lunedì 31 ottobre 2011

IL LABORATORIO CREATIVO




  1. L come Laboratorio

Ci sono molti modi di pensare un laboratorio.
Alcuni intendono laboratorio come un luogo in cui ci sono macchine, e vi si svolgono attività
produttive.
Altri intendono laboratorio come luogo di avviamento o di addestramento ad una qualche tecnica o mestiere . C’è chi intende laboratorio in termini di sperimentazione e ricerca scientifica (chimica-fisica-medica)…
Noi intendiamo laboratorio come luogo in cui è attivo - un gruppo di ragazzi condotto da un animatore adulto.
Se proprio vogliamo trovare un nome, anziché l’inglese workshop ci è più caro il francese atelier, nel quale ci sembrano prevalenti il fare, e l’essere; anziché l’apparire, il di-mostrare, per far acquistare.
Se vogliamo servirci di un’immagine per potercelo rappresentare e discuterne, più che ad una fabbrica pensiamo ad una bottega artigiana, nella quale c’è un maestro che dà poche spiegazioni, forse un po’ geloso del suo sapere, tuttavia lascia che gli allievi si guardino intorno, che imparino facendo, che trovino la loro strada, insieme.
Nel laboratorio creativo si svolge un attività, ma il suo scopo principale non è quello di apprendere una tecnica, nemmeno di produrre obbligatoriamente un prodotto.
Il suo scopo manifesto è di svolgere un compito dato, un’attività ludico-espressiva, ma il suo scopo latente è quello di produrre integrazione , di sviluppare relazioni, di aiutare a crescere.

  1. GC come Gioco Creativo

Il laboratorio creativo è polisemico, nel nome e nel cognome.
Intendiamo creativo nel senso che nel laboratorio i ragazzi svolgono attività espressive, ludiche, animative, attraverso le quali essi possono rappresentarsi in forme nuove, ricreandosi, reinventandosi, giocando nuove e impreviste identità.
Anche in questo caso ci può venire in soccorso la lingua: Giocare non è perdere tempo. Forse riusciamo a cogliere fino in fondo la molteplicità dei significati nell’inglese play, nel francese jouer:
in queste parole vi sono contemporaneamente il giocare, recitare, suonare, agire, attivare un ruolo, mettersi in gioco…
Creativo anche nel senso che, svolgendo attività di gruppo, essi , sviluppano nuove e personali relazioni con i coetanei, con l’altro sesso, e con gli adulti: in questo modo si misurano, si mettono alla prova, conoscono l’effetto che fa (l’emozione che si prova) nello stare insieme. che li aiutano a
crescere.

  1. G come Gruppo

Il laboratorio creativo promuove nei ragazzi la costruzione di un’identità sociale.
Proponendo di creare un gioco insieme, aiuta i ragazzi a percepirsi come gruppo, come qualcosa di più della somma delle parti (K.Lewin), come il risultato di un processo di integrazione durante il quale
ciascuno prende dentro di sé parti emotive dei coetanei e dona parti di sé ai compagni. Ciascuno, grazie al gioco di gruppo condiviso nel laboratorio, può avere così una chance in più per sviluppare dentro di sé un’identità sociale, un’identità plurale (D. Demetrio), frutto prezioso dell’incontro con le
parti di sé che l’altro rappresenta.
L’identità, potremmo sintetizzare, è un apprendimento sociale che porta a definire un sentimento di appartenenza, un Noi intrecciato ad un Io: è infatti il risultato di una relazione continua tra sé e l’altro;
è una costruzione individuale che avviene in un gioco di aspettative reciproche dentro un gruppo.
Moltiplicando le possibilità relazionali tra coetanei il laboratorio creativo favorisce la crescita delsenso d’identità sociale, provando a rimuovere barriere e blocchi, diffidenze nei confronti dell’altro, lo sconosciuto. Infatti i ragazzi del nostro tempo hanno sempre meno occasioni di confrontarsi,
competere e cooperare, con i coetanei. A loro è dunque particolarmente indicata un’occasione di incontro capace di diventare una palestra relazionale nella quale è possibile incontrare, a volte per la prima volta, qualcuno che non appartiene all’universo conosciuto.
Incontrare il diverso non significa solo conoscere da vicino un ragazzo che parla un’altra lingua. Nella nostra società policentrica, percorsa da una molteplicità di modelli di riferimento, ogni famiglia è
etnocentrica, e riconoscere nel proprio vicino uguaglianze e diversità è una strada che porta spesso ad un limite. Si tratta di una frontiera davanti alla quale i ragazzi si fermano: coloro che stanno al di qua vengono classificati come uguali, coloro che stanno al di là sono considerati estranei. Nella palestra
delle relazioni gruppi di ragazzi si contrappongono; impediscono l’accesso ad altri; tendono ad espellere coloro che non sono “uguali”: maschi contro femmine, grandi contro piccoli, veterani contro nuovi arrivati. Il laboratorio propone di creare una terra di mezzo, nella quale questi recinti possano
aprirsi, in cui si possa imparare a scontrarsi senza ferirsi, a uscire dai conflitti senza rancore, a provare il piacere della costruzione comune, a darsi regole condivise per giocare meglio.

