martedì 11 ottobre 2011

JUNG E L'ARTE


L’attenzione all’immaginario che si trova alla radice dell’esplorazione dell’inconscio collettivo sta anche alla base dell’interesse per l’arte e la creatività.
C.G.Jung si inserisce in modo significativo nel dibattito sulle relazioni tra psicologia e arte, e il contrasto con Freud si fa sentire anche in questa tematica.

Jung evidenzia i rischi della metodologia freudiana, che rivolgendosi agli antecedenti psicologici rintracciabili alla base dell’opera, si allontana insensibilmente dal soggetto facendo di ogni artista un caso clinico e di ogni opera d’arte una malattia.

Crocevia tra l’aspetto archetipico, l’aspetto culturale e l’aspetto personale, la produzione artistica ha un posto importante nella ricerca junghiana.

Per Jung l’opera d’arte è una produzione che va oltre l’individuo poiché il suo significato non è rinvenibile nella condizione umana che lo ha prodotto.

“Per dare all’opera ciò che le è dovuto, è necessario che la psicologia analitica escluda completamente ogni pregiudizio di carattere medico, poiché l’opera d’arte non è una malattia è quindi richiede un orientamento del tutto diverso da quello medico”.

Continuando la citazione di Jung:

“L’orientamento esclusivo verso i fattori personali, che è richiesto dalla ricerca della causalità personale, non è assolutamente ammissibile per l’opera d’arte, poiché qui non si tratta di un essere umano ma di una produzione che va oltre l’individuo.

Si tratta di una cosa che non ha personalità e per la quale quanto è personale non può essere un criterio di giudizio.

La vera opera d’arte trae il suo significato particolare dal fatto che è riuscita a liberarsi dalla stretta e dall’ostacolo di quanto è personale, lasciando lungi da sé ogni elemento caduco e contingente dalla pura personalità”.

Ancora Jung:

“Il suo senso e il suo carattere ( parlo ovviamente dell’opera d’arte in ogni sua forma) sono in essa e non nelle condizioni umane che l’hanno preceduta; quasi si potrebbe dire che essa l’utilizza l’uomo e le sue disposizioni personali semplicemente come terreno nutritivo, impiegandone le energie secondo leggi proprie, e modellando se stessa secondo ciò che vuol divenire” (estratto da “Psicologia analitica e l’arte poetica”, 1922 ).

Se, infatti, il rischio dell’ermeneutica freudiana è rappresentato dalla tentazione psicobiografica, dalla riduzione dell’opera alla vita del suo autore, il pericolo in cui può incorrere tuttavia questo approccio junghiano consiste nella tendenza a considerare l’opera, specie quella forma di “creazione visionaria” di cui parla lo stesso Jung, come un terreno nel quale va unicamente rintracciata l’azione dei vari archetipi.

Scindere elementi personali, archetipici e culturali, privilegiando uno solo di questi fattori, non consente una piena comprensione del prodotto artistico.

Fermandosi sull’esame del processo creativo Jung giunge a istituire una polarità che designa come contrasto tra “simbolico” e “non simbolico”.

Di fronte all’intenzione creativa, che sorge e si sviluppa come una forza autonoma nell’artista, questi può reagire in due modi: o cercando di identificarsi con essa e di porsene a capo, plasmandola il più possibile secondo la propria intenzione, e si avranno allora forme più compiute ed esiti esteticamente più soddisfacenti; o accogliendo la sostanziale estraneità dell’opera come un processo che non può essere del tutto guidato e assimilato.

In questo caso insomma, l’opera si sviluppa nell’artista come un “complesso autonomo”, e quindi più facilmente si farà portatrice di un contenuto simbolico che Jung delinea in modo conforme alla voce Simbolo delle definizioni posto in conclusione a Tipi psicologici (1921).

Egli parla, infatti, di “….un linguaggio gravido di significati, le cui espressioni avrebbero valore di veri simboli, poiché esse esprimono nel modo migliore cose ancora sconosciute, e sono come ponti gettati verso una riva invisibile”.

Quindi, la psicologia analitica considera l’impulso creativo “un complesso autonomo” che ha una vita psichica indipendente dalla coscienza.

