima attitudine può però favorire una più generale tendenza alla devianza, che alcuni ricercatori hanno riconosciuto come aspetto tra i più caratteristici della creatività.

Lo psichiatra e criminologo italiano Cesare Lombroso è stato, nell’Ottocento, il più coerente sostenitore di una relazione tra genialità creativa e devianza psicopatica. A suo giudizio l’uomo di genio, il criminale ed il folle erano accomunati dal loro essere “eccessivi” rispetto alla popolazione generale. Tale intrinseca devianza rispetto alla media avrebbe avuto base costituzionale, esprimentesi, secondo le circostanze, con modalità adattative (il genio), disadattative (il folle), o anti-sociali (il criminale). Per Lombroso, che ai suoi contemporanei apparve spesso paradossale esempio delle proprie teorie, una distanza sottile separa il genio dal folle, e per buona parte della vita lo psichiatra e criminologo si ingegnò a trovare dimostrazione di questa sua teoria, suscitando entusiastici consensi o scandalizzate ripulse.

A partire dai suoi studi, riassunti in un fortunato volume (<L’uomo di genio>, che fece il paio con un altrettanto celebre <Uomo Delinquente>), il tema della relazione tra creatività e malattia mentale acquista un crescente rilievo nella storia della “giovane” scienza psichiatrica, rinata, in epoca moderna, con la Rivoluzione Francese, che condusse Pinel al gesto teatrale della <liberazione dei folli dalle catene>, immortalato in un celebre quadro.

Il tema di un possibile legame tra eccellenza creativa e malattia mentale è comunque molto anteriore a Lombroso: la prima formulazione è contenuta in un breve testo poi inserito nel canone aristotelico, a noi giunto con il titolo di <Problemata XXX>. Durante il Rinascimento il tema ebbe nuova formulazione; trascurato dal “malinconico” Seicento e dal troppo razionale Settecento, il tema risorgette a nuova vita durante la breve stagione del Romanticismo. Lombroso “ereditò” il problema dai suoi predecessori, traducendolo nel linguaggio rozzamente scientista della sua epoca, imprimendogli, però, il segno particolare del suo personale, precorritore ma spesso frainteso, genio. Nonostante l’acceso dibattito che seguì gli studi di Lombroso, che stimolarono ricerche volte a dimostrare la tesi opposta, di una sostanziale “sanità” del genio, anche gli studi più recenti sembrano indicare una maggiore prevalenza di disturbi mentali tra i soggetti creativi, in particolare se artisti, rispetto alla popolazione generale (per un approfondimento: Creatività e psicopatologia).

L’argomento è tuttora aspramente dibattuto, ma la maggiore propensione alla non convenzionalità ed originalità dei soggetti creativi potrebbe essere in parte spiegata proprio da tratti di psicopatologia più o meno eccentrici, sino allo sviluppo di disturbi mentali.

La medesima relazione tra creatività e malattia mentale potrebbe spiegare anche la tendenza all’antisocialità osservata in alcuni individui creativi. Numerosi studi, in effetti, indicano l’esistenza di legami tra disturbi mentali, soprattutto disturbi che implichino un alterato rapporto con la realtà (psicosi) o un anomalo controllo degli impulsi (alcuni disturbi di personalità), e propensione a comportamenti aggressivi o apertamente antisociali, quali teppismo, delinquenza o crimini.

Tre classi di studi sembrano confermare l’esistenza di una relazione tra malattia mentale e devianza. Un primo gruppo di studi ha riconosciuto una maggiore prevalenza di disturbi mentali tra gli imputati di reati contro la persona (atti violenti) o la proprietà (furti o danneggiamenti) per confronto con controlli estratti dalla popolazione generale. Individui sottoposti a trattamento ospedaliero per un disturbo mentale hanno inoltre un rischio maggiore di subire un arresto per infrazioni legali per confronto con individui “sani” (mai ricoverati o mai trattati per un disturbo mentale).

Un secondo gruppo di studi ha indagato la frequenza di comportamenti aggressivi o illegali nella popolazione generale. Anche questo gruppo di studi ha riscontrato una prevalenza maggiore di comportamenti illegali (almeno per quanto riguarda quelli ammessi durante le interviste) tra coloro che ammettono di essere in cura per un disturbo mentale rispetto ai “sani” (coloro, cioè, che negano di essere mai stati in trattamento per un disturbo mentale).

Un terzo gruppo di studi ha indagato i “percorsi biografici” di intere classi generazionali (studi di coorte: sono indagati tutti coloro che, in una data area, sono nati durante un pre-definito periodo, e quindi condividono le medesime condizioni di sviluppo sul piano ambientale). Anche questi studi hanno osservato una relazione tra disturbi mentali e antisocialità (espressa attraverso comportamenti aggressivi o illegali).

L’insieme di questi studi suggerisce percorsi tra sofferenza mentale e devianza suscettibili di interpretazioni anche tra loro molto distanti, e nel complesso non si sottrae a critiche metodologiche o di valutazione. Al di là delle critiche, e dell’osservazione che solo una minoranza di individui affetti da disturbi mentali si esprime in modo antisociale, per di più interessando non più del 5 % dei crimini commessi nelle odierne società occidentali, tali studi suggeriscono l’esistenza di basi neuropsicologiche della devianza il cui approfondimento potrebbe contribuire ad alleviare le sofferenze dei malati, delle loro famiglie, e delle comunità cui appartengono.