  1. S come Set

Il laboratorio creativo aiuta il gruppo a costruirsi una propria pelle relazionale consentendo, attraverso l’attività ludica, lo sviluppo di esperienze emotive dentro la cornice del laboratorio.
Per i ragazzi costruire la propria identità passa attraverso l’accettazione della regola, del limite. Per essere o diventare qualcosa essi devono iniziare a popolare il proprio territorio interno di belle e buone cose, devono iniziare a costruire qualcosa dentro di sé.
Così il laboratorio creativo è istituito come un set 
a.Spaziale: è un luogo di incontro definito e riconoscibile come proprio. Potremo dire che è il muretto nel quale i ragazzi si ritrovano, come luogo di elezione e di appartenenza;
b. Temporale: ha un suo ritmo, ad esempio una cadenza bi-settimanale, un orario in cui esiste (apertura) e uno in cui non è possibile trovare nessuno (chiusura).
Il laboratorio vive dunque in un luogo fisico, ma è un luogo di relazioni: esso vuole rappresentare la creazione di un luogo interno, nel quale gli adolescenti sono invitati a entrare per costruire la propria avventura insieme.

  1. Aa come Animatore adulto

L’istituzione maggiore del laboratorio è la presenza dell’animatore adulto, che riassume in sé la tutela dello spazio e del tempo (fisico e relazionale), e la realizzazione del compito. Egli invita i ragazzi ad entrare, ad accettare il gioco proposto, a smettere di sostare sulla soglia in attesa di una realizzazione
magica dei propri desideri. Con la sua adultità capace di giocare e contemporanemente di assumere responsabilità l’animatore esercita una funzione di modeling nei confronti della quale i ragazzi agiscono numerose emozioni: il rifiuto, la rabbia, ma anche la stima e l’ammirazione.
Nella disponibilità di un adulto, ovvero di qualcuno che è già passato per la strada della crescita, a stare insieme a loro mettendosi in gioco, nel laboratorio si apre una via di comunicazione, fatta di azioni proiettive e introiettive. I ragazzi fanno così sentire all’animatore ciò che essi sentono, ed egli
prova ad rielaborare insieme a loro quei sentimenti mettendoli in gioco. Egli così testimonia ai ragazzi la possibilità di diventare grandi costruendo se stessi creativamente insieme agli altri, ma solo a patto di entrare, di stare dentro la cornice.
Sostare fuori dall’esperienza fa perdere la possibilità di vivere con gli altri l’azione creativa quanto entrarci permette di aprirsi nuovi orizzonti da esplorare. L’adolescente che sta sulla soglia è impegnato a chiedersi se starci o non starci, se mettersi alla prova oppure no. Ed è l’animatore che, 3
lanciando la sua proposta, lo aiuta ad entrare e a rinunciare al desiderio distruttivo di starsene fuori per accettare la sfida di mettersi in gioco.
L'animatore svolge una importante funzione narrativa nei confronti del gruppo: egli propone ai bambini di fare storie giocando a mettere in luce, a dare vita ai loro oggetti interni mettendoli fuori:
sono indizi, impronte; poi oggetti; infine veri e complessi personaggi.

