sabato 29 marzo 2014

LA SCHIZOFRENIA, UN'INTRODUZIONE PSICO-BIOLOGICA - Claudio Michelazzi




CLAUDIO MICHELAZZI

LA SCHIZOFRENIA

UN'INTRODUZIONE PSICO-BIOLOGICA

Il legame mente-cervello, con tutte le sue importanti implicazioni, da sempre è stato oggetto di riflessione e di studio. Uno dei più antichi documenti della storia dell'umanità, e primo reperto in assoluto dove si trattano temi di medicina, è il cosiddetto “papiro chirurgico” rinvenuto nella seconda metà del XIX secolo a Luxor in Egitto. In esso si trova, per la prima volta, ben descritta la correlazione trauma-deficit, elemento che diverrà successivamente basilare per la neuropsicologia e per tutte le discipline che contribuiranno allo sviluppo delle neuroscienze. Dall'ipotesi, suffragata da diversi studi e dall'osservazione, del rapporto trauma-deficit, si è sviluppato l'interesse per la relazione cervello (struttura che può subire un trauma) - mente (funzionalità in cui si può manifestare un deficit), ed è proprio questa relazione, articolata attraverso i suoi sviluppi, dalla correlazione anatomo-clinica della neuropsicologia classica fino alle odierne ipotesi del filone connessionista, che si vuole filo conduttore di tutto il presente lavoro, relazione per gli studiosi divenuta imprescindibile grazie allo sviluppo del paradigma neuroscientifico e alle sue implicazioni per la ricerca e per la clinica.
Il tema principale di questa dissertazione rimane però l'analisi e lo studio di una delle più gravi e debilitanti psicopatologie che possano colpire gli individui, la schizofrenia, una patologia altamente pervasiva che colpisce la sfera cognitiva, quella emotiva, quella comportamentale e quella psicosociale fino a raggiungere livelli consistenti di disagio, un tempo risolti con ospedalizzazioni forzate o con prassi terapeutiche che nulla potevano vantare sotto l'aspetto etico e scientifico.
Il titolo propostomi per questa dissertazione, “una lettura psico-biologica della schizofrenia”, titolo estremamente avvincente per le sue ampie possibilità di trattazione, vuole essere indirizzato all'analisi di una lettura vasta degli aspetti psicologici e biologici della schizofrenia e allo studio di una letteratura complessa fatta di ricerche ed esperimenti che, toccando più aspetti del problema, hanno inteso portare alla conoscenza scientifica tutti quei dati e quei risultati che contribuissero ad un approccio alla psicopatologia in analisi, di natura interdisciplinare, approccio scientifico che consente diversi e sempre più approfonditi livelli di analisi in favore di una maggior comprensione delle cause da un lato e dei possibili percorsi terapeutici dall'altro, della schizofrenia.
In sintesi, si vuole disancorare lo studio della patologia schizofrenica da una sola, qualsiasi, teoria e da una sola, qualsiasi, prassi clinica di riferimento che, seppur suffragata e validata da prove sperimentali, rischia di focalizzare troppo l'analisi solo su determinati aspetti del problema. La lettura psico-biologica fatta, prendendo come riferimento la dicotomia aspetti psicologici ed aspetti biologici, aspetti neurologici ed aspetti mentali, non vuole essere però un'ennesima lettura in termini dualistici di una totalità complessa che volentieri leggiamo come un unico organismo/sistema i cui sottosistemi sono in interconnessione adattiva, continua e mirata tra loro e che per comodità di analisi suddividiamo in sotto-elementi per studiarne le relazioni e le interazioni. Per quanto concerne questo sguardo complessivo e questa concezione globale, olistica e organicista del rapporto psiche-soma, forte dei contributi dati da più discipline, di ricerca e cliniche, si è voluto riflettere, in relazione alla schizofrenia, su un' ampia panoramica di ipotesi eziologiche e terapeutiche data da discipline quali psichiatria, psicologia scientifica, psicofisiologia, psicobiologia, neuropsicologia, biochimica, neurobiologia, genetica, psicologia dinamica, psicologia cognitivo-comportamentale e psicologia sistemico-relazionale.
Nel capitolo primo del presente lavoro, dedicato agli aspetti storico-metodologici e alla psicopatologia della schizofrenia, verrà presentata un'ampia panoramica sull'evoluzione storica e culturale dell'idea di follia dall'antichità ad oggi, le svariate letture della malattia mentale che sono state articolate nel corso dei secoli, dalla demonologia dei primi secoli cristiani alla nascita dei primi luoghi di contenzione per soggetti con disagio psichiatrico. Un ulteriore approfondimento, nel corso del capitolo, sarà legato alla riflessione su nascita e sviluppo, a partire dalla fine del Settecento, delle diverse discipline scientifiche che si sono interessate allo studio e alla ricerca nell'ambito del rapporto mente-cervello come psichiatria, neuropsicologia e neuroscienze. Per quanto concerne la psicopatologia della schizofrenia, in questo capitolo, è stata proposta una riflessione sulla letteratura presente, sulle interpretazioni della patologia a partire dalla fine dell'Ottocento e sulle descrizioni nosografiche e nosologiche dei primi due grandi psichiatri, Kraepelin e Bleuler, che si sono occupati dello studio della psicopatologia in esame. La seconda parte del capitolo è interamente dedicata agli aspetti strettamente descrittivi della patologia, al quadro clinico generale con segni e sintomi specifici.
Nel capitolo secondo viene presentato l'inquadramento diagnostico della schizofrenia all'interno del DSM-IV-TR. Dopo alcuni cenni sulla storia dell'evoluzione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, sulla sua importanza presso la comunità scientifica, sulle sue caratteristiche intrinseche, strutturali e sostanziali, sono presentati, la schizofrenia, secondo i criteri diagnostici condivisi dagli scienziati e svariati sottotipi della patologia.
Il terzo capitolo ospita l'argomentazione inerente gli aspetti strettamente neurobiologici e psicobiologici che coinvolgono la schizofrenia e la sua eziologia, dal contributo fondamentale degli studi in campo genetico e genetico molecolare, al consistente corpus sperimentale composto da studi su famiglie, su gemelli e su adozioni, dagli studi sulle varie ipotesi legate a diversi neurotrasmettitori ed alle loro vie, all'ampia analisi anatomo-clinica con tutte le alterazioni anatomiche evidenti fino all'approfondimento del ruolo dell'amigdala nella social cognition.
Nel quarto capitolo, vengono presentati, per consentire una visione più ampia ed integrata, ulteriori approcci clinici e teorici, legati, in special modo, agli aspetti psicologici e relazionali della patologia, come l'approccio psicodinamico, l'approccio cognitivo-comportamentale e l'approccio sistemico-relazionale. Questi approcci propongono, ognuno con le proprie basi teoriche e metodologiche, dei percorsi clinici legati alla relazione e al cambiamento cognitivo, emotivo e relazionale.
Gli ultimi paragrafi del capitolo sonbo legati ad una riflessione sulle nuove frontiere scientifiche, su alcune nuove proposte teoriche legate ad un approccio integrato, proprio del paradigma neuroscientifico, su possibili nuove vie di psichiatria e psicoterapia. Viene presentata, a grandi linee, anche la recentissima proposta teorica della neuropsicoanalisi con le importanti implicazioni legate all'analisi e alla prassi clinica. Nella conclusione del lavoro, è articolata una riflessione sul fondamentale contributo dato dalle discipline che si occupano dello studio di cervello e mente, della capacità di integrare dati e risultati e della speranza in ulteriori nuove scoperte, teoriche e cliniche.



ASPETTI STORICO – METODOLOGICI E PSICOPATOLOGIA DELLA SCHIZOFRENIA



 BREVE STORIA DELLA FOLLIA


Fin dalla sua comparsa sulla terra, l'essere umano ha cercato delle risposte per giustificare tutti quegli eventi che sembravano trascendere da ogni tentativo di comprensione.
Questi eventi straordinari, che potevano essere di natura fisica (terremoti, alluvioni, e così via) oppure legati allo stato di salute generale (malattie) venivano letti in chiave soprannaturale, causati da divinità che potevano diventare tremende ed irate verso l'uomo.
Anche la follia venne letta, dai primi filosofi, dai primi medici e teologi, come una punizione della collera divina o come una forma di possessione da parte di un qualche demone.
Fin dall'antichità venne elaborata una dottrina, in ambito religioso, definita “demonologia”, che tentava di spiegare, attraverso il ricorso all'idea della possessione demoniaca, tutti quei comportamenti che apparivano devianti o disturbati.1
Questa chiave di lettura si riscontra in vari documenti, dove possiamo trovare esempi di pensiero demonologico, provenienti da culture antiche come quella cinese, egizia, babilonese e greca. Nell'ambito della cultura ebraica possiamo trovare molti esempi di interpretazioni legate alla possessione di spiriti malvagi nell'antico testamento ed esempi di esorcismi compiuti a carico di individui posseduti nel nuovo testamento.
Proprio la pratica dell'esorcismo si sviluppò come estremo tentativo di liberare le vittime di queste possessioni demoniache che procuravano segni e sintomi così allarmanti e devastanti.
L'esorcismo diviene così una pratica legata ad una ritualità complessa fatta di preghiere, digiuni, fustigazioni e di tutte le mortificazioni possibili della vittima. Tutto questo per costringere il demone ad abbandonarla.
Tuttavia, grazie al contributo di colui che viene definito il padre della medicina moderna, Ippocrate, nel V° secolo a. C., si cercò di separare la prassi medica dalla religione e dalla superstizione. Elaborando un pensiero ed una prassi fondati sulla logica e sulla razionalità, Ippocrate costruì la sua classificazione rigettando l'idea che le malattie più gravi, sia fisiche che mentali, fossero causate da una presunta possessione demoniaca o da una supposta punizione divina.
Per Ippocrate, il cervello era l'organo della coscienza, dell'intelletto e delle emozioni. Qualsiasi pensiero o comportamento che risultasse deviante era il frutto, il segno, di una qualche tipologia di patologia dell'organo cerebrale stesso.
Per spiegare determinate patologie, Ippocrate elaborò una delle prime teorie secondo cui le turbe del pensiero e del comportamento avevano un'eziologia su base organica.
Il medico greco propose di classificare i disturbi mentali in mania, melancolia e frenite (febbre cerebrale) ed inoltre riteneva che la salute mentale ed il normale funzionamento dell'organo cerebrale dipendessero dal perfetto equilibrio tra quattro umori (fluidi corporei): il sangue, la bile nera, la bile gialla e il flegma (flemma).2
Grazie alle profonde elaborazioni teoriche e metodologiche di Ippocrate, tutti i fenomeni legati ai disturbi mentali furono sottratti alla sfera di intervento dei sacerdoti per rientrare a pieno diritto in quella di competenza dei medici.
Per Ippocrate divenne fondamentale, da un punto di vista metodologico, l'osservazione come analisi dei dati di realtà, e questa prassi contribuì allo sviluppo e all'approfondimento delle conoscenze cliniche.
Le teorie di Ippocrate, tuttavia, non supereranno il vaglio dell'analisi scientifica dei secoli successivi anche se la sua concezione organicista relativa al comportamento umano, che sarebbe influenzato da sostanze, strutture fisiche e da qualche danno organico, anticiperà certi aspetti del pensiero contemporaneo in campo medico.
Nei secoli successivi, questo approccio naturalistico, fu accettato da altri studiosi greci e romani e si diffuse ben presto nel mondo allora conosciuto.
Altro grande studioso antico, interessato all'approccio naturalistico fu Galeno (130-200 d.C.), considerato l'ultimo grande medico dell'epoca classica.
Con l'inizio del medioevo si avrà un sostanziale stallo per quanto riguarda la ricerca e la teorizzazione nella medicina occidentale ed in special modo per quanto concerne il trattamento dei disturbi mentali.
Nuovamente fu la religione ad impadronirsi di diagnosi e cura di quelli che venivano considerati disturbi dati da possessione demoniaca. I malati mentali venivano curati recitando preghiere e toccandoli con sacre reliquie.
A partire dal XII° secolo, a causa di eventi come pesti e carestie, si diffuse una consistente paura del demonio e si sviluppò, nell'ambito della stregoneria, la pratica della caccia alle streghe.
In ambienti religiosi si elaborò un trattato, il “Malleus Maleficarum”, utilizzato poi per secoli, come guida pratica e spirituale, per la lotta alla stregoneria.
E' interessante notare come, in questo trattato, si specificava che l'improvvisa perdita della ragione era un sintomo di possessione demoniaca e che bruciare sul rogo la persona che ne aveva dato segno era il metodo più certo per scacciare dal suo corpo il diavolo che se ne era impadronito.3
Alcuni studiosi hanno ipotizzato, analizzando i verbali delle confessioni, che molti dei condannati per stregoneria nel tardo medio evo fossero dei malati di mente.
Queste ipotesi sono legate all'interpretazione di documenti dove chiari possono apparire i segni di deliri o allucinazioni.
Tuttavia, ulteriori approfondimenti ed analisi, hanno fatto emergere che le confessioni, quasi sempre, erano date, dagli accusati, sotto consistente tortura fisica e psicologica. In Inghilterra, dove la tortura non era ammessa, in genere, le confessioni non contengono descrizioni che possano far pensare a deliri o ad allucinazioni (Schoenemann,1977).4
E, proprio in Inghilterra, intorno alla metà del XIV° secolo, si ha la fondazione del Trinity Hospital di Salisbury, un vero e proprio nosocomio gestito da autorità municipali. In questo ospedale si rinchiudono anche “i pazzi in condizioni di sicurezza, fino a quando non recuperino la ragione” che non sono descritti come posseduti dal demonio.
Già a partire dal XIII° secolo, in Gran Bretagna, era diffusa la pratica legata ai processi per pazzia (Lunacy trials) e, durante questi processi, si cercava di valutare memoria, intelletto, abitudini. Il comportamento deviante, generalmente, veniva attribuito a malattia o danno fisico.
Lentamente, a partire dai lebbrosari, si svilupparono anche ospedali specifici per malati mentali e l'internamento di questi fu intenso soprattutto durante i secoli XV° e XVI°.
I manicomi finirono per accogliere una moltitudine di individui disturbati e di mendicanti.
Uno degli esempi più interessanti e significativi, legato alla prassi dell' internamento dei malati mentali e allo stato complessivo delle strutture ospedaliere, è sicuramente quello del convento di Saint Mary of Bethelem di Londra. In questo ospedale le condizioni erano deplorevoli. Con il tempo il nome Bedlam, comunemente usato per indicare l'istituto, arrivò a significare un luogo in cui regnano confusione, sporcizia e caos.5
Il Bethlehem divenne anche una delle più grosse attrazioni turistiche della capitale inglese, dove gli individui potevano assistere agli scoppi d'ira, ai deliri, alla mortificazione totale dei corpi e della psiche dei malati che vi erano rinchiusi.
La diffusione di queste proto strutture delegate alla reclusione di persone disturbate non comportò assolutamente, in un primo momento, l'interesse per la cura e la ricerca delle patologie psichiche ed il trattamento riservato ai malati era spesso brutale e doloroso. Solo successivamente, già in epoca tardo barocca e alle soglie dell'illuminismo, alcuni medici cominciarono ad interessarsi delle cure per la malattia mentale, cure che, alla luce dei moderni progressi che oggi conosciamo, dimostrano un'alta dose di improvvisazione e di mancanza di attenzione per il malato. Esempi come Benjamin Rush (1745-1813), considerato il padre della psichiatria americana, che sperimentava trattamenti che oggi potremmo definire privi di qualsiasi base scientifica ed etica, sono paradigmatici
nell'illustrare i primi tentativi di studio e di cura della patologia psichica.
Proprio nel secolo dei lumi, però, stavano prendendo corpo una nuova prassi ed una nuova consapevolezza che avrebbero rivoluzionato l'approccio terapeutico alla malattia mentale. Questo rivoluzionario approccio getterà le basi per l'elaborazione di una nuova scienza: la Psichiatria moderna.

 LA NASCITA DELLA PSICHIATRIA


Il padre indiscusso della psichiatria moderna viene considerato Philippe Pinel (1745 – 1826). Questo medico francese fu tra i primi sostenitori del trattamento umanitario dei malati mentali rinchiusi nei manicomi. Nel 1793, durante la Rivoluzione francese, divenne direttore di un grande manicomio di Parigi, La Bicetre.
Fino alla fine del Settecento i malati venivano rinchiusi nei manicomi e sottoposti a vessazioni incredibili. Venivano incatenati alle pareti delle loro celle e tenuti in condizioni disumane.
Molte fonti affermano che Pinel fece togliere le catene agli internati alla Bicetre e a trattare questi individui come esseri umani ammalati e non come bestie.6
Questa rivoluzione, che faceva mutare completamente l'approccio alla malattia mentale, soprattutto, almeno in questa fase pionieristica, dal punto di vista sociale ed ambientale, produsse effetti terapeutici legati alla gestione dei comportamenti aggressivi dei malati. Questi malati si calmarono, una volta liberati dalle catene, e poterono così circolare liberamente negli spazi della struttura manicomiale senza creare disturbo né fare male ad alcuno.
Le celle furono sostituite da camerate ariose e bene illuminate. Alcuni pazienti, internati da anni, parvero recuperare la salute e furono infine dimessi dall'ospedale.7
Influenzato dalle dottrine illuministiche e dagli ideali della rivoluzione francese, Pinel credeva fermamente che i malati mentali affidati alle sue cure fossero sostanzialmente persone normali che meritavano comprensione e compassione ed un trattamento rispettoso della loro dignità di esseri umani.8
Il medico francese era convinto che alcune delle cause principali del disturbo psichiatrico fossero legate a gravi problemi personali e sociali del malato e che fosse possibile avere una remissione dei sintomi operando ad un livello, che oggi potremmo definire psicosociale, che comprendeva un'opera di sostegno umanitario e l'indirizzamento verso attività utili.
Pur considerando rivoluzionaria la pionieristica opera di Pinel, non mancano anche aspetti critici legati soprattutto alle classi agiate di appartenenza dei primi pazienti presi in cura dello psichiatra francese che, sembra, prestasse poca attenzione ai malati delle classi inferiori. Questi ultimi venivano ancora trattati con un regime rigido di coercizione e le catene per loro vennero sostituite dalle camicie di forza.
I primi ospedali psichiatrici, in Europa e negli Stati Uniti, erano di piccole dimensioni, gestiti da privati ed organizzati in base al metodo del trattamento umanitario impostato da Pinel.
In Inghilterra, nello stesso periodo, operò un ricco mercante molto religioso, William Tuke (1732 – 1822) che aprì, di tasca propria, un istituto per individui malati chiamato York Retreat. Questo ospedale forniva ai propri pazienti un ambiente dove vivere, lavorare, riposarsi in un'atmosfera tranquilla e religiosa.
I pazienti erano spinti a parlare con il personale dell'istituto, raccontando l proprio disagio e ricevendo ascolto e consigli. Questo metodo veniva definito trattamento morale e si può considerare come un ulteriore sviluppo del metodo di Pinel.
Molti istituti di accoglienza e di cura sorsero anche negli Stati Uniti, quasi tutti caratterizzati da una forte impostazione umanitaria e morale vicina agli approcci di Pinel e Tuke. I pazienti avevano stretti contatti con il personale, che parlava con loro e ascoltava ogni singolo problema. I malati conducevano un'esistenza il più possibile normale, assumendosi la responsabilità di se stessi, nei limiti consentiti loro dal disturbo di cui soffrivano.9
Tuttavia, dopo un'attenta analisi della documentazione relativa ai primi anni di funzionalità di queste strutture pionieristiche, sono emersi diversi aspetti critici legati alle modalità di cura delle patologie. Ai pazienti venivano somministrate, come trattamento terapeutico, sostanze psicotrope come alcol, cannabis ed oppio, e i risultati delle remissioni delle patologie furono ben scarsi.
Altra pioniera di un approccio umanitario che tenesse in considerazione le condizioni di vita e l'ambiente come cause scatenanti il disagio e la malattia, fu Dorothea Dix (1802-1887).
Verso la fine del XIX° secolo, il trattamento morale fu soppiantato da una visione più biologistica e fisiologica della malattia ed i medici che gestivano le strutture ospedaliere, si mostrarono più interessati agli aspetti neurobiologici che a quelli psicologici e sociali. L'idea, però, che una eziologia della malattia psichiatrica legata ad elementi socio-ambientali e psicosociali fosse da tenere in forte considerazione, ritornerà in maniera consistente nella seconda metà del XX° secolo.
Con lo sviluppo dell'interesse scientifico e sociale per i malati mentali, nacque anche un forte impulso allo studio e alla descrizione della malattia stessa. In Francia, nel 1838, Jean-Etienne Dominique Esquirol (1772-1840) pubblicò un trattato in cui compariva una prima distinzione nosografica tra “pazzi che dalla normalità approdano alla follia e deficienti mentali che presentano tratti di insufficienza fin dalla nascita”.10
Successivamente gli scienziati adottarono in modo consistente l'osservazione clinica ed il metodo anatomo-patologico, sostenendo sempre più l'idea della stretta correlazione tra lesioni o alterazioni strutturali del cervello ed aspetti funzionali per descrivere la patologia psichiatrica.
Questa impostazione organicistica, attenta agli aspetti neurobiologici, promosse lo sviluppo di quelle correnti di ricerca legate all' evidenza dell'inscindibilità di mente e cervello, come la neuropsicologia, che confluiranno ed arricchiranno, nel corso degli anni, quello che è oggi il panorama interessantissimo delle neuroscienze.