Le sue origini non sono da ricercarsi solamente nell’inconscio personale dell’autore, perché in questo caso si tratterebbe di arte “sintomatica” e non “simbolica” (pensiamo alle nevrosi dell’artista), ma vanno ricercate in quella sfera della mitologia inconscia le cui immagini primordiali sono date da quelle proprietà comuni all’umanità che l’inconscio collettivo conserva e attiva come possibilità di rappresentazione, per cui l’opera d’arte ci offre una perfetta immagine che, sottoposta ad analisi, si rivela nel suo valore di simbolo, di possibilità archetipica di immagini primordiali.

A questo proposito Jung precisa che “…non esistono rappresentazioni innate, ma possibilità innate di rappresentazioni che pongono limiti definiti alla fantasia più audace, cioè esistono categorie dell’attività della fantasia, in certo qual modo idee a priori di cui l’esistenza non è dimostrabile senza l’esperienza.

Esse appaiono solamente nella materia formata, quali principi regolatori della sua formazione; il che significa che noi non possiamo ricostruire il modello primitivo dell’immagine primordiale se non per mezzo di conclusioni tratte dall’opera finita.

L’immagine primordiale o archetipo è una figura, demone, uomo, o processo, che si ripete nel corso della storia ogni qual volta la fantasia creatrice si esercita liberamente.

Essa è in prima linea una figura mitologica. Esaminandola da presso, notiamo che essa è in certo qual modo la risultante di innumerevoli esperienze tipiche di tutte le generazioni passate. Si potrebbero scorgere i residui psichici di innumerevoli avvenimenti dello stesso tipo. Essa rappresenta una media di milioni di esperienze individuali e dà un immagine della vita psichica,suddivisa e proiettata nelle forme multiple del pandemonium mitologico”. (estratto da “Psicologia analitica e l’arte poetica”, 1922 ).

Quando la fantasia creatrice si esercita liberamente, dunque si scatenano queste immagini primordiali nelle quali risuona la voce stessa dell’umanità.

L’artista che le impiega è come se parlasse con mille voci, elevando ciò che è precario all’eterno.

Ogni relazione con l’archetipo, vissuta o espressa, è “commovente” nel senso che agisce sprigionando in noi una voce che, mediata dall’artista, lavora all’educazione dello spirito.

Un importante contributo sulla “personalità creativa” si trova in un famoso saggio di Neumann ( 1955) dal titolo “L’uomo creativo e la trasformazione”.

Riallacciandosi all’ipotesi di Jung sull’esistenza di un istinto creativo, Neumann delinea le caratteristiche sull’uomo creativo, il cui tratto principale è quello di muoversi mantenendosi in equilibrio tra lo sviluppo dell’Io e il mondo inconscio, sia nella sua valenza personale che collettiva.

L’individuo creativo rimane aperto all’inconscio, ma il suo contatto con l’immaginario non si traduce in un assorbimento, in un’inflazione, come invece accade ad esempio allo psicotico.

Proprio l’azione di un complesso personale diviene la via per accedere al patrimonio archetipico.

Neumann rileva un sottile legame tra creatività e sofferenza psichica.

L’artista tende a non sanare le sue ferite attraverso un progressivo adattamento al collettivo, ma, mantenendole aperte, utilizza la sofferenza quale mezzo per far affiorare dalle profondità psichiche la forza risanatrice della creatività.

L’esistenza di una correlazione tra sofferenza psichica ed arte, supportata anche dalla mia esperienza analitica nel corso di lavori di analisi su artisti, non si inquadra in un approccio causale che considera l’opera quale prodotto della malattia, ma va visto all’interno di una prospettiva finalistica che proietta ogni accadimento ed ogni fenomeno psichico in un progetto di cui è necessario scoprire il senso.

Creare, dunque, è per l’artista un tentativo di scoprire ed affermare la propria identità, guarendone scissioni e ferite, è un modo di entrare in relazione con l’inconscio, iscritto in quella generale attitudine creativa nei confronti della vita che costituisce una potenzialità presente in ciascun essere umano, attitudine sulla quale tutti gli junghiani sostanzialmente concordano.