  1. GS come GiocoStoria

Se il laboratorio creativo proponesse una situazione ludica ogni giorno nuova e piacevole, avrebbe finito per mostrare nel tempo la propria frammentarietà e ripetitività, costituendo per i ragazzi un cibo gradevole, ma poco nutriente per la crescita. La sua proposta di gioco invece aiuta i ragazzi a progredire, facendoli divenire attori protagonisti di un gioco-storia pensato come costruzione che si innalza nel tempo. Un gioco-storia capace di separare e collegare le tappe precedenti con le successive, realizzando un percorso che non ricomincia ogni volta da zero, ma che conserva le tracce della propria evoluzione.
Lo chiamiamo giocostoria, intendendo un gioco che, attraverso l’allestimento di uno sfondo narrativo va a collocare i vari eventi quotidiani (i bisogni e i desideri, le paure e i vissuti) in una griglia narrativa.
Nel giocostoria il compito del gruppo infatti, non è solo di giocare insieme, ma tende a far procedere i ragazzi ad un livello di integrazione superiore proponendo loro di realizzare qualcosa che parli di loro stessi, che racconti la loro storia.
Viene proposta un’ambientazione, cioè uno sfondo narrativo, uno spazio fisico e simbolico, all’attività del laboratorio: in questo modo si vuole fornire al gruppo una rete di comunicazione e comprensione reciproca, una possibilità di connettere i frammenti dell’identità integrando i vissuti dei ragazzi.
Il laboratorio diventa così un atelier di storie, un’officina in cui i frammenti di gioco e di vita vengono cuciti insieme per realizzare una storia di tutti capace di comprendere la storia di ciascuno. Una storia che aiuta a separare e integrare passato, presente e futuro, rinforzando il sentimento di identità sotto
il profilo dell’integrazione temporale.

  1. M come Motivazione

Per i ragazzi realizzare un prodotto collettivo, una giocostoria, non è facile.
Significa distinguere storie e desideri, realtà e sogni, radici e frutti, ma imparando a tenerli uniti in un’idea di progetto, di impresa da realizzare.
Si aiuta il ragazzo a crescere accettando la regola in maniera creativa. Infatti scegliere di fare una cosa significa abbandonare l’idea di poter realizzare ogni cosa, ma significa anche andare fino in fondo, realizzarla per davvero. Accettare un’impresa comune vuol dire cercare mediazioni creative con la
realtà dei tempi, con le risorse a disposizione, con le competenze di ciascuno, con le relazioni nel gruppo pur di arrivare alla fine, di veder realizzato concretamente il proprio desiderio. I desideri di abbandonare l’impresa sono in agguato, soprattutto quando essa mostra le sue parti deludenti:
l’oggetto non è mai come si desiderava, ma è sempre una sorpresa nata dall’incontro tra desiderio e realtà, io e gli altri… Più semplicemente potremmo dire che, come nella celebre favola di Esopo, il laboratorio basato sulla giocostoria intende aiutare a non disprezzare l’uva semplicemente perché
non si riesce a raggiungerla.
Tentando di tradurre le idee in realtà condivisa, il laboratorio aiuta i ragazzi a sopportare l’interposizione di un tempo d’attesa tra il desiderio e la sua soddisfazione. L’esperienza dell’assenza stimola lo sviluppo del pensiero; aumentando la capacità di mantenere l’oggetto del desiderio dentro
di sé, senza abbandonarlo. Il tempo dell’attesa è come un ponte tra la riva del desiderio e la riva della realtà. Accettare il limite imposto dalla realtà pensando la trasformazione è un grande problema dei ragazzi d’oggi, alle prese con la difficoltà a custodire il desiderio, corteggiare l’idea, trasformandola in
tenacia nel perseguire l’obiettivo. Saper leggere le esperienze parziali che la realtà fornisce in connessione tra di loro, aiuta e percerpirsi in maniera integrata e non frammentaria, aiuta a vedere una relazione tra sé e la realtà, tra il presente e il futuro. 