LA NASCITA DELLA NEUROPSICOLOGIA


Fin dall'antichità, in civiltà evolute come quella Egizia e quella Greca del periodo classico, vennero stabilite, grazie ad acute osservazioni, associazioni tra deficit delle funzioni mentali e lesioni strutturali al cervello. Nel corso dei secoli, importanti medici e studiosi si interrogarono sulle possibili correlazioni tra la funzionalità dell'organo cervello e il suo prodotto, la mente. Il problema mente-corpo divenne oggetto di studio anche di molti filosofi.
E' solo nel XIX° secolo, però che questa relazione cervello-mente acquista, in un progresso continuo legato a studi e ricerche sempre più complessi e significativi, una base scientifica definita.
All'inizio dell'Ottocento, il medico tedesco Franz Josef Gall (1758-1828), assieme all'allievo Johann Christoph Spurzheim (1776-1832), sviluppò per la prima volta nella storia della scienza, una teoria esplicita delle relazioni mente-cervello (localizzazionismo) la quale ipotizzava, tra le altre cose, in primis che:
  • Il cervello è l'organo della mente;
  • Le facoltà sono innate e localizzate in regioni specifiche della superficie
del cervello (corteccia cerebrale).11
La teoria di Gall, chiamata frenologia, pur contenendo elementi che molti critici definiscono pseudoscientifici, come l'ipotesi dell'esistenza di protuberanze ossee sul cranio, chiamate “bernoccoli”, la cui palpazione (cranioscopia) consentiva di determinare lo sviluppo delle varie facoltà mentali di un individuo, pose le basi della futura ricerca, di ordine fisiologico e psicologico, portata avanti da neurologi, medici e psicologi, e delle future teorie neuropsicologiche e psicobiologiche.
Già nella prima metà del XIX° secolo, tuttavia, la frenologia cadde nel discredito, non trovando alcuna validazione scientifica.
Alcune ipotesi del medico tedesco, però, svilupparono nella comunità scientifica, in modo assolutamente mirato, i primi interrogativi sulle relazioni insistenti tra la funzionalità, la struttura e il prodotto del cervello.
Gall teorizzò l'esistenza di facoltà mentali come il “linguaggio” la cui base cerebrale fu determinata a metà dell'Ottocento dando inizio alla neuropsicologia moderna.
Le idee di Gall sono state riprese nell'ultimo trentennio da vari scienziati cognitivi e neuropsicologi, in quanto l'idea di un'organizzazione della mente in componenti distinte, localizzate in parti diverse del cervello è oggi il paradigma prevalente delle neuroscienze cognitive: facoltà e organi per Gall, moduli e circuiti nervosi per gli scienziati cognitivi
contemporanei.12
Ma la teoria del medico tedesco non fu la sola nel panorama degli studi pionieristici sulla relazione mente-cervello nella prima metà dell'Ottocento.
Contrariamente a quanto sosteneva Gall, e come reazione alle difficoltà incontrate dalle ipotesi localizzazioniste, alcuni studiosi, come Marie-Jean-Pierre Flourens (1794-1867), proposero l'opinione che i processi mentali superiori fossero rappresentati nel cervello in modo diffuso e non localizzato in aree specifiche. Flourens, sulla base di studi accurati e di pratiche di resezione ed ablazione sul cervello di uccelli, concluse che le attività psichiche più complesse erano svolte dagli emisferi cerebrali, il movimento dal cervelletto e le funzioni di base dal midollo allungato.
Altro eminente scienziato che si occupò del rapporto tra funzione e struttura del cervello, considerato come uno dei padri nobili della neuropsicologia, fu Paul Broca (1824-1880).
Nel 1861, il medico ed antropologo francese, descrisse il caso di un suo paziente affetto da emiparesi destra che, pur capace di comprendere il linguaggio udito e senza manifestare deficit di intelligenza, produceva verbalmente solo le sillabe “Tan,Tan”.
L'esame anatomo-patologico eseguito post mortem sul paziente di Broca rivelò una profonda lesione nell'emisfero cerebrale di sinistra e così lo scienziato francese mise in relazione il disturbo del linguaggio articolato con quella lesione (parte più ventrale della terza circonvoluzione frontale – oggi chiamata area di Broca).
La scoperta di Broca (1861) può essere considerata l'atto di nascita della neuropsicologia.13
Il medico francese elaborò, grazie alla sua scoperta, alcuni assunti di base fondamentali per la neuropsicologia moderna quali l'indipendenza della varie componenti che costituiscono la mente, la localizzazione di queste in diverse aree del cervello e la constatazione che lesioni cerebrali limitate a tali aree possono compromettere in modo selettivo le diverse componenti dell'attività mentale.
Venne così introdotta la prassi della correlazione anatomo-clinica, metodo fondamentale per la neuropsicologia e per tutte le altre neuroscienze cognitive e comportamentali. Questo metodo partiva dall'assunto che la sede e l'estensione di una lesione cerebrale fossero messe in relazione con i deficit delle funzioni mentali del paziente.
I principali deficit delle funzioni mentali superiori e le loro basi cerebrali furono descritti tra il 1861 e il 1920, periodo che fu definito classico per la neuropsicologia. Vennero descritte le afasie, le agnosie e le aprassie.
In questo periodo si sviluppò anche la concezione delle funzioni mentali secondo lo schema centri-e-connessioni, dove i centri, localizzati in regioni cerebrali specifiche della corteccia cerebrale (materia grigia) contengono particolari rappresentazioni, e le connessioni, costituiti da fasci di sostanza bianca consentono il trasferimento delle informazioni da un centro all'altro. Si stava sviluppando così, grazie a studi ed osservazioni, la teoria connessionista.
In questa direzione operarono due neurologhi tedeschi, Karl Wernicke (1848-1905) e Ludwig Lichteim (1845-1928) che elaborarono interessantissimi modelli anatomo-clinici generalizzati poi in complessi diagrammi centri-e-connessioni che anticiperanno i modelli scatole-e-freccie di elaborazione dell'informazione sviluppati dalla psicologia cognitivista nella seconda metà del Novecento.
Il metodo di indagine dei neurologi ottocenteschi, però, data ancora l'immaturità di questo filone di ricerca, era legato allo studio dei casi singoli. Questo metodo forniva osservazioni cliniche individuali, difficilmente replicabili e prive di un confronto statistico e di soggetti di controllo, elementi che, nel corso del XX secolo consentiranno di rendere ancora più valide le ipotesi della neuropsicologia con un arricchimento incredibile per tutte le neuroscienze che assumeranno definitivamente come principio fondante l' interrelazione specifica di mente e cervello.

 ORIGINI, STUDI ED EVOLUZIONE DELLE NEUROSCIENZE


Lo sviluppo delle neuroscienze è molto recente. Gli studi e gli esperimenti ad esse correlati sono andati incontro ad una crescita esponenziale con gli anni Cinquanta del Novecento. Questo sviluppo è stato possibile grazie anche alla ricerca in campo tecnologico che ha consentito di creare ed affinare una metodica d'indagine ed una strumentazione sempre più complesse. Grazie a questa strumentazione tecnologica, gli scienziati hanno potuto vedere ed analizzare molti dei vari processi funzionali del cervello dal vivo ed “on-line”. Poter monitorare questi processi, correlando struttura e funzione cerebrale, è stato fondamentale per convalidare o rifiutare ipotesi e teorie scientifiche.
Tuttavia la pietra miliare che fonda tutta la complessa architettura dei paradigmi delle neuroscienze, caratterizzate da forte interdisciplinarietà e da una robusta sperimentazione scientifica, è la scoperta del neurone: prima di essa le neuroscienze non erano unificate da un asse portante ed erano frammentate in diverse componenti, quella clinica, quella anatomo-patologica, quella fisiologica e quella comparata.14
Furono due scienziati, verso la fine del XIX secolo, Camillo Golgi (1843-1926) e
Santiago Ramon y Cajal (1852-1934) a scoprire e studiare il neurone.
L'aver individuato le cellule costituenti il cervello e l'aver compreso che i neuroni non formavano una rete ininterrotta, ma che tra neurone e neurone vi era una sottile interruzione, consentiva di guardare in modo diverso il meccanismo della conduzione nervosa.15
Cajal era fermamente convinto che ogni neurone avesse una propria autonomia funzionale, potesse elaborare l'informazione e potesse inviare stimoli selettivi nei circuiti nervosi. Le ipotesi di Cajal poterono essere comprovate grazie ad un importante scoperta di Camillo Golgi.
Nel 1873, il medico italiano sviluppò la cosiddetta tecnica della reazione nera o di Golgi. Fino ad allora l'osservazione delle cellule nervose avveniva grazie ad una colorazione poco selettiva che non consentiva di distinguere le varie componenti delle cellule, soprattutto la ramificazione dendritica, il soma e l'assone. Questa colorazione poco selettiva rivelava soltanto un confuso ammasso di neurofibrille, una sorta di ragnatela al cui interno erano imprigionate delle masse globulari, le cellule nervose.16
Grazie però all'innovativo metodo di Golgi, l'osservatore poteva vedere chiaramente alcune cellule nervose, isolate dall'ambiente extracellulare, i dendriti e l'assone.
Il medico italiano, in base alla sua formazione scientifica, alle sue osservazioni e alle sue scoperte, elaborò così un teoria “reticolare” del sistema nervoso che negava che la cellula nervosa avesse una sua autonomia anatomico-funzionale poiché era legata in modo strutturale e funzionale ad una “rete nervosa”.
Di ben altro parere fu l'anatomista spagnolo Santiago Ramon y Cajal che sostenne l'ipotesi della autonomia strutturale e funzionale del neurone.
Questa teoria fu divulgata da Wilhelm Waldeyer (1836-1921) che introdusse anche i termini di neurone, dendriti ed assone.
La nuova teoria elaborata da questi primi pionieri delle neuroscienze venne chiamata “teoria del neurone” e si rafforzò, nel corso degli anni anche grazie a complessi studi di fisiologia, che si rivolgevano ai meccanismi di trasmissione dell'impulso nervoso.
All'inizio del novecento, un grande fisiologo Charles S. Sherrington (1857 – 1952) introdusse il concetto di sinapsi, indicando come questa fosse la struttura responsabile della trasmissione dell'impulso nervoso, sia di tipo inibitorio che di tipo eccitatorio.17
Con le ulteriori elaborazioni teoriche e le continue sperimentazioni ed osservazioni, nei primi decenni del novecento, si giunse a studiare le modalità di trasmissione dell'impulso nervoso. Consistenti furono le ricerche ed articolato il dibattito in ambito scientifico che contrapponeva i sostenitori della trasmissione elettrica a quelli della trasmissione chimica. L'ipotesi della trasmissione chimica venne avvalorata negli anni Cinquanta del Novecento, quando furono disponibili elaborate tecniche elettrofisiologiche e biochimiche che indicarono senza ombra di dubbio che soltanto alcune sinapsi particolari utilizzano la conduzione elettrica, mentre la maggior parte utilizza un mediatore nervoso ovvero una trasmissione neuro-ormonale.18
Ebbero inizio così tutti gli studi e le sperimentazioni che, per tutto il Novecento,
contribuiranno ad arricchire sempre più la letteratura sul neurone e sui meccanismi di trasmissione del segnale nervoso. Venne scoperta la funzione dei neurotrasmettitori e dei neuromodulatori. Da allora le ricerche sui mediatori nervosi (dopamina, GABA, acido glutammico ecc.) hanno avuto uno sviluppo senza precedenti e, grazie, a complesse tecniche di biochimica, istologia ed elettrofisiologia, è stato riconosciuto loro un ruolo critico nella trasmissione nervosa.19
Lo studio e la ricerca relativa ai neurotrasmettitori ha portato alla luce anche tutto il complesso sistema dei siti su cui essi agiscono, conosciuti oggi con il nome di recettori e sulle modalità di reazione della membrana cellulare al contatto con i neurotrasmettitori.
Un' ulteriore scoperta in ambito neuroscientifico, legata alla trasmissione nervosa, fu quella inerente i modulatori, potenti mediatori come le endorfine e gli oppioidi endogeni.
Nell'ambito delle ricerche sul neurone, un traguardo di enorme importanza è stato raggiunto da Rita Levi Montalcini (1909-2012) che, dopo accurate ricerche, riuscì a scoprire il fattore di crescita nervosa o NGF (Nerve Growth Factor).
La membrana di un neurone è cosparsa di recettori su cui agiscono mediatori e modulatori nervosi, ma sulla sua superficie sono anche situati recettori particolari su cui agiscono molecole caratterizzate da un'azione trofica, cioè in grado di promuovere la crescita e la sopravvivenza del neurone e di alcune sue strutture.20
I fattori trofici sono fondamentali sia nel corso dello sviluppo che nelle età successive.
Il NGF è uno dei fattori trofici più importanti che influenza in modo considerevole lo sviluppo e l'arborizzazione dei prolungamenti dendritici del neurone.
Dopo Levi Montalcini, ulteriori ricerche hanno dimostrato che il NGF, se iniettato nel tessuto nervoso in fase di sviluppo, consente ai neuroni che non riescono a formare la giunzione sinaptica con le proprie cellule bersaglio, e perciò destinati alla morte, di sopravvivere.
I fattori neurotrofici sono dunque fondamentali nei processi plastici, cioè in tutte quelle situazioni dove si verifica una ristrutturazione dell'architettura del sistema nervoso per formare nuovi circuiti o per riparare i danni che derivano da lesioni diverse21.
Tutti i progressi scientifici avuti nel corso dell'ultimo secolo, nell'ambito delle neuroscienze, sono stati possibili grazie ad una serie di innovazioni tecnologiche e sperimentali nell'ambito degli studi sul cervello.
A partire dal 1929, anno della messa a punto della tecnica dell'elettroencefalografia ovvero la registrazione dell'attività elettrica cerebrale, molte sono state le ricerche per affinare le tecniche di studio dell'encefalo. Intorno alla metà del Novecento, gli scienziati, sono giunti a registrare l'attività elettrica di un singolo neurone tramite elettrodi sottilissimi in grado di penetrare all'interno della cellula nervosa senza danneggiarla22.
Sempre più sono state elaborate ed utilizzate tecniche di stimolazione di aree nervose con elettrodi ed anche la neurochirurgia ha fatto passi da gigante.
Sotto l'aspetto dell'osservazione funzionale lo sviluppo di tecniche non invasive ha consentito agli studiosi di individuare i nuclei nervosi e le aree corticali coinvolte in una determinata funzione23.
Dal punto di vista tecnologico, si sono affinati strumenti radiologici come la TAC, Tomografia Assiale Computerizzata, e la Tomografia ad Emissione di Positroni (PET, Positron Emission Tomography), tecnica che utilizza marcatori con radioisotopi, che ha consentito di visualizzare il metabolismo delle diverse aree cerebrali. Ulteriori sviluppi nella ricerca sono stati possibili grazie alla Visualizzazione a Risonanza Magnetica (NMR, Nuclear Magnetic Resonance) che non sottopone l'individuo a fonti di radiazioni.
Queste tecniche hanno permesso di mappare, grazie ad una cartografia funzionale del cervello, tutte le aree della corteccia coinvolte nelle funzioni motorie, nella sensibilità, nel linguaggio, nelle operazioni numeriche, nell'attenzione, nell'emozione e così via24.
Si è andato delineando, sempre più, l'approccio multidisciplinare moderno, grazie ad una costante interazione tra discipline come biologia, fisica e chimica.
Anche la farmacologia, relegata prima al mero apporto clinico, ha consentito, attraverso studi e ricerche, di approfondire ulteriormente gli aspetti conoscitivi inerenti la funzionalità del neurone e la fisiologia di neurotrasmettitori e recettori , dove agiscono i mediatori ed i modulatori nervosi.
Negli ultimi anni l'approccio basato sulla biologia molecolare ha permesso di raccogliere numerosi dati sui rapporti tra geni e sviluppo del sistema nervoso normale e patologico e sul ruolo delle proteine espresse nel cervello25.
L'evoluzione degli studi legati alla genetica e alle influenze ambientali, in ultima analisi, ha portato alla luce, con le ricerche orientate verso l'epigenetica, l'ipotesi che l'interazione costante tra organismo ed ambiente sia alla base dell'evoluzione, in questo caso, della forte specificità del sistema nervoso, della sua alta specializzazione e del suo funzionamento normale e patologico.
L'approccio neuroscientifico contemporaneo, permette così di comprendere come da poche cellule nervose si passi a organizzazioni complesse attraverso un intricato gioco di fattori genetici ed ambientali e come i messaggi che provengono dalla periferia siano in grado di modificare funzioni e strutture nervose, anche in modo massiccio26.