E’ verosimile che l’area della devianza sia costituita da tre classi di popolazione: una, rappresentata da coloro che si esprimono in senso antisociale a causa di un disturbo mentale che ne compromette le capacità di giudizio o di controllo degli impulsi; una seconda, costituita da coloro che infrangono la legge per motivi essenzialmente socio-economici (povertà, disagio sociale, conflitti insanabili, necessità di riparare un torto non risarcibile per via giudiziaria); una terza, infine, che raggruppa coloro che hanno “scelto” il crimine come professione.

La creatività sicuramente “attraversa” questi diversi ambiti della devianza, contribuendo alla “riuscita” in quei campi ove il conflitto con l’ordine costituito può trovare soluzione nella rottura della norma piuttosto che nella sua innovazione.

La letteratura ed il cinema forniscono continuamente figure di criminali dotati di talento geniale nell’aggirare la legge: Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo, Phantomas, l’imperscrutabile criminale, sino al perfido ma romantico Diabolik, sono figure che incarnano il ruolo del <genio del male> che la religione ha volentieri consegnato ad elaborazioni più terrene.

Gli annuari della criminologia riportano anch’essi storie di criminali di genio, più rare di quanto la fantasia non vorrebbe credere, ma comunque in numero sufficiente a testimoniare un impegno della creatività a fini delinquenziali.

L’arte stessa, peraltro, ha fatto dell’inganno e della truffa attraverso il falso un’industria fiorente, ed il confine tra autenticità e simulazione ha spesso giocato un ruolo non secondario nella storia delle arti, in particolare durante tutto il Seicento (non a caso il secolo della “melanconia”).

In alcuni artisti il confine tra eccentricità visionaria e aperta devianza è stato, però, superato, e di molto, come testimoniano le vite di Benvenuto Cellini, coinvolto in crimini e delitti, e del Caravaggio, ucciso in circostanze misteriose dopo una vita votata all’eccesso. D’altra parte il conflitto con la norma è parte stessa dell’agire creativo, e non di rado l’innovazione finisce per cancellare la norma per istituirne una nuova.

L’avvento dell’era della comunicazione globale attraverso la rete (Internet o Web che dir si voglia) ha riproposto in forme paradossali il conflitto tra norma, innovazione, e libertà.

I casi recenti della comunità Napster, e quelli collegati all’uso di programmi per la riproduzione in rete o su computer di materiali soggetti a leggi di tutela (MP3 per la musica, o analoghi sistemi per i filmati), sono esemplari nell’illustrare i complessi problemi che la libera iniziativa creativa, e la fruizione dei relativi prodotti da parte del pubblico, pone all’ordine costituito (in questo caso  insorto a tutela dei corposi profitti delle Major discografiche).

La creatività si è però espressa spesso anche in senso opposto, nel limitare, cioè, la libertà altrui, rafforzando il potere di una minoranza. Gli sforzi di alcune case produttrici di software nell’indirizzare l’uso dei propri programmi in senso autoreferenziale sono stati oggetto di recente delle attenzioni del comitato americano incaricato di far rispettare la legislazione anti-trust (cioè contro la formazione di monopoli, che limiterebbero la scelta del consumatore) negli Stati Uniti.

La possibilità che l’agire creativo non sia orientato esclusivamente alla liberazione delle energie e potenzialità inespresse deve essere quindi sempre considerata, e legittimo è il diritto di esprimere riserve o dubbi sulle <magnifiche sorti e progressive> dell’innovazione, soprattutto quando guidata da interessi privati.

L’esistenza di motivazioni non propriamente “cristalline” nell’agire creativo fu sospettata sin dal suo sorgere dalla psicoanalisi, che vide nell’atto creativo la forma più pura di sublimazione, in ciò alimentata da conflitti interiori relativi a pulsioni “animali” sentite come intollerabili (e quindi non esprimibili se non in forma deviata rispetto al fine, e cioè, appunto, sublimata). Sigmund Freud riteneva che conflitti inconsci riguardanti potenti ed inespressi impulsi sessuali, ed anche più arcaiche pulsioni, offrissero motivazione per lo sforzo creativo in termini di energia indirizzabile per lo sforzo produttivo, deviando in tal modo parte della tensione che altrimenti avrebbe potuto produrre angoscia. Otto Rank in seguito sottolineò come, almeno in campo artistico, i medesime conflitti psicologici potessero offrire, oltre che alimento per lo sforzo creativo, anche materia di creazione, permettendo l’espressione di impulsi socialmente condannati quali l’odio, la gelosia, l’invidia. Le opere di Shakespeare sono, in tal senso, una miniera di esempi, e non sfuggirono allo sguardo attento, e talora un po’ bizzarro, degli esegeti di formazione psicoanalitica.

Gli aspetti più negativi della realtà, accanto a quelli più felici, hanno fornito ampia materia per la creazione artistica, e ben si può dire, parafrasando Nietzsche, che senza crudeltà non c’è arte.

La sofferenza alimentata dalla passione sembra muovere all’atto creativo quanto se non più del bisogno e della mancanza. Di ciò testimonia larga parte della produzione poetica occidentale, laddove in oriente la sofferenza sembra inabissarsi nella contemplazione dell’universo (le meravigliose poesie Cinesi, i magnifici “quadri” Giapponesi….).

Il pensiero sorge là dove c’è un pericolo, ed il creativo può essere colui che vede, nel pericolo, la possibilità della salvezza, forse perché, più di altri, soggiorna presso il lato più oscuro dell’umanità.


(Contributo on-line di Antonio Preti)


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