8. FN come Fili e Nodi del laboratorio

Possiamo individuare i momenti di snodo che segnano l’evoluzione del gruppo dentro il laboratoriocreativo.
In un primo tempo i ragazzi vengono invitati dall’animatore, attraverso giochi di presentazione, a portare qualcosa di sé, a lasciare una propria traccia, a costruire la propria carta d’identità.I ragazzi hanno così occasione di definirsi, di farsi chiamare per nome, di scegliersi un’identità con la quale mettersi in gioco. E’ la fase che prende il nome di “individuale” nel senso che ciascuno rappresenta, attraverso ciò che costruisce, ciò che è, esprime come si sente.
La seconda fase inizia nel momento in cui quegli oggetti, quelle identità vengono messe in gioco, vengono scambiate. E’ una fase che mette in campo una notevole carica vitale, piena di proposte, di energia, ma anche di conflitti, di rifiuti, di fughe. Ma restando dentro il laboratorio, in un terreno
simbolico, dentro la sfondo narrativo, si apprende a non agire in maniera pericolosa i propri sentimenti.
La terza fase realizza la sintesi, dichiara il livello di integrazione raggiunto dal gruppo.
Viene chiamata fase del prodotto collettivo: in esso sono racchiuse le esperienze fatte nel laboratorio;
ma sono racchiuse anche le esperienze dei compagni di laboratorio.
A volte ogni cosa sta insieme all’altra in maniera giustapposta (diciamo un’integrazione di tipo condominiale) in cui i prodotti dei singoli sono ancora riconoscibili ed estraibili.
A volte il livello di integrazione è maggiore, e il gruppo si trova davanti ad un prodotto nuovo, che è qualcosa di più della somma della parti. In ogni caso si ratta di un percorso integrativo utile alla crescita.

  1. T come Tribù

Per comprendere come si sviluppa l’integrazione sociale nell’arco di tempo in cui si articola il laboratorio, seguendo alcune riflessioni di Donald Meltzer, possiamo dire che il gruppo tende a mettere in atto dei comportamenti simili a quelli di una piccola tribù, cioè crea la propria avventura attraversando tappe simili a quelle che l’umanità ha passato nel percorso dalla preistoria alla storia.
Inizialmente i ragazzi sono sconosciuti, nemici l’uno all’altro in quanto pieni di paura di essere aggrediti. Nei primi tempi essi sviluppano forme di difesa del territorio dalle invasioni altrui, costruendo tane, case,segnando confini , innalzando steccati, postazioni di vedetta e simili.
A poco a poco, e grazie alla presenza di un mediatore, essi iniziano a dialogare e a costruire un proprio linguaggio, fatto di oggetti, comportamenti, parole che stabiliscono un più livello di scambio:
passata la ricerca delle condizioni di convivenza, ora si cercano le regole della comunicazione.
Nascono linguaggi segreti come esordio di una cultura del gruppo, fioriscono miti e ritualità d’ingresso e d’uscita dalla storia come segni di una appartenenza.
Nei laboratori si realizzano quiz, prove, giochi, inviti, destinati a chi arriva tardi: 
prove d’ingresso per conquistare il diritto a partecipare, a far parte.
L’esigenza di uno scambio umano è rappresentata in forma figurata attraverso la realizzazione di mercatini, fiere in cui ciascuno mette in mostra quello che realizza, ciò che ha da mettere in comune.
Dal baratto presto si passa al conio di monete valide dentro il gruppo capaci di regolare lo scambio . In questa fase ogni membro inizia a pensare il gruppo come un insieme di ruoli e aspettative, ovvero sente di partecipare, di esser parte di un insieme di relazioni.
Alla fine del laboratorio ogni gruppo porta a termine la propria storia creando un oggetto collettivo e ognuno realizza un oggetto individuale. A volte si tratta di una rappresentazione, di una canzone, di un murales, di una festa… L’oggetto condiviso sintetizza in sé il senso di appartenenza raggiunto, il
quale permette al ragazzo di sentire un gruppo interno, ovvero di pensare il gruppo anche quando i suoi amici non ci sono, di sentire i compagni e l’animatore come personaggi testimoni della propria vita, amici invisibili che egli può consultare in ogni momento giacchè sono diventati parte del sè.
Al termine dell’esperienza egli se ne torna a casa, portando dentro di sé questo oggetto interno e in mano un oggetto concreto: nel loro insieme essi simboleggiano la costruzione di un Io intrecciato ad
un Noi, ovvero la possibilità di continuare ad andare per altri mondi (in famiglia, a scuola) più ricco e forte di un senso nuovo di identità , capace di continuare a crescere .