 CENNI STORICI SULLE DIVERSE INTERPRETAZIONI DELLA SCHIZOFRENIA

Avendo concluso la breve premessa legata allo sviluppo storico delle discipline e della ricerca, che si sono occupate nel corso dei secoli del rapporto mente-cervello, con cui abbiamo aperto questa dissertazione, verrà ora approfondita l'analisi complessiva della psicopatologia su cui è incentrata questa trattazione: la schizofrenia.
Il termine psichiatrico “schizofrenia” fu coniato, per la prima volta, dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler (1857-1939) per designare una classe di psicosi endogene funzionali, a decorso lento e progressivo.
Introducendo il termine schizofrenia (dal greco schizo, scindo, e phren, mente), Bleuler intendeva mettere l'accento sul tratto considerato tipico della schizofrenia ovvero la dissociazione (Spaltung) in parti reciprocamente indipendenti della vita psichica27.
Negli stessi anni un altro Psichiatra tedesco, Emil Kraepelin (1856 – 1926) aveva studiato e classificato, grazie alla possibilità di curare ed osservare i suoi pazienti in determinati contesti, questo disturbo.
A partire da questi primi tentativi nosologici e nosografici di descrizione e classificazione, si svilupperanno varie chiavi di lettura, ciascuna incentrata su aspetti peculiari legati ai vari approcci psichiatrici e psicologici ed ai loro interessi di ricerca.
L'approccio psichiatrico alla schizofrenia, oltre ai contributi di Kraepelin, che considerò la patologia come endogena escludendo che le cause fossero reperibili nelle condizioni ambientali e pensando alla schizofrenia come patologia organica del cervello o ad un disturbo metabolico, e di Bleuler, che colse il tratto principale della patologia nel disturbo associativo e nella scissione delle funzioni fondamentali della personalità, si arricchì di molte ipotesi interessanti.
Adolf Meyer (1866 – 1950), psichiatra svizzero, ipotizzò che nel processo eziopatogenetico della schizofrenia vi fosse una forte componente dinamica data da fattori psicogeni e ambientali precoci agenti fin dall'infanzia del soggetto.
Per Meyer la patologia schizofrenica era determinata da conflitti di istinti o conflitti di complessi dell'esperienza e da una incapacità di attuare un adattamento costruttivo non dannoso28.
Lo psichiatra svizzero, intendendo porre l'attenzione sia sui fattori psicologici che su quelli biologici, parlò di teoria “psicobiologica” della schizofrenia.
Silvano Arieti (1914 – 1981), psichiatra italiano, ipotizzò alcuni stadi inerenti l'insorgenza della schizofrenia, che, attraverso passaggi regressivi, portano al palesarsi della patologia. Da un primario riconoscimento della difficoltà di discriminare la realtà dal mondo sintomatico su cui è incentrata l'attenzione del paziente, si regredisce sempre più verso livelli arcaici di funzionalità psichica dove prevalgono forme di pensiero paleologico e desocializzante. Questi passaggi sono caratterizzati inoltre, secondo Arieti, da distruzione dei concetti, da dissociazione tra oggetto fisico e sua metarappresentazione, da tentativi di manipolazione e ingestione di questi oggetti fisici il cui significato ultimo ormai, nello stadio terminale, viene relegato ad una forma di cognizione primitiva.
Kurt Schneider (1887 – 1967), medico psichiatra tedesco, nel 1959 descrisse quelli che egli chiamava sintomi di prim'ordine, specifici e patognomonici della schizofrenia, che consistevano fondamentalmente nei sintomi psicotici floridi come inserzione del pensiero, trasmissione del pensiero e allucinazioni in terza persona. Sintomi che hanno un denominatore comune nella perdita di controllo di pensieri, sentimenti e corpo29.
Schneider riteneva sintomi di second'ordine altre allucinazioni, intuizioni deliranti, perplessità, alterazioni dell'umore ed impoverimento dell'affettività.
Per quanto concerne l'approccio psicoanalitico, Sigmund Freud (1856-1939) fu il primo a tentare una spiegazione della schizofrenia, per la quale aveva proposto il nome di parafrenia, in termini psicodinamici.
Partendo dalla concezione delle funzioni e dei meccanismi fondamentali che nevrosi e psicosi condividono, come la rimozione, il ritiro dell'investimento libidico, la regressione a stadi precedenti dello sviluppo psichico con relativa fissazione, Freud sostenne che nella schizofrenia non c'era solo perdita di realtà ma anche un tentativo di restituzione tramite l'allucinazione ed il delirio, che tentavano di ristabilire, sia pure in modo distorto, una relazione con il mondo30.
Date queste premesse, il medico viennese, concluse che nelle nevrosi, l'Io sopprime una parte dell'Es, consentendo l'integrità, seppur distorta, dell'analisi della realtà, mentre nelle psicosi, e quindi anche nella schizofrenia, L'Io è al servizio dell'Es ritirandosi dalla realtà.
Carl Gustav Jung (1875-1961), pur partendo dal concetto di scissione di Bleuler, ribaltò l'ipotesi legata ad un'eziologia inerente una possibile debolezza della coscienza e propose, come causa scatenante la malattia, la forza dirompente dell'inconscio.
Jung, che fu il primo ad applicare concetti psicoanalitici alla schizofrenia e a studiare con metodo sperimentale i concetti di associazione evidenziando i legami tra contenuto ideico e carica affettiva 31, ipotizzò che lo scatenarsi della schizofrenia fosse dovuto al sopravvento sull'Io di complessi, non egoici, carichi affettivamente che avrebbero disintegrato in modo devastante la personalità del soggetto.
Tra questi complessi non egoici, in correlazione con motivi personali, sussistono, secondo lo psichiatra svizzero, anche motivi arcaici, legati alla sua ipotesi degli archetipi, che operano in forte contrasto con l'adattamento individuale alla civiltà.
Questa interpretazione minimizza il ruolo delle forze ambientali e personali, per sottolineare l'importanza di fattori congeniti ed organici32.
Altre teorizzazioni, sempre in linea con l'interpretazione psicoanalitica, vennero elaborate da Melanie Klein ( 1882-1960) e da William Ronald Fairbairn ( 1889- 1964 ), che partirono dalle ipotesi legate al concetto di relazioni oggettuali e dalle differenti articolazioni che questo concetto ebbe per i due scienziati.
Per la Klein la schizofrenia è il risultato del mancato superamento della “posizione schizoparanoidea” caratterizzata dalla scissione dell'oggetto in “buono” e “cattivo”, con introiezione degli oggetti “buoni” e proiezione di quelli “cattivi”33.
Fairbairn, invece, ipotizzò che la schizofrenia non fosse legata ad una forma regressiva, ma ad una persistenza nell'impiego di modalità difensive distorte contro l'angoscia dell'esperienza schizoide attraversata durante lo sviluppo delle vicende oggettuali. Secondo lo psicoanalista britannico, nell'esperienza schizoide, il bambino introietta sia gli aspetti “buoni” che quelli “cattivi”. Questi aspetti, in uno sviluppo non patologico, andranno a contribuire alla formazione delle istanze classiche della psicoanalisi. Nella schizofrenia, al contrario, ci sarà una mancata integrazione tra Es e Super-Io.
Degna di nota, per la forte chiave di lettura interpersonale, è la teorizzazione, sempre in ambito psicoanalitico, di Herbert Sullivan (1892 -1949). Lo psicoanalista americano, interpreta la schizofrenia come disturbo generato dalle difficoltà che nascono nelle relazioni interpersonali. Già Freud aveva proposto, tra le cause di questa psicosi, il mutamento che interviene nel rapporto tra individuo e ambiente, parlando però di ritiro dell'energia libidica verso il Sé.
Sullivan, differenziandosi dal medico viennese, è convinto che la schizofrenia sia una proiezione di impressioni antecedenti infantili sugli altri, trasformando così le persone in qualcosa di diverso da ciò che sono34. Queste distorsioni paratassiche incidono profondamente la personalità dell'individuo che regredisce sempre più ad un funzionamento psichico infantile, se non fetale.
Altre interessanti interpretazioni della patologia schizofrenica, si hanno in ambito fenomenologico. In questo approccio, legato in modo sottile più ad aspetti filosofici che ad aspetti inerenti le scienze della natura, la schizofrenia è da leggersi al di fuori di ogni ricerca causale e sintomatica. Le cause di questa patologia si fanno risalire ad un diverso modo di declinarsi delle strutture trascendentali che sono alla base di ogni esistenza35.
Karl Jaspers (1883 – 1969), il maggiore rappresentante di questo approccio, rifiutò l'indagine causale tipica della scienza psichiatrica e clinica, sostenendo che la malattia non doveva essere letta come oggetto naturale ma come processo. Secondo il filosofo tedesco, cercare la causa significa partire da qualcosa di già presupposto e quindi allontanarsi erroneamente dall'esperienza vissuta.
Secondo l'approccio fenomenologico, i segni della malattia mentale non possono essere considerati sintomi, perché il sintomo rinvia ad una causa e quindi ad una teoria presupposta. I segni, dunque, vanno considerati come significati che esprimono qualcosa anche se questo qualcosa è fondamentalmente diverso dall'esperienza comune36. Pur considerando l'importanza critica di questo approccio, sia dal punto di vista scientifico che culturale, esso si discosta in modo importante dai paradigmi basilari di natura biomedica e dalle prassi più moderne di studio e di ricerca legate alla psicopatologia.
L'ultimo approccio preso in considerazione in questa prima carrellata, è l'approccio sistemico. Il primo scienziato che ha articolato le interessantissime ipotesi legate a questo approccio è Gregory Bateson (1904 – 1980).
Lo studioso inglese, ha letto la schizofrenia come una forma patologica di comunicazione interpersonale, dove i segnali contraddittori ed incongrui, non consentono al soggetto di poter essere compreso dagli altri, ingenerando perciò, fin dall'infanzia, la convinzione che la realtà sia paradossale. A questa convinzione possono essere legati, in ultima analisi, tutti quei comportamenti incongrui e slegati dalla realtà che fanno parte ,in maniera consistente, della patologia psichiatrica.

 KRAEPELIN, BLEULER E SCHNEIDER


Emil Kraepelin (1856-1926), dopo studi di neuroanatomia, psicofisiologia e psicofarmacologia sperimentale, portò a compimento il tentativo di molti psichiatri tedeschi del XIX secolo di ancorare saldamente la psichiatria alla medicina attraverso la mediazione della neuropatologia e della fisiologia37.
Grazie a questo suo percorso di ricerca, legato allo studio degli aspetti strutturali e funzionali del sistema nervoso, lo psichiatra tedesco divenne un convinto sostenitore del metodo clinico-nosografico descrittivo. Kraepelin focalizzò la sua attenzione sugli aspetti somatici della malattia mentale.
Lavorando in ambienti di studio dove aveva a disposizione moltissimi casi clinici, spesso considerati irreversibili, Kraepelin riuscì a trarre una corposa mole di materiale per elaborare un nuovo sistema di classificazione delle malattie mentali che divenne fondamentale per ampliare la base di ricerca della moderna nosologia psichiatrica.
Per lo psichiatra tedesco divenne fondamentale suddividere la malattia mentale in disturbi esogeni, dovuti a cause organiche o biologiche, e disturbi esogeni, dovuti a cause e condizioni esterne all'organismo38.
Nel 1898, Kraepelin descrisse per la prima volta quella che chiamerà dementia praecox, intendendo con questo termine delineare il disturbo che oggi conosciamo come schizofrenia ed inserendola, con la malattia maniaco-depressiva, all'interno del gruppo delle psicosi endogene.
Per Kraepelin con il termine dementia praecox, si abbracciavano diversi sottogruppi diagnostici come la demenza paranoide, la catatonia e l'ebefrenia, disturbi che, pur sintomatologicamente diversi, avevano un medesimo nucleo comune. Questo nucleo comune era ben caratterizzato dal termine “dementia praecox”: un esordio precoce (praecox) ed un decorso contrassegnato da un progressivo quanto inevitabile deterioramento intellettivo (dementia)39.
Eugen Bleuler (1857-1939), direttore dell'ospedale psichiatrico di Zurigo, collaborò in un primo momento con Carl Gustav Jung (1875-1961) che lo mise in contatto con Sigmund Freud (1856-1939). Bleuler tentò così un'applicazione di alcuni concetti psicoanalitici alla pratica psichiatrica, restando però fortemente legato ad una visione organicistica della malattia mentale40.
Per quanto concerne lo studio della schizofrenia ( denominazione coniata dallo stesso Bleuler), lo psichiatra svizzero, si discostò dalla descrizione di Kraepelin in due punti fondamentali: egli riteneva che il disturbo non avesse necessariamente un esordio precoce e che non progredisse inevitabilmente verso la demenza41.
Bleuler allora tentò di osservare e studiare degli elementi comuni che legassero tra loro le manifestazioni morbose della patologia e, a questo scopo, adottò il termine metaforico di “disgregazione dei fili associativi”.
I fili associativi, per Bleuler, uniscono non solo le parole ma anche i pensieri, quindi pensieri e comunicazione vengono integrati e sono efficienti in strutture associative psichicamente integre.
Tale nozione, riusciva a delineare e spiegare in modo chiaro la disgregazione dei nessi associativi presente nella varia gamma dei segni e sintomi della schizofrenia.
Partendo da questa premessa nosologica innovativa, Bleuler riuscì a classificare i sintomi della malattia in fondamentali, non necessariamente primari ma presenti in ogni caso di schizofrenia latente o conclamata, ed accessori, presenti o assenti42.
In relazione ai sintomi fondamentali, lo psichiatra svizzero, parlò di associazione compromessa, affettività inadeguata, ambivalenza ed autismo; Tra i sintomi accessori, le allucinazioni, i deliri, i disturbi del linguaggio e le manifestazioni catatoniche.
Rispetto a Kraepelin, la cui visione della malattia era incentrata sulla definitiva degenerazione cognitiva ed affettiva legata al processo della demenza, Bleuler riuscì a osservare, grazie all'analisi degli aspetti legati al disturbo associativo, quella scissione devastante della personalità e delle sue funzioni fondamentali.
Seppur fondamentale, il contributo di Bleuler, è stato sottoposto a numerose critiche e revisioni. Secondo diversi studiosi, la descrizione della schizofrenia proposta dallo psichiatra svizzero enfatizza, in special modo, i disturbi del pensiero ed i sintomi negativi a discapito dei più floridi sintomi positivi, portando ad una visione della malattia che rischia di essere incompleta e univoca43.
Un terzo filone di ricerca fu introdotto dallo psichiatra tedesco Kurt Schneider (1887 – 1967) che tentò di semplificare la complessa struttura delle descrizioni della schizofrenia di Kraepelin e Bleuler, attraverso l'identificazione di caratteristiche patognomoniche44.
I sintomi di prim'ordine descritti dallo psichiatra tedesco riflettevano una perdita complessiva di autonomia o di controllo sull'integrità dell'Io includendo inserzioni, diffusioni, furto del pensiero e voci commentanti. L'approccio di Schneider, molto influente, fu il riferimento per la compilazione del Present State Examination, che servì come base per l' International Pilot Study of Schizophrenia dell'OMS (1970)45.
Questo progetto esaminerà la prevalenza e la prognosi della schizofrenia in differenti nazioni e suggerirà un sempre più accurato approccio nella nosografia e nella nosologia dei sintomi e segni del disturbo, mettendo in luce la più ampia considerazione del concetto di schizofrenia degli psichiatri americani rispetto ai colleghi del resto del mondo.

 EPIDEMIOLOGIA ED EZIOPATOGENESI


Dopo aver passato in rassegna, seppur sommariamente, alcuni aspetti generali sulla storia della nascita e dello sviluppo delle moderne discipline che si occupano di studiare la correlazione tra mente e cervello negli aspetti patologici e non patologici, e di aver delineato, per quanto concerne la schizofrenia, tema principale di questo lavoro, le chiavi di lettura elaborate nel corso degli ultimi secoli, è ora la volta di entrare più nel dettaglio e di approfondire in modo specifico questo disturbo, seguendo, anche negli aspetti psicopatologici e clinici, il filo conduttore di questa dissertazione, ovvero una lettura psico-biologica della schizofrenia, che porti alla luce le ipotesi messe in campo inerenti la stretta correlazione tra elementi strutturali ed elementi funzionali del sistema nervoso, tra mente e cervello.
La schizofrenia è una psicopatologia caratterizzata da disfunzioni cognitive, emozionali e comportamentali i cui sintomi e segni producono un effetto profondo non solo sull'esistenza dei pazienti ma anche su quella di familiari e amici46.
I deliri, le allucinazioni, il pensiero disorganizzato e la disgregazione della personalità, e tutti gli altri sintomi e segni di questo disturbo, rendono difficile l'interazione con gli altri, portano ad un impoverimento materiale a causa dell'impossibilità di un'occupazione stabile e ad una perdita consistente di sostegno sociale. I tassi di abuso di sostanze sono elevati e probabilmente riflettono il tentativo di risolvere, nell'ottica di automedicazione, il disagio devastante prodotto dalla patologia. Il tasso di suicidi tra i pazienti con schizofrenia è alto47.
L'epidemiologia, ovvero la disciplina biomedica che si occupa dello studio della distribuzione e frequenza di malattie e di eventi di rilevanza sanitaria nella popolazione, per quanto riguarda il disturbo schizofrenico, riporta una prevalenza, nel corso della vita, di circa 1% anche se il valore dipende dai criteri diagnostici usati, con una prevalenza uguale per maschi e femmine.
In relazione all'età di insorgenza, la schizofrenia può comparire ad ogni età, ma è rara nell'età infantile e nella prima adolescenza e poco comune dopo i 45 anni. Secondo i dati riportati da diversi studi epidemiologici l'età di insorgenza più frequente nei maschi è compresa nel range 15-24 anni mentre l'età di insorgenza più frequente nelle donne è compresa nel range 25-35 anni, con picchi di incidenza nei 20 e nei 40 anni48.
Alcuni studi hanno messo in luce che la prevalenza e la gravità sono maggiori nei paesi più industrializzati rispetto ai non industrializzati e nelle aree urbane rispetto a quelle rurali. In relazione a questi dati di distribuzione geografica, gli scienziati hanno sviluppato due possibili ipotesi: l'ipotesi della deriva, per la quale la prevalenza più elevata nelle aree urbane è data dallo spostamento dei pazienti schizofrenici che dalle aree rurali raggiungono le città a causa del loro disturbo o dei sintomi prodromici, e l'ipotesi dello sviluppo, per la quale la prevalenza più elevata nelle aree urbane è data dalle continue sollecitazioni e dallo stress del vivere in città, che sono fattori eziologici per la schizofrenia49.
Numerosi dati sono stati raccolti anche in popolazioni di immigrati con livelli di qualità della vita diversi. Questi dati hanno consentito analisi epidemiologiche più approfondite e la possibilità di ipotizzare, come ulteriori fattori scatenanti, anche la scarsa integrazione e la deprivazione socioeconomica.
In relazione proprio allo status socioeconomico e all'idea di una prevalenza maggiore di schizofrenia negli strati inferiori della popolazione, le differenze osservate sono spiegate, però, dall'ipotesi della deriva sociale poiché lo status socioeconomico del padre dei pazienti schizofrenici sembra distribuito normalmente50.
Tipicamente le persone con schizofrenia presentano un certo numero di episodi acuti dei loro sintomi e, tra un episodio e l'altro, sintomi meno severi, ma tuttavia molto debilitanti. L'abuso di sostanze presenta comorbilità con la schizofrenia e si ha in circa il 50% dei pazienti affetti da questa patologia, di conseguenza costituisce uno dei problemi principali ad essa connessi (Kosten e Ziedonis, 1997)51.
Molte le ipotesi e molti gli studi articolati dagli scienziati per chiarire le cause, psicobiologiche e psicosociali della schizofrenia.
Proponiamo ora una breve carrellata delle ipotesi eziopatogenetiche principali, ipotesi che avremo sicuramente il modo di approfondire nel procedere del lavoro e ritrovare in correlazione con altri elementi utili per sviluppare un'analisi complessiva della patologia schizofrenica.
La prima causa, forse tra le più importanti ed accreditate da studi e ricerche, dello scatenarsi del disturbo schizofrenico, è stata studiata dai ricercatori nell'ambito dell'ipotesi genetica. Sono stati identificati molti geni candidati per la schizofrenia e appare probabile agli studiosi che ogni individuo abbia una particolare conformazione genetica che lo rende più o meno suscettibile per lo sviluppo del disturbo52.
Sono stati quindi identificati alcuni geni che, secondo i neuroscienziati, starebbero alla base dello scatenarsi della patologia. Questi geni sono: disbindina (cromosoma 6p), neuregulina 1 (8p) e G72 (13q)53.
Tuttavia, il tasso di concordanza per la schizofrenia di circa il 50% nei gemelli monozigoti indica che, pur considerando la sostanziosa componente genetica, nella patogenesi del disturbo siano da tenere in considerazione fattori ambientali che avrebbero un uguale peso come diatesi.
Per suffragare l'ipotesi genetica sono stati condotti, da diversi anni, molti studi familiari, gemellari e sugli adottati. Vedremo nel dettaglio l'impatto di questi studi nella ricerca sulla schizofrenia, nel capitolo terzo del presente lavoro.
Altra e considerevole teorizzazione inerente l'eziologia del disturbo schizofrenico è legata allo studio delle alterazioni neurochimiche e neurologiche.
Un aumentato livello di dopamina nel cervello è alla base dell'ipotesi dopaminergica sostenuta da Snyder nel 1976, che studiò quattro gruppi di dati: l'aumento del rilascio di dopamina, dato da alte dosi di anfetamine, può indurre una psicosi schizofrenisimile (psicosi anfetaminica); Le anfetamine stesse, ed altri agenti dopaminergaci, aggravano i sintomi della schizofrenia; L'efficacia degli antagonisti della dopamina, in particolar modo le fenotiazine (clorpromanzina) e i butirrofenoni (aloperidolo), nel trattamento della schizofrenia; La potenza clinica di questi antipsicotici tipici è correlata in modo sostanziale alla loro affinità per i recettori della dopamina (D2), che vengono bloccati54.
Forte del sostegno della psicofarmacologia , Snyder comprese però che la cura della schizofrenia attraverso antipsicotici, poteva provocare effetti collaterali come una sindrome simile, per segni e sintomi, al morbo di Parkinson. Studi post-mortem rilevarono un aumento dei livelli di dopamina e di recettori della dopamina nel cervello di pazienti schizofrenici. L'ipotesi dopaminergica però non viene suffragata da tutti i dati a disposizione. Pareri discordi vengono espressi in relazione a diversi elementi contrastanti, come la variabilità di remissione e ricaduta della schizofrenia che si presenta con vari quadri clinici e l'efficacia degli antipsicotici che si ha solo in circa il 70-85% dei casi di sviluppo conclamato della patologia.
Alla luce di questa contraddittorietà dei dati, Davis e collaboratori hanno rielaborato e rivisto l'ipotesi dopaminergica sostenendo che l'iperattività della dopamina (iperdopaminergia) nel sistema mesolimbico provochi i sintomi positivi della schizofrenia e una ridotta attività dopaminergica (ipodopaminergia) nel sistema mesocorticale provochi i sintomi negativi.
Questi studi hanno dimostrato che gli alterati livelli di dopamina e di altri neurotrasmettitori come serotonina e glutammato possano essere correlati tra loro.
Un'ulteriore ipotesi è che la serotonina abbia un ruolo inibitorio differenziato sulla dopamina, inibendo, in particolar modo, i tratti mesocorticale, nigrostriatale e tuberoinfundibulare. A sostegno poi di un'altra ipotesi legata al concetto di ipofrontalità i dati dimostrano che l'inibizione dell'attività dopaminergica a livello della corteccia prefrontale aggraverebbe i sintomi negativi55.
Diviene importante sottolineare, però, che le alterazioni a livello dei sistemi neurotrasmettitoriali sono da integrare, nella visione di un'eziologia complessa, con elementi patognomonici legati a fattori genetici e morfofunzionali e a fattori psicologici e socioambientali.
La ricerca compiuta intorno all'analisi delle alterazioni neurologiche legate alla patologia schizofrenica, possibile grazie al corposo sviluppo di apparati tecnologici sempre più sofisticati, ha portato notevoli contributi.
Sono state evidenziate, in diversi casi fin dal primo manifestarsi del disturbo, alterazioni strutturali come la riduzione della massa e della dimensione del cervello e lievi riduzioni focali del tessuto cerebrale in aree come ippocampo, amigdala, lobi frontali e temporali e corpo calloso. La diminuzione di queste aree parrebbe provocare quindi una dilatazione dei ventricoli cerebrali ed altre anomalie citoarchitettoniche.
Tuttavia questo processo riduttivo è parso agli scienziati come il risultato di una riduzione delle dimensioni dei neuroni e non come un processo neurodegenerativo56.
Dal punto di vista funzionale, l'eziologia della schizofrenia potrebbe essere correlata a segni neurologici come alterazione della propriocezione, ipofrontalità, ovvero riduzione delle prestazioni ai test sulla funzionalità dei lobi frontali, anomalie legate alle prestazioni nell'inseguimento oculare e variazioni all'elettroencefalogramma (ECG)57.
Le alterazioni citoarchitettoniche, in assenza di gliosi nel cervello dei pazienti schizofrenici, farebbero pensare però ad un processo patologico del neurosviluppo e non ad un processo neurodegenerativo.
Molte ipotesi in questa direzione, sono state formulate prendendo in considerazione eventi traumatici alla nascita come precoci esposizioni a virus di varia natura, traumi cranici infantili ed encefaliti infantili58.
Diverse ricerche hanno evidenziato come gli eventi di vita possano influenzare lo scatenarsi della patologia schizofrenica e molti studi dono stati condotti sull'ipotesi diatesi/stress.
Anche l'abuso di sostanze sembra strettamente correlato all'eziologia della schizofrenia. La cannabis aumenta di due volte il rischio relativo individuale di sviluppare successivamente la schizofrenia. Sostanze come allucinogeni e psicostimolanti possono precipitare un episodio schizofrenico59.
Ultima ed interessante ipotesi relativa alla psicopatogenesi del disturbo schizofrenico è inerente all'emotività espressa (EE) ovvero alla quantità e qualità del coinvolgimento emotivo da parte della famiglia del paziente. Alcuni studi hanno dimostrato che un'elevata EE nelle famiglie degli schizofrenici è un importante fattore di rischio di ricadute.
Data la complessità della patologia e la molteplicità di fattori scatenanti coinvolti, neurobiologici, psicologici e socioambientali, ad oggi, possiamo solo prendere in considerazione ed analizzare una molteplicità di ipotesi eziopatogenetiche che, pur fornendo importantissimo materiale scientifico a sostegno delle molte interpretazione nosologiche e nosografiche della schizofrenia, rischiano di non consentire la teorizzazione complessiva di un quadro omogeneo dalla patogenesi alla patologia conclamata.