Come Neumann vede, infatti, nella psiche uno spazio, un luogo di capacità e attività creative, così Hillman collega la creatività sia nei suoi aspetti costruttivi che distruttivi, con il “fare anima”, con quel processo di creazione, ingenerazione, risveglio, illuminazione ed individuazione dell’anima, intendendo con anima il regno dell’immaginale, quella prospettiva particolare delle cose, quella zona intermedia tra l’individuo e il mondo esterno, quel momento riflessivo nel quale gli eventi vengono trasformati in immagini.

L’immaginazione creativa è considerata dunque una componente psichica fondamentale da cui dipende la possibilità di prendersi cura dell’anima e delle sue immagini, cura che caratterizza l’approccio della scuola archetipica dell’arte.

Il profondo rapporto tra creatività ed individuazione, la visione dell’opera come luogo dove l’artista cura le sue ferite e lavora alla propria trasformazione, non solo possono essere viste attraverso un approccio misto all’arte che parte da prospettive teoriche differenti, ma in molti casi possono essere anche colti all’interno di un

modello iniziatico che rintraccia nel prodotto artistico quelle dinamiche di morte e rinascita al centro dei rituali di iniziazione.

Quindi, sia la prospettiva iniziatica che quella mistica adottata da Neumann nell’individuare le radici del fenomeno creativo in quella “Grande esperienza della realtà unitaria”, rendono visibile il rapporto esistente tra una funzione creativa della psiche, particolarmente operante nell’artista, ed una funzione religiosa, esprimendo intenti che verrebbero sostanzialmente a coincidere nello sforzo di rinnovamento da una parte e nel contatto con il numinoso dall’altra.

Merita qualche considerazione a parte la questione del rapporto tra arte e psicoterapia.

Jung è stato tra i primi, se non il primo, ad introdurre nella psicoterapia attività di carattere artistico (in particolare il disegno e la pittura). Lo spunto è da cercare nella sua autoanalisi; in esperienze importanti quali la stesura del Libro rosso, una messa in bella forma, attraverso disegni e testi poetici, dei contenuti dei sogni e delle fantasie sviluppate con la tecnica dell’”immaginazione attiva”.

A proposito della costellazione dell’ambito artistico da parte di Jung, in connessione o meno con le vicende dell’autoanalisi, vanno anche ricordati il disegno dei mandala, la stesura dei Septem sermones ad mortuos (1961) e le attività con la pietra, che Jung considerava materiale ricco di valenze simboliche.

Una volta fissata l’immagine, il problema nel lavoro analitico diviene quello di elaborarla.

Questa elaborazione procede lungo una duplice direzione.

Il “principio della comprensione” che mira ad estrarre subito il “senso”, o un senso dall’immagine; e il “principio della raffigurazione”, che invita ad indugiare presso di essa, arricchendola, dandole una forma sempre più rotonda, per cui il disegno può diventare dipinto, e il resoconto scritto, poesia o racconto.

Tutte questa pratiche, che io, ormai da tempo, svolgo all’interno del mio lavoro analitico con alcuni dei miei pazienti, costituiscono utili, e a volte necessari, esercizi di amplificatio dell’immagine, perché la mettono a fuoco meglio, ne precisano i tratti e le implicazioni, permettendole così di svolgere fino in fondo il ruolo terapeutico che è racchiuso proprio nella sua qualità di immagine, e che, in sintesi, è quello di tradurre in forma percepibile pulsioni, affetti ed emozioni.



Bibliografia

Jung C. G. , Psicologia analitica e arte poetica, (1922) in Opera vol. 10 (tomo primo) . Boringhieri Torino 1985.
Jung C. G. , Tipi psicologici, (1921) in Opera vol. 6. Boringhieri Torino 1988.
Jung C.G., Septem Sermones ad Mortuos, (1961) Giovanni Oggero, Carmagnola 1989.
Neumann E., L’uomo creativo e la trasformazione , Saggi Marsilio 1993
Neumann E., Storia delle origini della coscienza, Astrolabio Ubaldini Roma 1978.

(Contributo on-line)

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