Riferimenti Bibliografici

- D. Canciani, P. Sartori. Dire, fare, giocare. Armando 1997.
- D. Canciani. Appunti per un modello di laboratorio evolutivo, in Animazione Sociale, n. 4/93
- D. Canciani. Un laboratorio per imparare a giocare, in Cooperazione educativa, n. 4/95
- D. Canciani. Il laboratorio creativo ripercorre la storia della civiltà umana. Atti interni Cee
Venezia 98
- D. Canciani. Il gruppo è vita, tutto il resto è noia. L’esperienza grippale in una classe di
adolescenti, In Animazione Sociale n. 2/2005
- M. Delpiano. Una relazione che riconosca il cambiamento. In Animazione Sociale n.6-7/99
- D. Demetrio, D. Fabbri, S. Gherardi. Apprendere nelle organizzazioni. La N. Italia scientifica
- L. e R. Grinberg. Identità e cambiamento. Armando
- G.P. Quaglino, S. Casagrande, A. Castellano. Gruppo di lavoro, lavoro di gruppo. R. Cortina
- P. Sartori e P. Scalari (cura). Il bambino trasparente,. Franco Angeli
- Sartori e Scalari (cura) Adulto e Bambino. Una relazione per crescere. Marsilio ed., Venezia
91
- P. Sartori. Storie di ragazzi e ragazze. In Animazione Sociale n. 5/2000
- P. Sartori. Un laboratorio per diventare gruppo. Preadolescenti alla ricerca del proprio essere
sociale, In Animazione Sociale n.3/2005
- D. Winnicott. Gioco e Realtà. Armando
- P. Zanelli. Uno sfondo per integrare. Cappelli

(Contributo On-line)