 QUADRO CLINICO – SINTOMI POSITIVI: DELIRI E ALLUCINAZIONI


In relazione alla vasta gamma di sintomi e segni della Schizofrenia, la complessità e la disomogeneità dei casi, ha portato gli scienziati a cercare di ricondurre gli aspetti patologici del disturbo , dal punto di vista nosografico, ad alcune categorie specifiche in cui far confluire, di volta in volta, le manifestazioni sintomatiche del disagio.
I sintomi fondamentali della schizofrenia includono disturbi della percezione, alterazioni a carico del pensiero, del linguaggio e della comunicazione, disturbi dell'affettività, alterazioni del comportamento, incapacità a provare piacere, riduzione della volontà, dell'iniziativa e dell'attenzione, anche se il quadro clinico della patologia può variare nel tempo e nessuno di questi sintomi può essere considerato patognomonico della malattia60.
Questa eterogeneità della schizofrenia rende opportuno così suddividere i pazienti in sottotipi che manifestano particolari costellazioni di problemi. Circa trent'anni fa, i sintomi vennero ripartiti in due categorie, i sintomi positivi ed i sintomi negativi, a cui si aggiungeranno, in un'elaborazione nosografica successiva, i sintomi disorganizzati61.
Per quanto concerne i sintomi positivi della schizofrenia, studi e ricerche hanno descritto manifestazioni patologiche del pensiero e del suo contenuto come i deliri e della percezione, come le allucinazioni.
Il delirio viene descritto come composto da idee incorreggibili, incrollabili, non giustificate dal retroterra culturale e sociale del soggetto, mantenute con straordinaria convinzione e certezza soggettiva62.
In soggetti vigili e con un non alterato stato di coscienza si possono manifestare forme di delirio descritte come delirio lucido mentre in pazienti con sensorio alterato (stati febbrili, tossici, dismetabolici) si possono conclamare forme deliranti definite delirio confuso.
Se i contenuti del delirio sono indipendenti da qualsiasi esperienza psichica, inderivabili ed incomprensibili, il delirio viene descritto come primario, al contrario, se il delirio deriva in maniera comprensibile da stati affettivi, da esperienza legate alla sfera psicosociale, da avvenimenti vissuti, si parla di delirio secondario, in genere transitorio.
Per quanto concerne i contenuti dei deliri, abbiamo una diversa consistenza, data dal vissuto emozionale, sociale e culturale del paziente. Ecco una breve carrellata:
a) Deliri di persecuzione, che vedono l'individuo alle prese convintamente con idee legate ad una presunta forte ostilità dell'ambiente; b) Deliri di trasformazione, che possono coinvolgere sia l'ambiente esterno sia il proprio corpo o parti di esso; c) Deliri palignostici, come la sindrome di Capgras che influenza la percezione dell'ambiente familiare del paziente e come la sindrome di Fregoli che comporta nell'individuo il distorto riconoscimento di figure familiari proiettate su persone sconosciute; d) Deliri religiosi, con tematiche mistiche o sacre; e) Deliri depressivi, il cui nucleo ideativo è relativo a sensi di colpa, di indegnità, di rovina economica e di malattia fisica; f) Deliri di grandezza, che investono la percezione del vissuto del paziente; g) Deliri di gelosia; h) Deliri di influenzamento.
Buona parte di questi deliri, insieme alle voci commentanti o dialoganti, all'eco del pensiero e alla percezione delirante, è compresa, secondo Schneider, nei sintomi di primo rango della schizofrenia63.
I deliri ricorrono in più della metà delle persone affette da schizofrenia, ma sono presenti anche in individui con altre diagnosi come il disturbo bipolare, la depressione ed il disturbo delirante64.
In relazione alla seconda grande classe in cui sono raccolti i sintomi positivi, quella delle allucinazioni, gli scienziati parlano di disturbi della percezione, suddividendo questi disturbi in distorsioni percettive, dove i percetti del reale vengono deformati, e false percezioni, dove vengono create nuove percezioni in risposta o meno ad uno stimolo esterno.
Le allucinazioni sono fenomeni dispercettivi che già Esquirol nel 1883 definiva percezioni senza oggetto. Per il paziente le allucinazioni non differiscono in nulla dalla normale esperienza sensoriale grazie a caratteristiche comuni come concretezza, obiettività e spazialità sensoriale65.
In relazione al senso coinvolto, gli studiosi hanno classificato allucinazioni uditive, visive, olfattive e gustative e somatiche.
Le allucinazioni vengono ulteriormente suddivise in semplici e complesse in base alla complessità o alla semplicità delle produzioni sintomatiche.
Nei pazienti schizofrenici le allucinazioni uditive prevalgono su quelle visive e circa il 74% di un campione di individui affetti da schizofrenia riferì di avere allucinazioni uditive (Sartorius et al., 1974). Alcuni tipi di allucinazioni sono considerati particolarmente importanti da un punto di vista diagnostico perché si verificano con maggiore frequenza nei pazienti con schizofrenia piuttosto che negli altri pazienti psicotici66.
Da un punto di vista neurologico, diversi studi che hanno utilizzato la tecnica di brain imaging, hanno rivelato che, durante allucinazioni uditive in pazienti schizofrenici, vi è una consistente attività nell'area di Broca (McGuire, Shah e Murray, 1993). Ulteriori studi sono stati condotti per dimostrare come probabilmente sussista un deficit nelle connessioni tra aree del lobo frontale, deputate alla produzione del linguaggio, ed aree del lobo temporale, preposte alla comprensione del linguaggio (Ford et al., 2002).
Sicuramente deliri ed allucinazioni sono tra i fenomeni più caratteristici e pervasivi della patologia schizofrenica e coinvolgono, dal loro apparire, sia aspetti organici che aspetti psicologici. I sintomi positivi che accompagnano la diagnosi di schizofrenia, vanno inoltre ad influenzare, con risvolti dolorosi e tragici, la vita sociale del paziente che diventa così incapace di poter interagire in modo sufficientemente positivo con l'ambiente esterno di riferimento.


 QUADRO CLINICO – SINTOMI NEGATIVI:ABULIA, ALOGIA, ANEDONIA, APPIATTIMENTO DELL'AFFETTIVA' ED ASOCIALITA'

Il manifestarsi della patologia schizofrenica è costellato non solo da sintomi e segni che abbiamo definito come positivi ovvero come floridi in proporzione alle consistenti produzioni psichiche e comportamentali del soggetto, ma anche da sintomi e segni di natura negativa ovvero da carenze di attività psichica e comportamentale. I sintomi negativi, il cui conclamarsi rende particolarmente problematico il vissuto del paziente, tendono a perdurare oltre l'episodio acuto e sono un considerevole fattore predittivo di una mediocre qualità della vita67.
Nella valutazione di sintomi e segni negativi e positivi, tuttavia, a causa della loro aspecificità, si deve tenere in considerazione la distinzione tra quelli che potrebbero denotare il manifestarsi della schizofrenia e altri elementi che potrebbero essere correlati con svariate patologie e con l'uso di farmaci antipsicotici.
Uno dei sintomi negativi caratteristici della schizofrenia è l'abulia o apatia, che si manifesta con una mancanza di energia ed un apparente disinteresse per le consuete attività quotidiane68.
In questo caso, i pazienti presentano una considerevole trascuratezza a livello di igiene personale, una mancata coordinazione rispetto alle attività quotidiane, un disordine personale importante. I soggetti abulici hanno serie difficoltà nel portare avanti le normali attività che fanno parte del loro vissuto e spesso trascorrono il loro tempo accasciati senza fare nulla.
Altro sintomo negativo della schizofrenia è l'alogia, un disturbo del linguaggio che può assumere diverse forme69.
In quella che viene definita come povertà di eloquio, è la quantità di produzione del linguaggio che viene colpita mentre nella povertà di contenuto dell'eloquio, ferma restando la normale quantità di produzione del linguaggio, è il contenuto dell'eloquio che subisce un danno consistente, apparendo come vago e ripetitivo e scarsamente informativo.
Un ulteriore sintomo negativo della patologia schizofrenica è l'anedonia che consiste in una prolungata perdita di interesse per l'esperienza del piacere o in una riferita diminuzione di tale esperienza70.
Il manifestarsi di questo sintomo è ben testato dagli scienziati grazie a batterie di interviste i cui risultati hanno dimostrato come i pazienti schizofrenici riferiscano le sensazioni di un minor piacere, inerenti a svariate attività, diversamente dal gruppo di controllo.
Tali ed ulteriori studi hanno però spinto altri scienziati ad ipotizzare non una mera carenza di sensazioni di piacere ma una distorta percezione delle attese di piacere rispetto a situazioni o attività proposte a pazienti e gruppo di controllo.
L'affettività appiattita è un altro elemento caratterizzante gli aspetti negativi della schizofrenia. I soggetti che presentano un'appiattimento dell'affettività non producono risposte emozionali a nessuno stimolo. Il paziente che manifesta un'affettività appiattita, fissa lo sguardo nel vuoto, i muscoli mimici totalmente inespressivi71.
Tale appiattimento affettivo si caratterizza così per una riduzione o per la totale assenza di capacità di modulazione affettiva.
Mimica, gestualità e reattività emozionale sembrano aver perso l'abituale flessibilità72.
Questo sintomo negativo è stato riscontrato nel 66% di un considerevole campione costituito da pazienti schizofrenici. Tuttavia il concetto di affettività appiattita si riferisce solo alle espressioni esterne delle emozioni, anche di fronte a gravi eventi stressanti, e non all'esperienza interiore del soggetto. In uno studio condotto da Kring e Neale nel 1996, utilizzando la registrazione di reazioni facciali e conduttanza cutanea a stimoli di varia natura, è stato dimostrato come i pazienti schizofrenici differiscano dal gruppo di controllo, per quanto riguarda l'espressione dell'affettività, solo per le manifestazioni mimico-facciali inerenti l'emotività mentre è apparsa addirittura maggiore, rispetto al gruppo di controllo, la reazione a stimoli considerevoli misurata sulla conduttanza cutanea.
Altro importante sintomo negativo della schizofrenia è l'asocialità intesa come grave compromissione, presentata da alcuni pazienti schizofrenici, nella sfera dei rapporti sociali. Questi soggetti hanno pochi amici, mediocri abilità sociali e sono scarsamente interessati alla interazione con l'altro. Queste manifestazioni della schizofrenia sono spesso le prime a comparire ed hanno inizio già nell'infanzia prima dell'esordio di altri sintomi73.

 QUADRO CLINICO – SINTOMI DISORGANIZZATI:ELOQUIO DISORGANIZZATO, COMPORTAMENTO DISORGANIZZATO.


Tra i sintomi più evidenti e specifici della schizofrenia possiamo trovare tutte le manifestazioni disorganizzate che coinvolgono il pensiero ed il comportamento e che possono essere considerate significative nell'ambito di quella dissociazione complessiva della psiche e delle sue facoltà che già Bleuler aveva preso in considerazione dando il via così a tutti i tentativi di comprensione e descrizione della patologia.
La disorganizzazione formale delle principali facoltà psichiche e del comportamento e la perdita globale dei nessi associativi causali, hanno spinto gli studiosi a descrivere e classificare soprattutto i due aspetti più coinvolti in questa disintegrazione della personalità, il pensiero, elaborato ed espresso ed il comportamento.
Con il termine di Eloquio disorganizzato, gli scienziati hanno voluto intendere così un disturbo formale del pensiero ovvero l'incapacità del paziente schizofrenico di organizzare le proprie idee e di comunicare in modo comprensibile con un ascoltatore74.
Questo disturbo altera, così, la sequenza logica di costruzione di un periodo e compromette la capacità comunicativa fino all'estrema incomprensibilità del messaggio75.
Ad un'attenta analisi dell'eloquio del paziente schizofrenico viene immediatamente alla luce quella modalità distorta e disorganizzata di linguaggio e pensiero che gli studiosi hanno definito allentamento dei nessi associativi o deragliamento che, pur consentendo all'individuo di farsi mediamente comprendere, è una manifestazione conclamata della difficoltà nel mantenere la sequenza logica del pensiero. Il paziente sembra lasciarsi andare alla deriva sulla scia di una serie di associazioni evocate da un'idea del passato76.
Il paziente schizofrenico può, senza preavviso, passare da un argomento all'altro, (deragliamento); fornisce risposte oblique, poco o punto correlate alle domande poste (tangenzialità); tende ad associare le parole in funzione alla loro somiglianza semantica o fonetica anche se prive di senso, rendendo il discorso a volte severamente disorganizzato e privo di senso (“insalata di parole”). Spesso il discorso è composto da neologismi, creati dal paziente per esprimere in forma simbolica un contenuto ideativo77.
Tuttavia la presenza di eloquio disorganizzato non è sufficiente a differenziare la schizofrenia da altri disturbi, come alcuni disturbi dell'umore (Andreasen, 1979).
Grazie ai contributi della neuropsicologia cognitiva, il disturbo legato all'eloquio disorganizzato, è stato collegato ad un più ampio disagio, presente nella patologia schizofrenica, inerente il funzionamento esecutivo. Questo deficit, correlato soprattutto alle funzioni corticali superiori dei lobi frontali ed ai circuiti associativi ad essi collegati, coinvolge così, da un punto di vista funzionale,il problem solving, la capacità di pianificare e quella di operare associazioni tra pensieri e sentimenti e la capacità di percepire ed elaborare le informazioni semantiche (Kerns e Berembaum, 2002, 2003).
Altro sintomo della schizofrenia, fortemente debilitante anche dal punto di vista psico-sociale, è legato al comportamento disorganizzato.
I pazienti possono manifestare comportamenti inconsueti, atteggiamenti infantili e provocatori, incapacità di autogestione personale, difficoltà consistenti nella pianificazione ed esecuzione delle attività della vita quotidiana.
Il conclamarsi di questo deficit comportamentale disorganizzato può essere fatto risalire alla carenza funzionale legata alla disintegrazione dei nessi associativi che, pervadendo il pensiero formale, ha consistenti ricadute in ambito comunicativo e comportamentale. L'individuo perde così la capacità di organizzare, in sequenze logiche causali, linguaggio e comportamento, che, a motivo della disorganicità complessiva, risultano spesso incomprensibili e privi di un significato comunemente condiviso.
Anche il manifestarsi del comportamento disorganizzato è stato fatto risalire, dalla neuropsicologia cognitiva, ad un importante deficit delle funzioni esecutive, tracciando un interessante parallelismo tra segni e sintomi della schizofrenia e segni e sintomi di disturbi neurologici significativi come sindrome disesecutiva
o neoplasie ed episodi ictali della regione frontale, parallelismo che, grazie ad ipotesi mirate, ha aperto considerevoli strade per la ricerca in ambito neurologico, psicologico e psichiatrico.



 QUADRO CLINICO – ALTRI SINTOMI:CATATONIA, AFFETTIVITA' INAPPROPRIATA


Dopo aver delineato, per sommi capi, gli aspetti più significativi della psicopatologia della schizofrenia, terminiamo questa carrellata con gli ultimi elementi clinici che, pur comparendo in una buona parte dei casi patologici conclamati, rientrano con difficoltà nelle categorie nosologiche e nosografiche fino ad ora esposte. E' il caso della catatonia, disturbo composto da diverse anomalie motorie.
Situata lungo un continuum che procede da un eccitamento catatonico legato a gesticolazioni eccessive e ripetute, agitazione sfrenata composta da movimenti stereotipati di arti e testa che, nonostante la loro complessità e stranezza, parrebbero finalizzate ad uno scopo, da un lato, fino a un' immobilità catatonica inerente posizioni inconsuete e rigide mantenute per molto tempo dall'altro, la catatonia consente di osservare un marcato disinteresse verso la realtà esterna ed una riduzione delle risposte alla stimolazione78.
Nel manifestarsi di comportamenti concernenti l'eccitamento catatonico, diversamente dall'apparente stallo dell'immobilità catatonica, l'individuo sperimenta un'iperattività motoria fino alla violenza clastica con atteggiamenti auto- ed eteroagressivi79.
Grazie alla chiave di lettura fornita dal paradigma della neuropsicologia cognitiva, anche comportamenti disabilitanti come la catatonia, possono essere fatti risalire alla disorganizzazione funzionale del sistema esecutivo cortico-frontale, i cui circuiti elaborano il controllo degli impulsi e la pianificazione dei comportamenti. Il disturbo catatonico, in genere, risulta correlato ai disturbi della percezione (allucinazioni imperative) o a ideazioni deliranti80.
Un ulteriore segnale che fa parte dell'insieme di segni e sintomi della schizofrenia è l'affettività inappropriata.
Alcuni soggetti schizofrenici manifestano risposte emozionali discordanti rispetto al contesto.
Queste risposte possono variare rapidamente lungo un continuum che procede da uno stato negativo ad uno stato euforico ed eccitato. Tuttavia l'affettività inappropriata è un sintomo piuttosto raro ed è relativamente specifico della schizofrenia81.
Concludendo questa prima parte della dissertazione, inerente gli aspetti storici e metodologici e la presentazione generale della patologia presa in esame, possiamo sicuramente notare i grandi passi avanti fatti dalle scienze che si sono occupate e che si occupano del rapporto mente-cervello, sia per quanto riguarda il funzionamento sano che per quanto riguarda il funzionamento patologico, ed in secondo luogo apprezzare il tentativo fatto dagli scienziati, di descrivere segni e sintomi, organizzarli in categorie il più possibile universali e condivise dalla comunità scientifica e curare uno dei disturbi più consistenti e disabilitanti della psiche. La consapevolezza acquisita da studiosi e ricercatori ha consentito di strutturare un approccio nosologico, nosografico e terapeutico integrato, forte dei contributi di diverse discipline, che ha permesso di sviluppare ed affinare metodologie diagnostiche e tecniche terapeutiche sempre più incentrate sulla complessità uomo-salute-malattia, una complessità costituita dalle strette correlazioni tra aspetti biologici, aspetti psicologici, aspetti psico-sociali e aspetti ambientali che, in ultima analisi, vanno a concorrere nella genesi e nello sviluppo globale della vita di ogni essere umano.

IL DIGNOSTIC AND STATISTICAL MANUAL OF MENTAL DISORDER (DSM)


 INQUADRAMENTO DIAGNOSTICO DELLA SCHIZOFRENIA NEL DSM-IV-TR


A partire dalla fine dell'Ottocento, sulla scia dei progressi fatti in ambito classificatorio dalle altre scienze naturali, come la chimica e la botanica, anche le scienze che si occupavano di comportamento patologico iniziarono a voler sviluppare criteri generali per la classificazione delle patologie psichiche, tenendo conto, fin dall'inizio, delle considerevoli difficoltà a cui sarebbero andate incontro.
Nella prima metà del XX° secolo furono sviluppati vari sistemi di classificazione delle malattie mentali ad opera della Royal-Psychological Association nel Regno Unito, del Congresso delle Scienze psichiatriche a Parigi e dell'associazione che negli Stati Uniti precorse la nascita dell'American Psychiatric Association82.
Nessuno di questi sistemi, però, riuscì ad imporsi nella comunità scientifica e ad essere adottato dai clinici.
Con la nascita di organismi internazionali come l'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), intorno agli anni trenta del Novecento, anche i disturbi mentali furono inseriti nell'International List of Causes of Death (ICD), un elenco corposo di tutte le malattie, comprese anche le psicopatologie.
Nel 1952, l'American Psychiatric Association (APA) propose un proprio sistema diagnostico pubblicando il primo Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder (DSM).
Questo Manuale Statistico e Diagnostico dei disturbi mentali sarà diffuso e sviluppato in varie edizioni, caratterizzate da una costante elaborazione e revisione da parte della comunità scientifica. Usciranno così il DSM-II nel 1968,
il DSM-III nel 1980, frutto di un intenso lavoro di studio ed analisi da parte dell'APA, il DSM-III-R nel 1987 e nel 1988, inizierà il lavoro di stesura, sempre da parte dell'American Psychiatric Association, del DSM-IV, che vedrà la partecipazione all'elaborazione del manuale, anche di neuroscienziati, psicologi ed altri professionisti della relazione d'aiuto, nella nuova ottica di integrazione tra i contributi delle varie discipline scientifiche. Gli scienziati passeranno così in rassegna la letteratura esistente, analizzando i dati disponibili e raccogliendone di nuovi. Nel 1994 sarà dato alle stampe il DSM-IV e nel 2000 uscirà una “Text revision” che verrà conosciuta come DSM-IV-TR.
Il DSM-IV-TR, utilizzato fino ai giorni nostri (è del 2013 la pubblicazione del DSM-V), ha visto apportare pochissime modifiche alle categorie ed ai criteri diagnostici rispetto al DSM-IV, in relazione soprattutto ai risultati delle più recenti ricerche sui tassi di prevalenza, il decorso e l'eziologia dei disturbi mentali83.
Le caratteristiche di base della struttura complessiva del DSM-IV-TR sono l'uso di dimensioni separate o assi per classificare i pazienti; l'individuazione di categorie diagnostiche distinte ed una maggiore enfasi sui fattori culturali84.
Per quanto concerne l'uso di cinque diversi assi ( classificazione multiassiale) nella valutazione del paziente, esso obbliga il clinico a tenere in considerazione una più vasta messe di informazioni utili all'anamnesi e alla diagnosi delle psicopatologie.
L'Asse I comprende tutte le categorie diagnostiche, a eccezione dei disturbi di personalità e del ritardo mentale, inclusi nell'Asse II. Gli Assi I e II coprono, così, l'intera classificazione dei comportamenti patologici85.
Gli Assi III, IV e V sono invece destinati a sondare il contesto delle condizioni di vita in cui il disturbo del paziente si iscrive. L'Asse III è legato a tutte quelle condizioni mediche ritenute rilevanti. L'Asse IV delinea i problemi psicosociali ed ambientali di cui il paziente soffre. L'Asse V consente di cogliere l'attuale livello di funzionamento adattivo dell'individuo grazie all'utilizzo della Scala VGF (Valutazione Globale del Funzionamento) che consente di ottenere informazioni sulle relazioni sociali, sul rendimento lavorativo e sul modo in cui il paziente trascorre il tempo libero.
Durante tutte le fasi dell'elaborazione e della revisione del DSM, dal DSM-II fino a giungere al DSM-IV-TR, grazie a continui approfondimenti e a ricerche sempre più strutturate e complesse, costanti sono stati i miglioramenti legati all'affidabilità e alla validità delle categorie diagnostiche.
Nel DSM-IV-TR i criteri diagnostici sono diventati molto specifici ed i sintomi richiesti per trarre una determinata diagnosi sono descritti con precisione.
Di ogni disturbo vengono descritte le caratteristiche essenziali e quelle associate, i dati emersi da ricerche di laboratorio ed i risultati di esami fisiologici. Segue poi un sunto della letteratura scientifica rilevante che consente di avere informazioni su diversi aspetti del disturbo come età di insorgenza, decorso, prevalenza, pattern familiari e diagnosi differenziale, che consente, quest'ultima, di distinguere nello specifico una diagnosi di un disturbo da quella di disturbi simili88.
Nel corso delle revisioni del DSM, le categorie diagnostiche sono aumentate, segno questo di una più ampia consapevolezza nosografica che ha consentito di classificare una gamma sempre più vasta di segni e sintomi, prendendo in considerazione una vasta mole di casi patologici. Tuttavia, le categorie non sono andate sommandosi indiscriminatamente, prova di questo è il fatto che alcune di esse sono state abbandonate per mancanza di validità comprovata nella ricerca (come nel caso dell'omosessualità).
Rilevante appare, nel DSM-IV-TR, il peso dato dalla comunità scientifica ai fattori culturali ed etnici che, partendo dalla constatazione dell'universalità della malattia psichica e dalla presenza in ogni cultura umana di soggetti affetti da psicopatologie, hanno acquistato uno spazio rilevante nell'analisi e nella categorizzazione dei segni e dei sintomi dei disturbi mentali.
La considerazione inerente a fattori di rischio per la malattia mentale, legati alla coesione sociale, alla povertà, all'abuso di droghe e sostanze psicoattive e allo stress, è divenuta sempre più centrale nella ricerca e nell'elaborazione scientifica.
Le differenze culturali sono così divenute essenziali come elemento anamnestico e diagnostico nel DSM-IV-TR dove si è dedicato ampio spazio a questi fattori, fornendo un quadro di riferimento generale per valutare il ruolo svolto da cultura e appartenenza etnica e descrivendo per ciascun disturbo l'influenza degli elementi culturali ed etnici fino a delineare alcune sindromi “culturalmente caratterizzate”89.
Il Manuale Statistico e Diagnostico IV-TR sembra così invitare, nella diagnosi e nella cura, i clinici a porre una maggiore attenzione alle variabili intervenienti di natura culturale ed etnica come le possibili diverse espressioni linguistiche nel definire e nel descrivere i segni ed i sintomi del disturbo, sia da parte dell'esperto, sia da parte del paziente stesso. Grazie a studi comparati e a ricerche mirate, la comunità scientifica ha potuto elaborare la descrizione di svariate sindromi culturalmente caratterizzate anche se ciò ha comportato numerose critiche legate in special modo a tentativi di identificazione di sintomi generali ed universali che possano essere considerati come sganciati da variabili culturali, ricercando in questo modo elementi comuni in culture diverse.
Ulteriori critiche ha suscitato il DSM-IV-TR , soprattutto legate al considerevole numero di categorie diagnostiche contenute nel manuale (300 categorie diagnostiche) e all'inclusione di una categoria onnicomprensiva denominata “altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica”, nella quale sono comprese condizioni sostanzialmente non ritenute disturbi mentali ma che possono essere oggetto di attenzione e cura da parte del clinico come problemi scolastici, problemi relazionali, lutti, problemi religiosi o spirituali e mancata compliance terapeutica90.
Altre critiche sono state sollevate dagli studiosi in relazione alla presunta rigidità delle categorie diagnostiche presenti nel DSM-IV-TR, che, a detta di alcuni ricercatori, non tengono in considerazione l'oggettivo continuum comportamentale che intercorre tra normalità e patologia. Il sistema categoriale, che raccoglie gli aspetti qualitativi di una patologia, deve così essere ridotto ad un sistema che va definendo una soglia al cui livello il disturbo diventa diagnosticabile, includendo disturbi cosiddetti minori (le cui manifestazioni non superano il livello soglia) nella categoria “disturbi non altrimenti specificati91.
Gli aspetti quantitativi, invece, sono raccolti dai sistemi diagnostici dimensionali in cui si definisce il grado in cui una certa entità è presente utilizzando scale che permettono quindi la misurabilità della manifestazione patologica.
In anni più vicini a noi la riflessione della comunità scientifica si è spostata, poi, sulla validità del contributo del DSM, che va ricercata, secondo gli studiosi, in un grado elevato di affidabilità interrater dei sistemi diagnostici e nella validità di costrutto, essendo le categorie diagnostiche “costrutti” soltanto inferiti e non provati sperimentalmente, permettendo così di formulare previsioni accurate92.
Il consistente utilizzo del DSM da parte degli esperti ha però fatto sorgere alcuni dubbi sulla validità complessiva dello strumento, dubbi legati ad una più ampia concezione della patologia psichica ad un livello culturale e sociale. Importanti riflessioni si sono avute sugli effetti psicosociali di diagnosi, errate o meno, di patologia mentale, sulla vita, sulle relazioni e sugli aspetti del vissuto quotidiano di individui segnalati alla comunità come portatori di disturbi psichici ancora stigmatizzati dalla società.
Nel DSM-IV-TR, la schizofrenia viene diagnosticata quando due o più sintomi specifici come deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico e sintomi negativi compaiono per almeno un mese.
Molta attenzione viene posta sull'eventuale declino sociale e lavorativo del paziente, se questo viene notato fin dall'esordio del disturbo.
I pazienti vengono osservati per almeno sei mesi nei quali devono comparire per almeno un mese i sintomi specifici, mentre per il restante tempo vengono monitorati i sintomi negativi e tutti gli altri sintomi eventualmente presenti in forma attenuata.
Diversi studi sono stati condotti per cercare delle variabili culturali intervenienti, studi che hanno consentito di osservare come nei paesi in via di sviluppo, la patologia abbia un esordio più acuto ed un decorso più favorevole rispetto ai paesi più industrializzati.
La complessa eterogeneità della schizofrenia e dei suoi sintomi, ha spinto gli scienziati a studiare e descrivere alcuni sottotipi del disturbo a partire dalla presenza o meno di una sintomatologia specifica.
Uno dei sottotipi descritti nel DSM-IV-TR è la “schizofrenia di tipo disorganizzato” che si manifesta attraverso un eloquio disorganizzato difficile da seguire per chi ascolta, dove il paziente può parlare in modo incoerente utilizzando neologismi ed assonanze linguistiche, il tutto accompagnato a volte da ilarità, affettività appiattita, emotività altalenante comportamento complessivamente disorganizzato e non finalizzato ad uno scopo93.
Questo sottotipo è spesso associato ad un esordio precoce ed insidioso ed in generale si osserva un notevole deterioramento della performance ai test neuropsicologici94
Altro sottotipo di schizofrenia presentato nel Manuale Statistico e Diagnostico-IV-TR, è la “schizofrenia di tipo catatonico”, dove i sintomi più evidenti sono i disturbi dell'attività motoria come l'immobilità catatonica oppure una sfrenata eccitabilità che porta ad un incontenibile motilità corporea. L'esordio dei sintomi catatonici può essere più improvviso dell'esordio di altri sintomi legati alla schizofrenia ed oggi la terapia farmacologica agisce con efficacia su questi processi motori patologici95.
La “schizofrenia di tipo paranoide” è un ulteriore sottotipo inserito nel DSM-IV-TR e può essere diagnosticato quando diventa consistente la presenza di deliri rilevanti. I più comuni sono i deliri di persecuzione ma frequenti sono i deliri di grandezza che producono una smisurata sensazione di importanza e di potere nei pazienti. Questi deliri spesso sono accompagnati da allucinazioni uditive.
I soggetti con schizofrenia di tipo paranoide frequentemente sviluppano idee di riferimento ed interpretano eventi ordinari e comuni attività altrui all'interno di una cornice delirante di pensiero.
Questi pazienti possono essere agitati, polemici, irascibili, talvolta violenti e il loro eloquio, benché pieno di riferimenti ai propri deliri, non è disorganizzato96.
Insieme ai sottotipi di schizofrenia più significativi, ulteriori forme della patologia sono descritte nel DSM-IV-TR dove troviamo la “schizofrenia di tipo indifferenziato” , diagnosticata a quei pazienti che soddisfano i criteri diagnostici della schizofrenia ma non quelli per uno dei tre principali sottotipi e la “schizofrenia di tipo residuo” in cui il paziente non manifesta chiaramente i sintomi della patologia ma appaiono all'analisi, solamente alcuni segni97.
Alcuni scienziati si sono però dimostrati molto critici rispetto a questa ulteriore suddivisione degli aspetti patologici della schizofrenia, ribadendo come la loro attendibilità diagnostica e la loro predittività risultino drasticamente ridotte dalle difficoltà che si incontrano nel differenziare un tipo dall'altro98.
Diverse categorie di disturbi, presenti nel DSM-IV-TR, disturbi che nelle prime edizioni del manuale diagnostico erano considerati sottotipi della schizofrenia, oggi sono considerate a sé stanti. Il disturbo psicotico breve ed il disturbo schizofreniforme, pur avendo una sintomatologia affine alla schizofrenia, sono caratterizzati, per esempio, da una breve durata e da un'eziologia che si può far risalire ad eventi stressanti.
Nel disturbo schizoaffettivo, invece, vi è una caratteristica mescolanza di segni e sintomi propri della schizofrenia e dei disturbi dell'umore.
Un ulteriore disturbo, oggi considerato a sé stante, è il disturbo delirante, caratterizzato da deliri di persecuzione, di gelosia e così via.









UNA LETTURA PSICOBIOLOGICA DELLA SCHIZOFRENIA



 IL CONTRIBUTO DELLA GENETICA E DELLA GENETICA MOLECOLARE


Con questo importante capitolo centrale passeremo in rassegna gli aspetti strettamente psicobiologici, neuroanatomici e neuropsicologici legati alla schizofrenia. La stretta correlazione tra prodotto psichico, la mente, e substrato anatomico e biologico, il cervello ossia tra la struttura cerebrale e le sue funzioni cognitive, che fa da filo conduttore di questa dissertazione, è divenuta elemento primario e fondante di ogni approccio moderno integrato che cerchi di ampliare la propria gamma di ipotesi di ricerca e la propria applicabilità diagnostica e clinica.
Per quanto riguarda la patologia schizofrenica, grazie ad importanti studi neuropsicologici, a ricerche neurobiologiche, ad uno sviluppo consistente delle tecniche di visualizzazione in vivo dell'attività cerebrale e a complesse osservazioni mediche ed anatomiche, sono stati fatti molti passi avanti nel tentativo di articolare ipotesi e teorie con il fine ultimo di migliorare gli strumenti clinici applicativi e la comprensione dei processi biochimici e psicobiologici di una delle più devastanti e disabilitanti sindromi psichiatriche.
Una delle principali ipotesi eziologiche inerenti la schizofrenia deriva dai numerosi studi epidemiologici che hanno confermato che i parenti di pazienti schizofrenici presentano una maggiore incidenza della malattia, aprendo così la strada a consistenti studi di genetica e genetica molecolare99.
Queste ricerche hanno portato alla luce diversi elementi a sostegno dell'ipotesi legata all'ereditarietà della patologia anche se fattori di tipo ambientale vengono comunque presi in considerazione nella genesi della malattia.


 GLI STUDI SULLA FAMIGLIA, SUI GEMELLI, SULLE ADOZIONI E LE RICERCHE DI GENETICA MOLECOLARE


Una vasta mole di studi sulla famiglia ha consentito agli scienziati di dimostrare con chiarezza che i parenti di individui affetti da schizofrenia sono maggiormente a rischio e che il rischio aumenta con l'aumentare del rapporto genetico tra portatore del disturbo e parente100.
Significativa, poi, la constatazione che i pazienti, nella cui storia familiare è presente la schizofrenia, manifestano un maggior numero di sintomi negativi rispetto a quei pazienti le cui famiglie non presentano casi di schizofrenia (Malaspina et al., 200).
Questa constatazione ha consentito di elaborare l'ipotesi di una più significativa componente genetica per quanto riguarda i sintomi negativi.
I parenti di pazienti schizofrenici sembrerebbero anche essere maggiormente a rischio di altri disturbi considerati forme meno gravi di schizofrenia.
L'importanza dei contributi dati dagli studi sulle famiglie e sull'ereditarietà della patologia schizofrenica, viene arricchita notevolmente dall'attenzione posta sulla condivisione di geni e di esperienze di vita in un'ottica di integrazione natura-cultura dove è primaria l'ipotesi che, attraverso l'interazione con l'ambiente, i geni dispieghino le loro potenzialità.
Ulteriori approfondimenti, consentiti dall'affinamento della ricerca, hanno reso possibile l'analisi dei fattori ereditari della schizofrenia in relazione agli studi sui gemelli. I dati raccolti evidenziano un rischio di manifestare la patologia per i gemelli monozigoti del 44,3%, risultato maggiore di quello dei gemelli dizigoti che si aggira intorno al 12,08%. La concordanza inferiore al 100% nei gemelli monozigoti è importante considerando che, se la trasmissione genetica della schizofrenia fosse la sola causa, dato un gemello con patologia conclamata, l'altro gemello dovrebbe avere un destino analogo, essendo i gemelli monozigoti geneticamente identici101.
Tuttavia, l'importanza eziologica della componente genetica è consistente visto l'aumentare del rischio tra gemelli monozigoti quando uno di questi è affetto da una forma di schizofrenia grave e conclamata.
Diversi studi hanno però messo in campo l'ipotesi che la probabilità di sviluppare la schizofrenia potrebbe essere determinata dalla condivisione di un ambiente comune, anche di un ambiente intrauterino condiviso.
L'analisi dei fattori di rischio della schizofrenia si è poi arricchita di un'interessante contributo apportato da Fischer nel 1971 che sostenne l'alta probabilità del manifestarsi della patologia in gemelli monozigoti di cui uno gravemente colpito. Il gemello non coinvolto nella schizofrenia sarebbe portatore del genotipo, anche se questo non si manifestasse nel comportamento, che diventerebbe di più facile trasmissione ereditaria, coinvolgendo i propri figli nell'alto rischio di contrarre la patologia.
I successivi studi condotti sui figli di madri schizofreniche ma allevati sin dalla prima infanzia da genitori adottivi senza schizofrenia hanno fornito informazioni più attendibili sul ruolo della trasmissione genetica di tale disturbo, consentendo agli scienziati di analizzare separatamente l'incidenza ambientale dalla componente strettamente genetica102.
Nel famoso studio di Heston (1966) condotto su gruppo di controllo e su gruppo costituito da diversi soggetti nati da madri schizofreniche ma allevati da genitori adottivi in ambienti non potenzialmente patogeni, appare chiaramente come, per gli individui potenzialmente ad alto rischio, dopo approfondite diagnosi psichiatriche, emergeva una presenza di disturbi specifici dell'apprendimento, di ritardo mentale e di disturbi sociali anche se non di schizofrenia conclamata.
Ulteriori studi e ricerche hanno dimostrato, nell'ottica di un'analisi che tenesse separati fattori ambientali e fattori genetici, come per i soggetti separati da madri schizofreniche e successivamente adottati, fosse altro il rischio di sviluppare disagio psichico e sociale e disturbi di personalità.
Questa considerevole mole di dati acquisiti nel corso della ricerca inerente la componente genetica della schizofrenia, ha permesso agli scienziati di approfondire, in special modo nell'ambito della genetica molecolare, la correlazione tra fattori microbiologici e manifestazione patologica conclamata a livello comportamentale.
Come per molti altri disturbi psichici, la predisposizione per la schizofrenia non appare trasmessa da un unico gene103.
Gli studi di analisi del linkage ossia la ricerca compiuta sul DNA di famiglie dove un particolare disturbo ricorre con frequenza elevata, compiuti per determinare su quale cromosoma o su quali cromosomi siano situati i geni della schizofrenia, non hanno ancora dato i risultati sperati104.
Tuttavia sono stati localizzati molti cromosomi diversi tra cui 1, 5, 6, 8, 10, 11, 13, 15, 18 e 22 (Faraone, Taylor e Tsuang, 2002), fatto questo positivo per certi aspetti, tra cui l'ipotesi della molteplicità dei geni coinvolti, e negativo per altri come la troppa diversificazione dei risultati della ricerca e la sua scarsa replicabilità. Altri dati hanno consentito alla comunità scientifica di ipotizzare una grande eterogeneità della componente genetica nella schizofrenia e quindi una diatesi genetica diversa da caso a caso.
Interessanti appaiono gli studi inerenti il fattore genetico dell'età paterna (Malaspina et al.,2001; Brown et al., 2002, Sispos et al., 2004) che hanno rilevato come i figli di padri più anziani possano avere maggiori probabilità di sviluppare la schizofrenia, dato questo, emerso dall'analisi delle mutazioni negli spermatociti che, al contrario degli ovociti, dopo la pubertà si dividono in maniera considerevole, causando la possibilità di un errore di trascrizione, e quindi di un accumulo di mutazioni, durante la duplicazione del DNA nell'aumentato numero delle divisioni cellulari105.
Negli studi di associazione è stata approfondita la frequenza della co-occorrenza di uno specifico gene e di un particolare fenotipo, come nel caso della ricerca compiuta sui geni associati al recettore dopaminergico D2 correlato all'efficacia di alcuni farmaci e al recettore serotoninergico 5HT2106.
Attualmente gli studi di associazione hanno coinvolto geni come il DTNBP1 che codifica la proteina disbindina espressa in tutto il cervello, e che sembra coinvolto nel manifestarsi della patologia. I soggetti affetti da schizofrenia, in analisi anche post-mortem, risultano avere meno disbindina in numerose aree del cervello come la corteccia frontale, la corteccia temporale, l'ippocampo e le strutture del sistema limbico107.
Altro gene coinvolto nella schizofrenia è il NGR1, collegato ai recettori del glutammato e coinvolto nel processo di mielinizzazione.
Di grande interesse per la ricerca, appaiono gli studi sul genoma umano e sulla gran parte di sequenze di basi che producono RNA non codificante che non inducono la sintesi di proteine. Questo ncRNA sembra essere implicato nella regolazione di molti meccanismi cellulari soprattutto nelle fasi critiche dello sviluppo, appare correlato con le influenze ambientali dell'espressione genica e può essere responsabile di anomalie inerenti le mutazioni di proteine producendo effetti deleteri che vanno ad influire, probabilmente, su manifestazioni patologiche come la schizofrenia108.
Grazie a questi contributi specifici, la ricerca ha compiuto molti passi avanti e si è potuti giungere, per la schizofrenia come per molti altri disturbi psichici, alla consapevolezza di come la patologia sia legata ad un comportamento manifesto, cioè ad un fenotipo che rispecchia la stretta integrazione tra influenze genetiche ed ambientali. I fattori genetici sono fattori predisponenti alla schizofrenia ed è necessario qualche tipo di stress ambientale per fare di questa predisposizione una patologia osservabile109.

 GLI STUDI SUI NEUROTRASMETTITORI:L'IPOTESI DOPAMINERGICA, L'IPOTESI SEROTONINERGICA E L'IPOTESI GLUTAMMATERGICA

Durante la ricerca sulle possibili cause della schizofrenia, alcuni studiosi si sono soffermati in modo approfondito sugli effetti di farmaci antipsicotici usati per trattare i sintomi della patologia schizofrenica e sulla loro capacità di ridurre l'attività dei sistemi dopaminergici (ipotesi dopoaminergica di Carlsson, 1978).
A partire dalle ricerche farmacologiche sulla clorpromanzina, sono stati individuati molti altri farmaci in grado di ridurre i sintomi positivi della schizofrenia interferendo con la trasmissione dopaminergica, come la reserpina (che previene l'immagazzinamento di monoamine nelle vescicole sinaptiche) o l' alfa-metil-p-tirosina (che blocca la sintesi di dopamina)110.
Questi farmaci antipsicotici, usati per combattere i sintomi positivi della schizofrenia, producono però effetti collaterali che possono essere ricondotti ad elementi caratterizzanti il morbo di Parkinson.
Una delle principali cause del parkinsonismo è legata ai bassi livelli di dopamina in una particolare area cerebrale.
Grazie a questa osservazione, gli scienziati sono così giunti alla conferma che a causa delle loro analogie strutturali con la molecola della dopamina, le molecole dei farmaci antipsicotici si sostituiscono a quest'ultima bloccando i recettori postsinaptici, detti recettori D2, nei tratti dopaminergici111.
Questa constatazione ha portato la comunità scientifica a correlare l'eccesso di attività nei tratti nervosi dopaminergici con il conclamarsi della schizofrenia.
Altra ipotesi a sostegno della teoria dopaminergica della schizofrenia viene dallo studio delle cosiddette psicosi da anfetamine, scatenate dall'abuso di sostanze come anfetamina o come cocaina, metilfenidato ( che blocca la ricaptazione della dopamina) e L-DOPA (che stimola la sintesi di dopamina ) che possono produrre sintomi molto simili a quelli della schizofrenia.
Le anfetamine provocano il rilascio di catecolamine come noradrenalina e dopamina nella fessura sinaptica e ne inibiscono l'inattivazione.
Con il progredire della ricerca sperimentale e grazie agli sviluppi delle tecnologie che consentono di monitorare l'attività neurotrasmettitoriale, gli scienziati si sono orientati allo studio e alla elaborazione di ulteriori ipotesi legate all'eccessivo numero e all'ipersensibilità dei recettori della dopamina piuttosto che all'aumentato livello di questo neurotrasmettitore.
Alcuni studi post-mortem su cervelli di pazienti con schizofrenia e su immagini ottenute con PET su soggetti viventi, hanno rivelato che i recettori dopaminergici sono più numerosi oppure ipersensibili in diversi individui affetti da schizofrenia (Hietala et al., 1994; Tune et al.,1993; Wong et al., 1986).
Grazie a questi studi, si è potuto constatare che quando la dopamina viene rilasciata nella sinapsi, solo parte di essa interagisce effettivamente con i recettori postsinaptici che, se presenti in numero maggiore, consentono al neurotrasmettitore un più ampio raggio di azione, innescando così, ad un successivo livello, i più comuni sintomi positivi della schizofrenia.
Con il riconoscimento da parte degli scienziati, delle notevoli differenze esistenti tra le vie neuronali che utilizzano la dopamina come neurotrasmettitore, il quadro complessivo di sostegno a tale ipotesi si è ulteriormente articolato.
Nell'analisi dei correlati neurobiologici della schizofrenia, dati i sistemi dopaminergici più importanti che hanno origine nei due nuclei mesencefalici della substantia nigra e dell'area tegmentale ventrale, l'aumento di attività dopaminergica nella via mesolimbica che inizia nell'area ventro-tegmentale e si proietta fino all'ipotalamo, all'amigdala, all'ippocampo e al nucleo accumbens, ha consentito di comprendere più chiaramente le regioni cerebrali coinvolte nella schizofrenia, sia dal punto di vista strutturale che dal punto di vista funzionale.
L'attività delle sinapsi dopaminergiche del nucleo accumbens sembra essere fondamentale, per esempio, nel processo di rinforzo e le sostanze che agiscono da agonista di queste sinapsi (cocaina ed anfetamina) rinforzano fortemente il comportamento se assunte in grandi dosi producendo così anche i sintomi positivi della schizofrenia112
La via mesocorticale, coinvolta anch'essa nell'attività dopaminergica, inizia nella stessa area della via mesolimbica e si proietta alla corteccia prefrontale che, a sua volta, proietta le proprie fibre all'area limbica, innervata da ulteriori fibre dopaminergiche.



Ecco, nell'immagine della pagina seguente, le due principali vie della trasmissione dopaminergica:







Nella corteccia prefrontale di individui con schizofrenia, si possono quindi successivamente osservare neuroni dopaminergici ipoattivi non in grado di esercitare un controllo inibitorio sull'area limbica, con il risultato che nelle vie neuronali vi è iperattività dopaminergica113.
In sintesi, l'iperattività dopaminergica incontrollata, influenzerebbe quelle aree cerebrali deputate al controllo degli impulsi e alla pianificazione del comportamento come l'area prefrontale, e quelle aree cerebrali più interne (gangli della base) legate all'espressione emotiva e alla gratificazione come, per esempio, l'amigdala.
Diverse critiche sono state sollevate da studiosi alla teoria dopaminergica, contestando la sostanziale incompletezza di questa nello spiegare la complessa sintomatologia schizofrenica, in special modo osservando la correlazione tra farmaci antipsicotici ed effetti sui recettori D2, la loro durata e la loro intensità.
Altri neurotrasmettitori, come la serotonina, sono stati quindi studiati per ampliare il raggio della conoscenza sulle cause della patologia schizofrenica grazie al contributo della farmacologia e degli antipsicotici di nuova generazione, contribuendo a porre le basi per lo sviluppo di nuovi orientamenti della ricerca.
Le interazioni tra le proiezioni serotoninergiche e quelle dopaminergiche frontali vengono chiamate in causa per spiegare alcune caratteristiche della schizofrenia e una riduzione dei livelli liquorali di 5-HIAA (acido 5-idrosiindolacetico), principale metabolita della serotonina, è stata osservata in soggetti con comportamenti auto ed eteroaggressivi114.
Gli antipsicotici di seconda generazione inibiscono parzialmente i recettori D2, ma la loro funzione si esplica anche bloccando il recettore della serotonina 5HT2 (Burris et al., 2002)115.
Le più recenti ipotesi, dunque, tendono ad avvalorare l'idea di una interazione stretta tra sistema dopaminergico e sistema serotoninergico e, nel caso della schizofrenia, i sintomi positivi sarebbero correlati con un iperattività dopaminerguica e un'ipoattività serotoninergica mentre, al contrario, i sintomi negativi vedrebbero un aumento dell'attività serotoninergica che determinerebbe un decremento di quella dopaminergica.
Consapevoli che i neuroni serotoninergici regolano i neuroni dopaminegici nella via mesolimbica e che i neuroni dopaminergici riescono anche a modulare l'attività di altri sistemi neuronali, come i neuroni GABA (acido gamma-aminobutirrico) diffusi e potenti inibitori del SNC, nella corteccia prefrontale, gli scienziati hanno potuto notare, per esempio, proprio nella regione prefrontale di soggetti schizofrenici una compromissione consistente nella trasmissione GABAergica (Volk et al., 2000).
Un neurotrasmettitore eccitatorio, studiato per un possibile ruolo nella eziopatogenesi della schizofrenia, è il glutammato, molto diffuso nel cervello umano (Carlsson et al. 1999). Bassi livelli di glutammato sono stati trovati nel fluido cerebrospinale di pazienti con schizofrenia (Fraustman et al., 1999) e studi post-mortem hanno rivelato bassi livelli dell'enzima necessario per produrre glutammato (Tsai et al., 1995)116.
Diverse prove sperimentali hanno messo in luce come svariate sostanze, tra cui il PCP (fenciclidina), possono produrre i sintomi positivi e negativi della schizofrenia agendo sui recettori del glutammato e un basso livello di questo neurotrasmettitore nelle regioni della corteccia prefrontale e dell'ippocampo innesca una maggiore attività dopaminergica (O'Donnel e Grace, 1998).
In ultima analisi, lo sviluppo della farmacologia, in special modo dei farmaci antipsicotici di prima e di seconda generazione, ha consentito così di poter, da un lato giungere ad una applicazione clinica sempre più mirata e dall'altro approfondire la ricerca e lo studio in campo biochimico sulle possibili cause della patologia schizofrenica.



3.4 OSSERVAZIONI ANATOMO-CLINICHE ED ALTERAZIONI ANATOMICHE EVIDENTI

Dopo aver passato in rassegna gli aspetti biochimici e molecolari che intervengono come possibili cause della schizofrenia, veniamo ora ad analizzare, passando ad un livello superiore, tutti quegli elementi che, su un piano neurologico e citoarchitettonico, possono essere considerati come strettamente legati alla patologia presa in considerazione.
Nei paragrafi precedenti abbiamo, in sintesi, potuto notare come gli scienziati, nel corso delle loro ricerche, siano riusciti a osservare e studiare in maniera consistente soprattutto i sintomi positivi della schizofrenia, correlandoli alla funzione di rinforzo, propria di diversi sistemi dopaminergici.
I sintomi positivi sono strettamente studiati come patognomonici della schizofrenia mentre, al contrario, i sintomi negativi, visti come disturbi che influenzano più consistentemente la sfera emotiva e cognitiva, vengono analizzati nell'ottica di una correlazione tra patologia psichiatrica e deficit neuropsicologico, tra disagio psichico ed anomalie strutturali del cervello.
Sebbene la schizofrenia sia stata tradizionalmente classificata come disturbo psichiatrico, la maggior parte dei pazienti schizofrenici sviluppa sintomi neurologici che suggeriscono l'esistenza di un danno cerebrale, in particolare quelli classificati come sintomi negativi e cognitivi117.
Analizzando la sintomatologia di base, forti sono le evidenze della presenza, prodromica, di svariate self-experiences neuropsicologiche quali alterazione della cinestesi, deficit dell'attenzione, della memoria, deficit del linguaggio e della percezione (Huber, 1970).
Tuttavia la presenza di variazioni neurologiche strutturali può essere dovuta a varie condizioni neuropatologiche e non specificamente alla schizofrenia che può essere associata a danni cerebrali o ad anomalie dello sviluppo.
Studi condotti con TAC, RM, fMRI e PET hanno dimostrato come, in individui con schizofrenia, sia ben visibile una riduzione di tessuto cerebrale in regioni specifiche come l'area ventricolare (ventricolomegalia), uno sviluppo interemisferico asimmetrico in prossimità delle aree del linguaggio, una riduzione complessiva volumetrico-metabolica, soprattutto dell'ippocampo, una atrofia della corteccia temporale, un'ipofrontalità presente principalmente in soggetti con preponderanza di sintomi negativi e con relativi deficit cognitivi, ed ulteriori ricerche hanno reso possibile l'osservazione su come la perdita di materia grigia, a cui va incontro il cervello nella fase di invecchiamento, sia sostanzialmente maggiore nei pazienti schizofrenici (Hulstoff-Pol et al. 2002).
Studi più recenti, che utilizzano le sempre più affinate tecnologie di visualizzazione in vivo, hanno permesso di notare, assai precocemente nel decorso della malattia, una riduzione del flusso cerebrale nel globus pallidus sinistro che fa pensare ad una alterazione del sistema che pone in connessione i nuclei della base con i lobi frontali, essi stessi coinvolti in una diminuzione del flusso sanguigno118.
Anche questi studi hanno mostrato come la diminuzione del flusso cerebrale a livello del nucleo caudato e del lobo frontale, la riduzione di volume dell'ippocampo, la dilatazione dei ventricoli e le altre alterazioni della struttura cerebrale si osservano in pazienti che presentano evidenti sintomi negativi119.
Ulteriori ed interessanti ricerche, progettate in ambito connessionista, hanno consentito alla comunità scientifica di osservare, grazie all'utilizzo della PET, alterazioni delle connessioni di circuiti neuronali che coinvolgono aree localizzate nelle regioni prefrontali, nei nuclei talamici e nei nuclei del cervelletto, e, in base a questi studi, diversi scienziati hanno ipotizzato che la schizofrenia possa essere legata ad una “dismetria cognitiva” caratterizzata da difficoltà di stabilire gerarchie, processare, coordinare e rispondere agli input (Andreasen, 2000) oppure ad alterazioni di reti neuronali critiche (Buchsbaum, Frith, 2000).


3.5 LE ALTERAZIONI PIU' CONSISTENTI:L'ALTERAZIONE VENTRICOLARE, L'ALTERAZIONE DELLA CORTECCIA FRONTALE, L'ALTERAZIONE DELLE STRUTTURE SOTTOCORTICALI E DI ALTRE REGIONI CEREBRALI, IL RUOLO DELL'AMIGDALA E LA SOCIAL COGNITION.



Numerosi studi, dalle scansioni di RM agli esami autoptici, hanno dimostrato che la schizofrenia si associa ad anomalie di lobi frontali, lobi temporali mediali, lobi temporali laterali, lobo parietale, gangli della base, corpo calloso, talamo e persino cervelletto (Shenton et al., 2001)120.
Una cospicua mole di studi effettuati con neuroimmaging, di osservazioni e di esami post mortem ha rivelato un notevole numero di pazienti schizofrenici (circa il 25%) con dilatazione ventricolare e conseguente perdita di tessuto cerebrale.
La semplice misurazione delle sezioni trasversali dell'area dei ventricoli ha rilevato che questi ultimi risultano notevolmente ingranditi.
Molto interessanti gli studi effettuati tramite risonanza magnetica su coppie di gemelli monozigoti discordanti rispetto alla schizofrenia, studi che hanno consentito di osservare come il gemello malato presentasse ventricoli più larghi rispetto al gemello sano e come, data l'essenziale identicità dal punto di vista genetico dei due soggetti, l'origine di queste anomalie cerebrali probabilmente non sia di natura genetica (McNeil, Cantor-Graae e Weinberg, 2000, Suddath et al., 1990)121.
La dilatazione ventricolare in soggetti con schizofrenia è correlata, in molti casi, ad una forte compromissione nei test neuropsicologici e ad una scarsa risposta alla farmacoterapia.




Ecco, nella pagina seguente, immagine in RM dove è possibile notare chiaramente dilatazione ventricolare:

Per quanto concerne le alterazioni della corteccia frontale, gli studiosi hanno notato come esse siano particolarmente consistenti e pervasive visto il ruolo che questa regione svolge in ambiti come il linguaggio, la capacità decisionale ed il comportamento finalizzato, ambiti decisamente molto coinvolti nella patologia schizofrenica.
Come per altre aree colpite, anche per la corteccia frontale, responsabile di funzioni esecutive come memoria, attenzione, concentrazione e della regolazione delle efferenze motrici compreso il linguaggio, è stata notata, grazie a studi di fMRI, una riduzione della materia grigia mentre, dal punto di vista neuropsicologico, i pazienti a cui vengono somministrati test ideati per attivare funzioni promosse dalla regione frontale scarsi o pessimi risultati (Barch et al., 2002).
Ulteriori studi di fMRI per monitorare il metabolismo del glucosio in varie aree del cervello in soggetti impegnati in test neuropsicologici, hanno consentito agli scienziati di notare come i pazienti con schizofrenia, specialmente quelli con importanti sintomi negativi, non presentino attivazione nella regione frontale (Potkin et al., 2002).
Malgrado il volume ridotto della materia grigia nella corteccia frontale, il numero di neuroni di quest'area non risulta ridotto e studi più dettagliati indicano che ciò che va perduto potrebbero essere le cosiddette spine dendritiche ossia le piccole protuberanze simili a gemme sulle ramificazioni dei dendriti dove vengono ricevuti gli impulsi nervosi provenienti da altri neuroni122.
Con l'eliminazione delle spine dendritiche si avrebbe così la cessazione della comunicazione tra neuroni definita da alcuni scienziati come sindrome da disconnessione che influenzerebbe considerevolmente l'organizzazione dell'eloquio e del comportamento dando luogo al manifestarsi di alcuni sintomi negativi della schizofrenia.
Tuttavia i sintomi negativi, oltre ad essere associati a lesioni della corteccia frontale, sarebbero associati, secondo la comunità scientifica, anche a lesioni temporo-mesiali e del diencefalo.
Un'ulteriore ipotesi, legata alla ridotta attività dei lobi frontali e in particolare della corteccia prefrontale dorsolaterale, è stata articolata da Weinberger (1988) che definisce questa riduzione volumetrico-metabolica come ipofrontalità123.
Le più recenti ricerche sulla correlazione tra schizofrenia e aspetti strutturali e funzionali del cervello, hanno aperto la strada a nuove ipotesi e alla constatazione che numerose altre aree cerebrali, diversi sistemi neurali e varie modalità di interazione e connessione tra essi, sembrano coinvolte nella patologia schizofrenica.
Gli studiosi hanno così notato l'esistenza di anomalie strutturali localizzate nelle regioni mediali temporo-limbiche come l'ippocampo, l'amigdala il giro paraippocampale e una riduzione del giro temporale superiore ed analizzando inoltre le strutture sottocorticali come i nuclei della base, hanno potuto riscontrare un aumento significativo del volume del putamen e del caudato124.
Per quanto concerne la corteccia temporale, area di percezione della parola, la sua iperattivazione può essere responsabile delle allucinazioni uditive (epilessia del temporale).
Studi recentissimi si sono focalizzati sul coinvolgimento dell'amigdala, nucleo basale che regola l'eccitabilità emotiva e modula il senso della fame, sete e libido,
nella schizofrenia.
Grazie a questi studi e all'analisi degli aspetti emotivi e dei deficit cognitivi presenti nella patologia schizofrenica, gli scienziati hanno constatato come nella schizofrenia le difficoltà nell'interpretare informazioni cariche di significato emotivo, possano essere attribuite al deterioramento di specifici domini neurocognitivi.
All'amigdala è stata attribuita estrema importanza nei processi cognitivi e comportamentali necessari per accedere al valore motivazionale attuale dello stimolo (Adolphs, 2003).
E' noto come questo nucleo basale sia coinvolto nell' elaborazione delle proprietà motivazionali dello stimolo e come sia relazionato alle caratteristiche sociali associate a tale stimolo.
Nei pazienti sachizofrenici risulta spesso deficitaria la capacità di comprendere la relazione tra sé e gli altri e di usare tale consapevolezza per modulare il proprio comportamento sociale o social cognition, insieme di processi che permettono al soggetto di comprendere il mondo interpersonale e trarne benefici.
La social cognition consiste in alcune abilità fondamentali come il capire cosa provano gli altri, il riconoscere i ruoli e le regole che dettano le relazioni sociali e il percepire che gli altri pensano.
I pazienti schizofrenici hanno evidenti disturbi della social cognition come una ridotta abilità di percepire ed interpretare correttamente le emozioni mostrate dagli altri, una ridotta abilità di assumere un efficiente problem solving sociale e strutturare giudizi sociali adeguati ed una ridotta abilità nell'integrare i punti di vista altrui.
Per tentare di spiegare le ridotte abilità sociali nella schizofrenia, quindi, gli studiosi hanno articolato la Teoria del sensory gating che, partendo dalla constatazione che l'amigdala e l'ippocampo sono alla base della risposta emotiva agli stimoli esterni come le efferenze uditive e che le efferenze di amigdala e ippocampo, attraverso il talamo, sono dirette alla corteccia frontale dalle quali funzioni esecutive (working memory, attenzione e concentrazione) dipende poi l'output motorio, mette in relazione l'atrofia cellulare di talamo, ippocampo ed amigdala con la ridotta funzionalità delle afferenze temporali facendone risultare l'alterazione delle funzioni esecutive frontali.
In sintesi, diverse regioni cerebrali, corticali e sottocorticali, sembrano coinvolte, da un punto di vista strutturale e funzionale, nella schizofrenia e la comunità scientifica, grazie a tecnologie avanzatissime ha potuto constatare le forti correlazioni tra sintomatologia schizofrenica, pattern di risposta ai test neuropsicologici in ambito cognitivo e analisi delle risposte emotive da un lato e tra anomalie citoarchitettoniche e funzionali dall'altro.
Diviene, così, sempre più interessante e mirato l'approccio interdisciplinare che consente di affinare la ricerca e la progettazione sperimentale nell'ottica di una comprensione globale della patologia che tenga conto dello stretto legame mente-cervello.

 STUDI SULLO SVILUPPO E SUI FATTORI CONGENITI

Diverse ipotesi inerenti le anomalie cerebrali in pazienti schizofrenici sono legate a fattori evolutivi o a danni intervenuti durante la gestazione o il parto.
Molti studi hanno evidenziato tassi elevati di complicazioni alla nascita in soggetti affetti da schizofrenia che potrebbero essere correlati ad un ridotto apporto di ossigeno al cervello dal quale a sua volta sarebbe derivata una perdita di materia grigia corticale (Cannon et al., 2002).
Queste complicazioni durante il parto non incrementano il tasso di schizofrenia in tutti coloro che le esperiscono ma, se legate ad una diatesi genetica, contribuiscono all'aumento del tasso di sviluppo della patologia.
Una consistente meta-analisi elaborata da diversi scienziati (Cannon, Jones e Murray, 2002) ha rilevato l'importanza, per la psicopatogenesi della schizofrenia, di fattori come le complicazioni della gravidanza (inclusi diabete materno, incompatibilità Rh tra madre e feto, emorragia, tossiemia), lo sviluppo fetale anormale (inclusi basso peso alla nascita, malformazioni congenite, circonferenza cranica ridotta), le complicanze del travaglio e del parto (inclusi parto cesareo d'emergenza, utero atonico, deprivazione fetale d'ossigeno)125.
Altra ipotesi in linea con gli studi evolutivi, è stata articolata da vari studiosi che, dopo accurate ricerche, hanno proposto, come ulteriore elemento patogenetico, la possibilità di un'infezione virale che andrebbe ad invadere il cervello e a danneggiarlo durante lo sviluppo fetale (Mednick, Huttonen e Machon, 1994).
Tuttavia, è lecito domandarsi come una anomalia evolutiva così precoce possa influenzare il manifestarsi di una patologia il cui esordio si ha molti anni dopo la nascita, in adolescenza o all'inizio dell'età adulta. La corteccia prefrontale è una struttura cerebrale che matura tardi, tipicamente durante il passaggio dall'adolescenza all'età adulta e pertanto un danno in quest'area, persino uno prodotto precocemente nel corso dello sviluppo può rimanere silente fino a quando questa regione cerebrale non inizi a svolgere un ruolo più determinante ai fini del comportamento (Weinberger, 1987)126.
Sempre in fase adolescenziale si verifica un passaggio essenziale dello sviluppo, il pruning sinaptico, lo sfoltimento delle connessioni neuronali che avviene con tassi diversi nelle varie aree del cervello. Nelle aree sensorie esso avviene entro i due anni d'età, ma nella corteccia prefrontale continua fino alla fase intermedia dell'adolescenza. Se troppo esteso, il pruning sinaptico darebbe luogo ad un'eccessiva perdita di comunicazione tra i neuroni (McGlashan e Hoffmann, 200)127.
Anche gli aspetti comportamentali sono stati osservati in fase sperimentale ed i risultati sembrano sottolineare delle importanti differenze nei pattern comportamentali tra fratelli sani e fratelli che successivamente hanno sviluppato schizofrenia come, per esempio, maggior presenza di affetti negativi nelle espressioni facciali e notevole presenza di movimenti anormali agiti nei soggetti schizofrenici.
Ulteriori studi (Cannon et al., 1997) concentrati sul periodo evolutivo di infanzia e preadolescenza, parrebbero confermare che, sebbene i sintomi della schizofrenia non compaiano durante l'infanzia, lo sviluppo cerebrale precoce dei bambini che divengono schizofrenici non è completamente nella norma e che anche anomalie fisiche minori, come palato molto arcuato oppure occhi eccessivamente distanziati o ravvicinati si sono dimostrate associate all'incidenza della schizofrenia (Schiffman et al., 2002)128.



ALTRI APPROCCI TEORICI E CLINICI E NUOVE FRONTIERE SCIENTIFICHE PER UN APPROCCIO SPERIMENTALE INTEGRATO “PSICO-BIOLOGICO”


 L'APPROCCIO PSICODINAMICO


Fino ad ora abbiamo trattato il tema della schizofrenia da un punto di vista psico-biologico, presentando i vari temi inerenti, da un punto di vista integrato e prendendo in esame la patologia leggendola attraverso le lenti fornite da tutte quelle discipline scientifiche che hanno fatto del rapporto mente-cervello e della correlazione struttura-funzione i propri assunti di base per fornire un nuovo paradigma nel panorama delle ipotesi e delle teorie che sono state articolate nel corso del progresso tecnologico e scientifico.
Proponiamo ora alcuni approcci squisitamente psicologici che hanno tentato di elaborare percorsi teorici affascinanti e pratiche cliniche mirate, non dimenticandosi però di contribuire alla lettura della psicopatologia schizofrenica anche da un punto di vista che tenesse in considerazione il substrato fisiologico, se non in maniera strettamente biologistica, in un modo che potremmo definire “olistico”, riflettendo su come la psiche si comunque parte di un organismo che interagisce con ambiente interno ed esterno. Nei paragrafi conclusivi del capitolo presenteremo, invece, alcuni contributi provenienti da nuovi ed interessanti orientamenti scientifici della ricerca e della clinica.
Iniziamo con l'approccio psicodinamico, fondato sulle elaborazioni teoriche e sulla prassi clinica articolata da Sigmund Freud, che, seppur discostandosi dalla sua rigorosa formazione medico-scientifica e proponendo una teoria eminentemente psicologica, pose quasi sempre la sua attenzione, almeno agli inizi della sua carriera, anche a quegli aspetti organici fondamentali che fanno da substrato alla produzione psichica.
Tuttavia nel corso della sua carriera scientifica, Sigmund Freud non approfondì,
in modo mirato, la ricerca teorica e clinica inerente la patologia schizofrenica. Il medico viennese riteneva i soggetti schizofrenici incapaci di stabilire con il terapeuta lo stretto rapporto interpersonale necessario per l'analisi.
Quasi tutta la produzione Freudiana è influenzata dal concetto di cathexis intesa come carica, investimento energetico, concetto che indica la quantità di energia legata a tutte le strutture intrapsichiche o alle rappresentazioni oggettuali.
Freud era convinto che la schizofrenia fosse caratterizzata dal disinvestimento energetico (decathexis) degli oggetti, che fosse una regressione in risposta ad un'intensa frustrazione e al conflitto con altre persone e che tale regressione dalle relazioni oggettuali ad uno stadio evolutivo autoerotico avveniva parallelamente ad un ritiro di investimento emotivo dalle rappresentazioni oggettuali e dalle figure esterne (comparsa del ritiro autistico)129.
Rimane netta, nella teorizzazione freudiana, la linea di demarcazione che separa le nevrosi, dove la capacità di lettura della realtà da parte dell'Io permane immutata, e le psicosi, dove è completamente disintegrato il rapporto Io-mondo esterno.
Furono Harry Stack Sullivan, uno psichiatra americano, ed in seguito Frieda Fromm-Reichmann, una psichiatra tedesca emigrata negli Stati Uniti, a promuovere l'utilizzo della psicoanalisi con pazienti affetti da schizofrenia e ricoverati in ospedale130.
Harry Stack Sullivan ritenne che l'eziologia del disturbo schizofrenico fosse legata alle precoci difficoltà relazionali interpersonali inerenti il rapporto bambino-genitori (come le inadeguate cure materne che instaurano nel bambino un sé carico di angoscia) ed elaborò il processo terapeutico come percorso interpersonale di lunga durata mirato alla estrapolazione dei conflitti primitivi.
Altri clinici, legati al filone teorico della psicologia dell'Io, proposero, come causa scatenante per la schizofrenia, la disintegrazione dei confini dell'Io con relativo disinvestimento energetico che produrrebbe l'incapacità dei pazienti schizofrenici di riconoscere la separazione tra ambiente interno ed ambiente esterno.
Più recentemente la comunità scientifica di orientamento psicodinamico ha posto sempre più attenzione alle dinamiche familiari e alla ipotesi diatesi/stress, riflettendo su come una predisposizione genetica, suffragata dai progressi nella ricerca biologica e neuroscientifica, possa diventare fattore scatenante se l'individuo, fin dalla più tenera età, è esposto ad un ambiente ostile.
Olin e Mednick (1996) hanno identificato anche caratteristiche premorbose che sembrano costituire marker di rischio per una futura psicosi come i fattori eziologici precoci (neurobiologici, genetici, psicologici), i precursori comportamentali e sociali di malattia mentale identificati da clinici ed insegnanti e le variabili di personalità rivelate da interviste e questionari che dimostrerebbero come un'interazione tra vulnerabilità genetica, caratteristiche ambientali e tratti individuali, sia alla base del conclamarsi della patologia schizofrenica131.
L'approccio psicodinamico si è interessato soprattutto, nel corso degli anni, al significato profondo dei sintomi psicotici legato, nella gran parte dei casi, ad una ferita narcisistica, constatabile attraverso l'analisi del contenuto di allucinazioni e deliri di grandezza, e al tentativo estremo di compensazione e di ricostruzione dei confini dell'Io messi in campo dai soggetti schizofrenici.
Per quanto riguarda l'approccio clinico psicodinamico, ferma restando la necessità, secondo molti scienziati, di una terapia farmacologica di base che possa mitigare almeno i sintomi positivi, e la necessaria compliance farmacologica, si è fatta luce sull'importanza fondamentale di una alleanza terapeutica che abbia come fondamento la costante attenzione sull'esperienza interna del paziente.
Per molti soggetti affetti da schizofrenia la psicosi può assolvere una funzione difensiva che permette di evitare il confronto con le incertezze relazionali, le complessità delle situazioni lavorative o il significato dell'esistenza e alla prima remissione dei sintomi si può verificare spesso un processo di lutto correlato a ciò che è stato perduto e alla sensazione sconcertante di non sapere chi si è in uno stato mentale non psicotico132.
Divengono così fondamentali, oltre alle terapie farmacologiche con antipsicotici, altri percorsi terapeutici per la riabilitazione, lo sviluppo delle competenze e l'integrazione di nuove reti di sostegno sociale e alla persona.
La psicoterapia psicodinamica individuale appare però di difficile articolazione a causa della durata consistente, della flessibilità richiesta nell'instaurare l'alleanza terapeutica e dell'alto tasso di abbandono nel corso della cura.
Diverse sono state le modalità cliniche esplorate nel corso degli anni da svariati scienziati di orientamento psicodinamico per cercare di ottimizzare i processi terapeutici e i risultati, seppur nella maggior parte dei casi, positivi, sono stati,
comunque, discordanti, come nel caso della terapia strettamente individuale dove il paziente può affrontare un percorso di analisi che lo porti ad esplorare le dinamiche relazionali conflittuali dell'infanzia fino al raggiungimento dell'acquisizione delle abilità sociali di base, della risoluzione dei conflitti e della gestione emozionale.
Nella terapia individuale, il paziente viene condotto verso la rielaborazione dei propri conflitti (anche se permane la difficoltà di insight nei soggetti schizofrenici) durante un cammino terapeutico che pone grande attenzione alle differenze fondamentali individuali e che rispetta, nella sua totalità, il mondo interiore complesso e stratificato del soggetto.
Forte attenzione viene posta, in tutte le psicoterapie psicodinamiche, al rapporto clinico-paziente, a come lo specialista possa divenire un Io ausiliario per il soggetto schizofrenico e ai processi di transfert e contro-transfert che fanno da corollario al percorso.
Numerosi clinici si sono poi interessati alla psicoterapia di gruppo e alla psicoterapia familiare in un'ottica complementare di natura psicoeducativa e psicosociale nel tentativo ultimo di riabilitare competenze e capacità relazionali che possano reintegrare i pazienti nel loro ambiente socio-culturale.

 L'APPROCCIO COGNITIVO-COMPORTAMENTALE


L'approccio psicodinamico, come abbiamo visto precedentemente, non intende, per quanto concerne la prassi clinica, procedere alla disarticolazione delle distorsioni attuali del pensiero proprie della patologia schizofrenica, ma alla elaborazione dei conflitti sviluppatisi nell'infanzia.
Gli studiosi di orientamento cognitivo-comportamentale, invece, partendo da una critica serrata alle teorizzazioni in campo psicodinamico, forti della presenza di una letteratura clinica e sperimentale sempre più considerevole, sono fermamente convinti che le convinzioni disadattive di alcuni pazienti possono di fatto essere modificate attraverso interventi di natura cognitivo-comportamentale (Garety, Fowler e Kuipers, 2000).
Alcuni pazienti possono essere incoraggiati a sottoporre a verifica le proprie convinzioni deliranti secondo modalità analoghe a quelle che utilizzerebbero le persone senza schizofrenia e i ricercatori hanno riscontrato che la terapia cognitivo-comportamentale può ridurre anche i sintomi negativi, per esempio, mettendo in discussione quelle convinzioni ben strutturate che sono collegate a bassi aspetti di successo (anergia) e a basse aspettative di piacere (anedonia) (Beck, Rector e Stolar, 2004)133.
I risultati di innumerevoli studi provano l'efficacia della terapia cognitivo-comportamentale, in special modo per quanto concerne allucinazioni e deliri e, soprattutto, in relazione all'acquisizione di abilità di gestione dello stress e di problem solving.
Negli ultimi anni molti ricercatori si sono occupati degli aspetti fondamentali della cognizione che risultano compromessi nella schizofrenia e questo nel tentativo di migliorare tali funzioni cognitive e quindi di influire favorevolmente sul comportamento134.
Svariati studi hanno dimostrato che, anche in ambito non strettamente clinico, il lavoro e la ricerca sui processi cognitivi di base possono influire in modo considerevole sui percorsi terapeutici finalizzati al miglioramento della vita sociale e al recupero parziale delle abilità principali dei soggetti con schizofrenia.
L'obiettivo principale dell'approccio cognitivo-comportamentale è dunque cercare di normalizzare funzioni come l'attenzione e la memoria, normalmente carenti in molti pazienti schizofrenici ed associate a un mediocre adattamento sociale ( Green et al., 2000 )135.
Per quanto concerne gli aspetti strettamente clinici, l'orientamento cognitivo-comportamentale è riuscito ad elaborare processi terapeutici come la terapia di miglioramento cognitivo (cognitive enhancement therapy) o addestramento cognitivo dove si fa riferimento a quei trattamenti di recente sviluppo che cercano di migliorare le funzioni cognitive di base come la capacità di apprendimento verbale136.
La prassi terapeutica del filone di ricerca cognitivo-comportamentale ha cercato di lavorare per i pazienti schizofrenici, in interazione costante con la farmacoterapia, tentando di integrare percorsi individuali con percorsi di gruppo atti a sviluppare e migliorare le aree del problem solving, dell'attenzione, della social cognition e dell'adattamento sociale, dando buoni risultati nel recupero delle abilità di base, riducendo i sintomi più debilitanti e consentendo un discreto recupero sociale anche nel mondo del lavoro.
Molti gli strumenti terapeutici utilizzati, da quelli che consentono un approfondimento legato a compiti più specifici, come batterie di test per sondare le funzioni cognitive di base, a quelli usati per analizzare strategie cognitive più ampie, come il computer.
Una psicoterapia, elaborata in ottica cognitivo-comportamentale, mirata al trattamento di soggetti con schizofrenia è la terapia personale (Hogarty et al., 1995), elaborata grazie a vasti studi sulla complessità e eterogeneità dei problemi psico-sociali degli individui schizofrenici.
Questo approccio terapeutico si basa sul tentativo di insegnare al paziente a riconoscere le condizioni di umore e di affettività appropriate, a notare i piccoli segnali di ricaduta, come il bisogno di ritirarsi dalla vita sociale o le minacce inopportune verso gli altri, affrontando un percorso di ristrutturazione cognitiva per aiutare il soggetto schizofrenico a non trasformare in catastrofi le inevitabili frustrazioni e sfide dell'esistenza e quindi per aiutarlo ad abbassare i livelli di stress137.
Durante il percorso terapeutico, vengono fornite al paziente numerose tecniche di gestione dell'ansia, di rilassamento muscolare e di lettura e controllo delle emozioni negative.
La terapia personale offre così l'opportunità di sperimentare un training integrato che intende lavorare sui meccanismi cognitivi messi in atto dal paziente nell'affrontare la quotidianità senza voler approfondire quel vissuto conflittuale dell'infanzia caro all'approccio psicodinamico, e, attraverso una ristrutturazione di schemi cognitivi disadattivi, il soggetto viene indirizzato verso un percorso di miglioramento delle strategie cognitive messe in atto, di accettazione di un eventuale feedback negativo proveniente dall'ambiente di riferimento e della sua elaborazione e di sviluppo degli aspetti relazionali psicosociali.

 L'APPROCCIO SISTEMICO-RELAZIONALE


Sviluppatosi a partire dagli anni cinquanta del novecento, grazie alle riflessioni sui contributi scientifici di Bertrand Russel (Teoria dei tipi logici), di Ludwig von Bertalanffy (Teoria dei sistemi) e di Gregory Bateson (Teoria del doppio legame), l'approccio sistemico-relazionale utilizza, come chiave di lettura fondamentale, l' ipotesi sulla presenza onnicomprensiva dell'atto comunicativo secondo la quale tutto è comunicazione, anche la non comunicazione.
Questo orientamento tenta di indagare il mondo psichico a partire dal sistema della comunicazione regolato dalle leggi della totalità per cui il mutamento di una parte genera il mutamento del tutto, della retroazione dove viene abbandonata l'idea di causalità lineare per quella di circolarità che investe ogni punto del sistema, influenzante ed influenzato da altri punti, della equifinalità per cui ogni sistema è la miglior spiegazione di se stesso138.
Importante diventa, per gli scienziati di questo orientamento, la teoria generale dei sistemi che, fondata sull'assunto che il tutto non è riconducibile alla somma delle parti, si lega alle più moderne concezioni della cibernetica, determinando le regole strutturali e funzionali che consentono la vita, la comunicazione e l'interazione intra ed inter sistemica.
Per quanto concerne strettamente la psicologia, l'approccio sistemico-relazionale ha permesso agli studiosi di superare una visione atomistica e dualistica dei fenomeni psichici, riflettendo sulle dinamiche interattive delle parti. Secondo vari scienziati l'ipotesi sistemica abbandona la concezione meccanicistico-causale dei fenomeni che ha dominato le scienze fino a tempi recenti in favore di una riflessione sui circuiti interattivi delle parti (Mara Selvini-Palazzoli).
Gregory Bateson, uno dei maggiori esponenti di questo approccio, focalizza la propria attenzione su aspetti fondamentali come il contesto dove accadono i fenomeni psichici, richiamando così le ipotesi legate alla teoria del campo di Kurt Lewin, la circolarità delle interazioni, la posizione, simmetrica o complementare del rapporto e la definizione di relazione su più livelli da quelli non-verbali a quelli verbali.
Dal punto di vista terapeutico, l'orientamento sistemico-relazionale, parte dall'ipotesi che tutte le volte che un sistema perde il suo stato di equilibrio a causa di un imput endogeno o esogeno, è costretto a riorganizzarsi rimettendo in gioco strutture, dinamiche e funzioni. Pensando alla famiglia come al sistema relazionale più importante per ogni soggetto, è in questa fase e proprio a partire dalle dinamiche familiari, che può intervenire il terapeuta, come un sistema che entra in contatto con un altro sistema, operando sulla crisi innescata dal cambiamento e sulle relazioni ed interazioni che avvengono tra le parti. La risoluzione positiva del problema e l'accettazione del cambiamento comporteranno un nuovo tipo di stabilità dinamica ed una nuova organizzazione cognitiva ed emotiva.
Elaborazioni teoriche più recenti, mettono in campo non solo il funzionamento del sistema ma anche il suo ciclo vitale, articolandolo in varie fasi che prevedono l'ottimizzazione, attraverso la crescita e la maturazione dei componenti del sistema, del percorso di individuazione e separazione, come nel caso della fase dello svincolo e della separazione (Cancrini et al., 2012).
La fase dello svincolo o della separazione corrisponde in termini di ciclo vitale allo sviluppo di un processo preparato in fase di individuazione, che si realizza in forma di distacco dell'individuo dalla sua famiglia di origine e che inizia al termine dell'adolescenza e finisce con l'allontanamento fisico e/o emotivo del soggetto dal sistema famiglia, divenendo così processo cruciale nella storia di ogni persona139.
Il processo di svincolo coinvolge tutti i membri del sistema famiglia e diviene percorso emotivo cruciale per lo sviluppo e la crescita e solo se i figli, in fase di separazione dalla famiglia, saranno sostenuti dai genitori grazie ad un rapporto basato su fiducia e reciprocità, si potrà avere un superamento effettivo di questo passaggio e la riorganizzazione del sistema.
Molte e complesse appaiono le forze messe in campo e, spesso, le resistenze poste in essere, anche implicitamente, dai membri del sistema verso il cambiamento e la crescita del mondo intersistemico.
La risoluzione di questo passaggio può avvenire in modo costruttivo e portare al cambiamento oppure può avvenire in modo distruttivo e produrre forme patologiche legate alle fasi di non separazione, definite dagli scienziati di questo orientamento come svincolo impossibile, svincolo inaccettabile, svincolo apparente e svincolo di compromesso.
Per quanto concerne la schizofrenia, essa è considerata come una patologia provocata da uno svincolo impossibile ossia da un processo di individuazione che non può avere luogo perché bloccato in una forma di ritiro sociale e in una mancanza di interesse verso il mondo esterno (Cancrini et.al, 2012).
Il linguaggio della famiglia dei soggetti schizofrenici, viene di sovente osservato, è confuso, competenze e responsabilità passano, senza un preciso ordine tra tutti i membri sia su un piano implicito che su un piano esplicito e, da ultimo, il paziente si ritrova ad essere il catalizzatore di dinamiche relazionali disadattive, o troppo rigide o troppo elastiche. In sintesi, il paziente non riesce a sviluppare una propria autonomia, seguendo un processo di individuazione, a causa della troppa rigidità o della troppa labilità dei confini dello spazio relazionale ed emotivo che dovrebbe intercorrere tra i membri di un sistema famiglia.
In relazione al percorso terapeutico proprio di questo orientamento, gli scienziati che si occupano in special modo di prassi clinica, suggeriscono comunque un'integrazione con farmaci antipsicotici atipici, anche se forte rimane la proposta di un graduale allentamento della somministrazione in concomitanza con un miglioramento, grazie alla terapia, dei sintomi e dei segni.
La terapia sistemico-relazionale si fonda sull'analisi delle dinamiche individuali, ambientali e sociali e sull'osservazione delle interazioni e delle relazioni tra individuo, famiglia e società. Per quanto concerne la schizofrenia, i clinici di orientamento sistemico-relazionale, nel corso della terapia, si dimostrano attenti all'individuo inserito in un contesto, lavorando per consapevolizzare la famiglia del paziente, per migliorare la capacità di accettare cambiamenti e per portare il sistema verso una ottimale abilità di autogestione.


 UNA NUOVA STRADA PER LA PSICHIATRIA E PER LA PSICOTERAPIA



Con questi paragrafi conclusivi, dopo aver cercato di approfondire in precedenza i diversi aspetti che coinvolgono la patologia schizofrenica, da quelli più generali legati ad una visione complessa composta da più livelli come quello storico-culturale e quello psicopatologico-descrittivo, a quelli più specifici come il livello neurobiologico, il livello psicologico e il livello clinico, sposteremo la riflessione sulle nuove ipotesi scientifiche e metodologiche che sono state articolate attraverso il dibattito della comunità scientifica dall'imporsi del paradigma neuroscientifico ad oggi.
Il panorama scientifico odierno è ben diverso e più articolato rispetto al momento storico, la fine dell'Ottocento, della nascita e dello sviluppo delle branche scientifiche interessate alla psiche e ai suoi problemi. Vi è stato un consistente progresso che ha permesso l'evolversi, da una iniziale situazione di separazione delle discipline e scarsa interazione tra esse per addivenire ad una integrazione di dati, di ipotesi, di progettazione sperimentale e di risultati, di un percorso affascinante, sempre più teso alla condivisione e alla costruzione di un network costituito da saperi e pratiche affinati grazie ad un'evoluzione tecnologica e scientifica sempre più consistente.
Anche la scienza psichiatrica, attualmente è indirizzata verso un approccio di tipo integrativo pur avendo mantenuto, dal secondo dopoguerra in poi, per esempio negli Stati Uniti d'America, una prassi clinica fortemente legata all'orientamento psicodinamico, avendo gli scienziati che si occupavano di psicopatologie assimilato le idee psicoanalitiche, che aprivano una nuova prospettiva sulla complessità dei processi mentali umani, generando la consapevolezza che larghi strati della vita mentale, incluse alcune cause di psicopatologia, fossero inconsci e non immediatamente accessibili all'introspezione conscia140.
Tuttavia, gli psichiatri di formazione medica e di orientamento psicoanalitico erano consapevoli che la teorizzazione freudiana, fin dalle sue prime articolazioni, aveva cercato di indagare tutti quegli aspetti organici e biologici che potevano fare da substrato ai meccanismi del funzionamento psichico, ma che, a causa dell'immaturità delle neuroscienze dell'epoca, era stato abbandonato il modello biologico a favore di un modello prettamente mentalistico.
Con l'imporsi del paradigma neuroscientifico, oggi ci troviamo in un momento di ottimale convergenza nella ricerca e nello scambio di contributi scientifici, tra psichiatria, psicobiologia e neuropsicologia, ed anche l'approccio psicodinamico, con i suoi punti di riferimento mutuati dal modello psicoanalitico, può integrarsi in modo produttivo.
Questo innovativo modello psichiatrico che tiene conto dei progressi in ambito neuroscientifico, è pienamente consapevole ormai che tutti i processi mentali, anche quelli più complessi, derivano da operazioni del cervello tanto che ciò che viene chiamato mente rappresenta un insieme di funzioni svolte dal cervello, da quelle più semplici come quelle motorie e vegetative a quelle più complesse come gli atti cognitivi, consci ed inconsci. Grande importanza riveste anche l'aspetto genetico e i geni con le loro proteine determinano in modo consistente gli schemi di interconnessione tra neuroni cerebrali e loro specifiche funzioni, influenzando con le loro combinazioni, il comportamento. Partendo poi dall'influenza genetica, gli scienziati hanno constatato che una modificazione dei geni da sola non riesce a spiegare tutta la variabilità osservata in relazione ad una patologia mentale ed occorre anche una forte influenza ambientale, sociale e comportamentale per rendere conto del manifestarsi di un disturbo psichico, tanto più che, sembrerebbe, anche il comportamento, l'apprendimento, la “cultura”acquisiti, influenzerebbero, in uno schema retroattivo, l'espressione genica, portando alla luce l'idea che “cultura” e “natura” siano fortemente intercorrelate non in uno schema lineare di causa-effetto, ma in uno schema circolare a feedback141.
La comunità scientifica ha poi constatato, attraverso studi e ricerche, che modificazioni dell'espressione genica indotte dall'apprendimento producono cambiamenti negli schemi di connessione neuronale, ipotesi questa divenuta fondante per tutti gli approcci riabilitativi e clinici contemporanei che riflettono costantemente sulle basi biologiche della personalità individuale e sulle influenze sociali e che articolano i loro percorsi terapeutici in base all'idea del cambiamento di lunga durata nei comportamenti, consapevoli dell'importanza del processo di apprendimento che modifica l'espressione genica agendo sulle connessioni sinaptiche fino a riscrivere i percorsi anatomici delle interconnessioni tra i neuroni del cervello142.
Per quanto concerne le ipotesi di questo nuovo approccio integrato relative al rapporto mente-cervello e all'influenza genetica in forme patologiche come la schizofrenia, il tutto è stato diffusamente trattato nei capitoli precedenti. Preme però sottolineare due concetti fondamentali che stanno alla base del nuovo paradigma scientifico sorto dallo sviluppo delle neuroscienze, sviluppo che ha saputo sapientemente far interagire dati e risultati provenienti da tutte quelle discipline scientifiche che si sono occupate della correlazione mente-cervello. Questi due concetti sono relativi alla capacità dell'apprendimento di modificare l'espressione genica fino ad arrivare al concetto di plasticità neuronale, e la capacità dei percorsi terapeutici e riabilitativi di portare ad un cambiamento comportamentale, il tutto con forti influenze sulle modificazioni genetiche e neuronali. Sono stati gli studi su animali a far comprendere come l'esperienza produca modificazioni durature nell'efficacia delle connessioni neuronali alterando l'espressione genica e facendo luce sui rapporti tra biologia e società e non esiste alcun cambiamento del comportamento che non si rifletta nel funzionamento del sistema nervoso e nessuna persistente alterazione del sistema nervoso che non si traduca in cambiamenti strutturali ad un qualche livello di risoluzione, quindi, l'esperienza sensoriale quotidiana, la deprivazione sensoriale e l'apprendimento portano ad un indebolimento delle connessioni sinaptiche in alcune circostanze ed a un loro consolidamento in altre143.
Per quanto concerne gli aspetti più strettamente legati alle psicoterapie, ai percorsi di riabilitazione e alla psicofarmacologia, risulta allora chiaro che se la terapia conduce a cambiamenti sostanziali nel comportamento, questo avviene modificando l'espressione genica e producendo modificazioni strutturali nel cervello (in relazione alle sinapsi).
Quindi l'uso combinato di interventi psicoterapeutici e farmacologici potrebbe rivelarsi particolarmente efficace, grazie all'effetto potenzialmente interattivo e sinergico (non solo additivo) dei due tipi di intervento e il trattamento psicofarmacologico può così contribuire a consolidare i cambiamenti biologici prodotti dalla psicoterapia144.
Le implicazioni scientifiche ed etiche (ascolto, riconoscimento dell'altro, affinamento delle abilità sociali, e così via. ) di questo modello teorico neuroscientifico e psichiatrico contemporaneo sono consistenti e, per sintetizzare, potremmo dire che quando un terapeuta parla ed un paziente ascolta, non si instaura solo un contatto visivo ed uditivo, ma l'azione dell'apparato neuronale del terapeuta può avere un effetto indiretto e durevole sull'apparato neuronale del paziente e viceversa.

 UNA NUOVA DISCIPLINA DI SINTESI: LA NEUROPSICOANALISI


Presentiamo ora in sintesi , per concludere questa carrellata su alcuni degli aspetti più promettenti della ricerca contemporanea, le linee generali di una disciplina di recente elaborazione teorica e sperimentale, la neuropsicoanalisi o neuropsicologia del profondo, approccio scientifico interdisciplinare studiato ed articolato dagli scienziati britannici Mark Solms, medico, psicologo e terapeuta e da Karen Kaplan-Solms, neuropsicologa e psicoanalista.
Partendo dalla volontà di riflettere sul valore scientifico della psicoanalisi freudiana, spesso considerata alla stregua di una pseudoscienza a causa della forti carenze metodologiche che, secondo i più forti critici della disciplina, non hanno nulla di sperimentale (gruppo sperimentale e di controllo, randomizzazione, criteri di validità, universalità, generalizzazione e così via.), e studiando proprio quegli aspetti scientifici su cui si era formato il giovane medico Sigmund Freud (neurologo), Mark Solms, cerca di analizzare le brillanti intuizioni del medico viennese fondatore della psicoanalisi, leggendole in chiave neuroscientifica.
Secondo Solms, all'epoca di Freud i progressi in ambito neuroscientifico erano limitati, così, il fondatore della psicoanalisi si vide costretto ad optare per lo studio degli aspetti mentali e psicologici tralasciando l'approfondimento della ricerca sul substrato organico.
Sigmund Freud, come abbiamo visto, studiò per molti anni gli aspetti neurobiologici ed anatomici come medico ma ad un certo punto avvenne una graduale transizione, dalla ricerca istologica in laboratorio, all'osservazione clinica dei disturbi, dalla lettura eminentemente biomedica dei disagi psichici al tentativo di elaborare delle linee guida condivise che descrivessero l'apparato psichico e il suo funzionamento (per una rassegna completa sull'argomento rimandiamo all'ottimo saggio del Prof. Giordano Fossi, “Una proposta evoluzionista per la psicoanalisi”, Roma, Franco Angeli Editore, 2003).
Altro grande medico, il cui percorso di ricerca e studio viene preso fortemente in considerazione da Solms, è Alexander Romanovic Lurija, sia per l'interesse scientifico manifestato dal neuropsicologo russo verso la psicoanalisi (nella prima parte della carriera. Successivamente dovette abbandonare l'interesse per la disciplina psicoanalitica per motivi politici), che per la nuova visione anti localizzazionista del medico russo che si orientò verso una lettura dinamica della neuropsicologia, una visione affine al più recente connessionismo.
Per quanto concerne le metodologie scientifiche utilizzate dalla neuropsicoanalisi e le ipotesi di studio, grande importanza riveste l'idea della correlazione tra funzioni mentali dinamiche complesse ed il loro scenario neuroanatomico e il fatto che deve essere chiarita la struttura psicologica di un processo mentale prima che esso possa essere localizzato e che questi processi dinamici complessi non possono essere correlati isomorficamente con singole strutture anatomiche145.
Per la neuropsicoanalisi, diventa essenziale scomporre la struttura psicologica interna di quelle modificazioni nell'ambito della personalità, della motivazione e delle emozioni complesse che sopravvengono in seguito ad una lesione a differenti strutture cerebrali identificando così i fattori multipli sottostanti alla produzione della sintomatologia patologica e dei diversi complessi sindromici, per giungere poi all'esplicazione dello “scenario” anatomico146.
In sintesi, il tentativo fatto dai fondatori di questa nuova disciplina ossia di riportare la ricerca psicoanalitica nel solco della sperimentazione neuroscientifica, per ampliare la prospettiva di integrazione di dati e risultati nello studio del rapporto mente-cervello, diviene paradigmatico di come la comunità scientifica contemporanea sia sempre più attenta all'utilizzare, in modo analitico e critico ma senza chiusure di sorta, tutti i dati e tutta la letteratura fornita dalle discipline che si occupano di psiche.
La neuropsicoanalisi, nell'intenzione dei suoi fondatori, diviene così possibile trampolino di lancio per aspirare ad una completezza che faccia sempre più luce sulle produzioni mentali dinamiche e sul loro substrato anatomico, ben conoscendo però, le difficoltà insite nella ricerca della coscienza soggettiva e del suo posizionamento all'interno del sistema nervoso.

 CONCLUSIONI



Terminiamo questa dissertazione che ha avuto come tema principale una possibile lettura psico-biologica di una delle psicopatologie più debilitanti e gravi e come filo conduttore l'analisi sotto svariati aspetti del rapporto che intercorre tra il cervello e la mente, con alcune considerazioni finali.
Abbiamo potuto osservare, sia da un punto di vista storico-culturale che da un punto di vista prettamente scientifico, i passi avanti compiuti dalle discipline che si sono occupate e che si occupano di psiche e problemi connessi, discipline che potremmo considerare relativamente giovani essendosi sviluppate in modo consistente a partire dalla fine del Settecento (psichiatria) e dalla fine dell'Ottocento (psicologia e neuropsicologia) e questo sviluppo è sicuramente legato, come per ogni settore della medicina e delle scienze che si occupano della salute, anche all'affinamento di tecnologie sempre più complesse che hanno fatto e fanno da supporto per la ricerca e lo studio dell'organismo e delle sue patologie.
A differenza dei periodi immediatamente successivi alla nascita delle varie discipline che compongono la famiglia delle neuroscienze, periodi dove le ipotesi e le teorie proposte nei vari campi dovevano consolidarsi obbligando gli scienziati ed i ricercatori ad essere in certo modo autoreferenziali e a non prendere in considerazione i contributi provenienti da altri campi di studio, oggi le scienze che si occupano di mente e di cervello quasi sempre interagiscono in modo complesso con uno scambio continuo di dati e contributi producendo una sintesi scientifica estremamente interessante per le nuove vie che apre alla ricerca e alla teorizzazione. Da un punto di vista strettamente clinico, tale sintesi scientifica, a nostro parere, può produrre ulteriore conoscenza e affinamento delle prassi terapeutiche e riabilitative in un'ottica di approfondimento del disagio e delle tecniche per un suo superamento. Per quanto concerne strettamente la schizofrenia, risulta chiaro come, da iniziali tentativi di descrizione e classificazione, elaborati con strumenti conoscitivi propri dell'epoca di Kraepelin e Bleuler, i cui risultati teorici producevano a pioggia, metodi e tecniche terapeutiche ormai ampiamente superate, si sia giunti oggi, grazie appunto allo sviluppo di procedimenti strutturati come network di conoscenze e competenze, ad una visione complessiva integrata, tra medicina, neurobiologia, psicologia e farmacologia che ha dato buoni risultati anche dal punto di vista clinico, fermo restando il fatto che ulteriori traguardi di perfezionamento sono auspicabilmente da raggiungere.
Tuttavia la schizofrenia resta ancora una psicopatologia tra le più complesse che rimarrebbe di difficile comprensione al di fuori delle chiavi di lettura fornite dall'attuale paradigma neuroscientifico che offre una visione chiara di tutti gli elementi coinvolti nel disturbo, sia per quanto riguarda gli aspetti strutturali che per quelli funzionali.
Conoscere meglio una patologia, la sua eziologia, i suoi segni e sintomi, sia dal punto di vista psichiatrico e psicologico, sia dal punto di vista neurobiologico e biochimico, sicuramente ha contribuito al notevole progresso anche nel campo clinico, dove, pur rimanendo la terapia farmacologica una risorsa tra le più importanti ed imprescindibili, questa non è rimasta la sola prassi da tenere in considerazione e, sempre più, è coadiuvata da percorsi di cura mirati che toccano la sfera cognitiva, quella emotiva e quella psicosociale e relazionale.
Con l'imporsi dell'ipotesi inerente influenza ambientale versus espressione genica e viceversa, anche la cosiddetta talking-cure o cura della parola, su cui si fondano prassi cliniche come la psicoanalisi classica, o percorsi mirati al miglioramento della rete di sostegno sociale e lavorativo, sono divenuti di primaria importanza, parallelamente alla terapia farmacologica, per integrare la cura e il reinserimento sociale del paziente schizofrenico.
Per concludere, restano ancora molte le strade da percorrere per quanto riguarda ricerca e prassi clinica in relazione allo studio della psicopatologia, di quel complesso organo che è il cervello e della sua produzione che è la psiche, ma i risultati ottenuti fino ad oggi da scienziati e ricercatori, in tutti quei campi che contribuiscono ad arricchire le neuroscienze, fanno ben sperare in un futuro raggiungimento di ulteriori ed importanti traguardi.
Ed è questo il percorso che da centinaia di anni donne e uomini di scienza, ricercatori o clinici, con sacrificio e dedizione, di giorno e di notte, in ricchezza o in povertà, si ripropongono di intraprendere senza mai perdere la speranza che ogni giorno nuovo regali alla comunità scientifica e all'umanità intera un dato nuovo, un risultato insperato, un'ipotesi innovativa, una nuova teoria articolata e complessa per conoscere e comprendere in modo sempre più approfondito, solido e strutturato quella “macchina meravigliosa” che è l'uomo. E' ad essi e al loro preziosissimo lavoro quotidiano che si vuole, con immensa gratitudine, dedicare infine, questa modesta dissertazione.




BIBLIOGRAFIA



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4A.KRING, G.DAVISON, J.NEALE, S.JOHNSON, Psicologia clinica, Bologna, Zanichelli, 2008 3° (1989), p. 11.
5A.KRING, G.DAVISON, J.NEALE, S.JOHNSON, Psicologia clinica, Bologna, Zanichelli, 2008 3° (1989), p. 12.
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8A.KRING, G.DAVISON, J.NEALE, S.JOHNSON, Psicologia clinica, Bologna, Zanichelli, 2008 3° (1989), p. 13.
9A.KRING, G.DAVISON, J.NEALE, S.JOHNSON, Psicologia clinica, Bologna, Zanichelli, 2008 3° (1989), p. 13.
10 U. GALIMBERTI, Dizionario di Psicologia, Torino, Editrice Torinese, 1992, p. 798.
11 G. VALLAR, C. PAPAGNO, Manuale di Neuropsicologia, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 10.
12 G. VALLAR, C. PAPAGNO, Manuale di Neuropsicologia, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 11.
13 G. VALLAR, C. PAPAGNO, Manuale di Neuropsicologia, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 10.
14 A. OLIVERIO, Prima lezione di neuroscienze, Bari, Laterza 2011 3° (2002), p. 4.
15 A. OLIVERIO, Prima lezione di neuroscienze, Bari, Laterza 2011 3° (2002), p. 4.
16 A. OLIVERIO, Prima lezione di neuroscienze, Bari, Laterza 2011 3° (2002), p. 5.
17 A. OLIVERIO, Prima lezione di neuroscienze, Bari, Laterza 2011 3° (2002), p. 14.
18 A. OLIVERIO, Prima lezione di neuroscienze, Bari, Laterza 2011 3° (2002), p. 22.
19 A. OLIVERIO, Prima lezione di neuroscienze, Bari, Laterza 2011 3° (2002), p. 25.
20 A. OLIVERIO, Prima lezione di neuroscienze, Bari, Laterza 2011 3° (2002), p. 31.
21 A. OLIVERIO, Prima lezione di neuroscienze, Bari, Laterza 2011 3° (2002), p. 31.
22 A. OLIVERIO, Prima lezione di neuroscienze, Bari, Laterza 2011 3° (2002), p. 31.
23 A. OLIVERIO, Prima lezione di neuroscienze, Bari, Laterza 2011 3° (2002), p. 32
24 A. OLIVERIO, Prima lezione di neuroscienze, Bari, Laterza 2011 3° (2002), p. 33
25 A. OLIVERIO, Prima lezione di neuroscienze, Bari, Laterza 2011 3° (2002), p. 35
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51A.KRING, G.DAVISON, J.NEALE, S.JOHNSON, Psicologia clinica, Bologna, Zanichelli, 2008 3° (1989), p. 354.
52N.L. BURTON, Introduzione alla psichiatria, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 77.
53La lettera p indica il braccio corto del cromosoma e la lettera q il braccio lungo (ndr).
54N.L. BURTON, Introduzione alla psichiatria, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 78.
55N.L. BURTON, Introduzione alla psichiatria, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 80.
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144 E. R. KANDEL, Psichiatria, psicoanalisi e nuova biologia della mente, Milano, Raffaello Cortina
Editore, 2007, p. 61.
145 K.K. SOLMS, M. SOLMS, Neuropsicoanalisi, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2002. p. 53.

146 K.K. SOLMS, M. SOLMS, Neuropsicoanalisi, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2002. p. 54.

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