sabato 15 ottobre 2011

COSTRUIRE E CREARE: LO SVILUPPO SECONDO MARIA MONTESSORI



Il pensiero pedagogico montessoriano parte dallo studio dei bambini con problemi neurologici per  espandersi successivamente allo studio dell'educazione per tutti i bambini. La Montessori stessa sosteneva che il metodo applicato su persone subnormali aveva effetti stimolanti anche se applicato all'educazione di bambini normali. 
Il suo pensiero identifica il bambino come essere completo, capace di sviluppare energie creative e possessore di disposizioni morali (come l'amore), che l'adulto ha ormai compresso dentro di sé rendendole inattive. L'adulto ha la tendenza a reprimere la personalità del bambino e spesso lo costringe a vivere in un ambiente di altra misura,  con ritmi di vita innaturali. 
Il periodo infantile è un periodo di enorme creatività, è una fase della vita in cui la mente del bambino assorbe le caratteristiche dell'ambiente circostante facendole proprie, crescendo per mezzo di esse in modo naturale e spontaneo.  
Con la Montessori molte regole dell'educazione consolidate nei primi anni del secolo cambiarono. I bambini subnormali venivano trattati con rispetto, venivano organizzate per loro delle attività didattiche. I bambini dovevano imparare a prendersi cura di se stessi e venivano incoraggiati a prendere decisioni autonome. 
La Montessori sviluppò tutto il suo pensiero pedagogico partendo da una costruttiva critica della psicologia scientifica, corrente di pensiero affermatasi nei primi anni del secolo. 
L'equivoco di base della psicologia scientifica era da ricercare nella sua illusione di fondo, secondo la quale erano sufficienti una osservazione pura e semplice e una misurazione scientifica per creare una scuola nuova, rinnovata ed efficiente. 
Il pensiero pedagogico montessoriano riparte dalla pedagogia scientifica: infatti l'introduzione della scienza nel campo dell'educazione è il primo passo fondamentale per poter costruire un'osservazione obiettiva dell'oggetto. L'oggetto dell'osservazione non è il bambino in sé, ma la scoperta del bambino nella sua spontaneità ed autenticità. Infine, della scuola tradizionale infantile,Maria Montessori critica il fatto che, in essa, tutto l'ambiente sia pensato a misura di adulto. In un ambiente così concepito il bambino non si trova a suo agio e quindi nelle condizioni per poter agire spontaneamente.

Montessori e la Casa dei Bambini

Nel 1907 fonda a Roma la prima Casa dei bambini, destinata non più ai bambini ritardati ma ai figli degli abitanti del quartiere San Lorenzo. Si tratta di una casa speciale, non costruita per i bambini ma è una “Casa dei bambini”. È ordinata in maniera tale che i bambini la sentano veramente loro. L'intero arredamento della casa è progettato e proporzionato alle possibilità del bambino. In questo ambiente il bambino interagisce attivamente con il materiale proposto, mostrandosi concentrato, creativo e volenteroso. Il bambino trova un ambiente per potersi esprimere in maniera originale e allo stesso tempo apprende gli aspetti fondamentali della vita comunitaria. Essenziale è la partecipazione dei genitori per la cura della salute e dell'igiene come prerequisito per la scuola. Il compito dell'insegnante è l'organizzazione dell'ambiente. Deve attendere che i bambini si concentrino su un determinato materiale, per poi dedicarsi all'osservazione dei comportamenti individuali. L'insegnante aiuta il bambino, lo sviluppo del quale deve compiersi secondo i ritmi naturali e in base alla personalità che il bambino dimostra. (fonte: wikipedia)
La Montessori realizza del materiale didattico specifico per l'educazione sensoriale e motoria del bambino e lo suddivide in:
  1. materiale didattico analitico, incentrato su un'unica qualità dell'oggetto, per esempio peso, forma e dimensioni il quale educa i sensi isolatamente.
  2. materiale didattico autocorrettivo, educa il bambino all'autocorrezione dell'errore e al controllo dell'errore, senza l'intervento dell'educatore.
  3. materiale didattico attraente, oggetti di facile manipolazione e uso, creato per invogliare il bambino all'attività di gioco-lavoro.
Il bambino è libero nella scelta del materiale. Tutto deve scaturire dall'interesse spontaneo del bambino, sviluppando così un processo di autoeducazione e di autocontrollo.      

La Maestra “Direttrice”
L’insegnante, nella scuola Montessoriana, ha il compito di “dirigere” il lavoro dei bambini, controllando che l’attività con il materiale strutturato si svolga secondo le regole previste: ella assiste dunque i bambini nello svolgimento dei vari compiti. Anche la disciplina è legata strettamente al materiale strutturato, perché l’alunno che non rispetta le regole viene lasciato da solo a osservare i compagni mentre lavorano con ordine; il silenzio è lo “strumento” più importante per indirizzare l’attenzione dei bambini verso la “direttrice”, la cui figura è dunque lontana da quella delineata dall’attivismo idealista e dall’Agazzismo, che prevedevano un’insegnante “protagonista” nei confronti dell’allievo, in comunione spirituale o affettiva con lui. La Montessori tratteggia piuttosto l’immagine di un’educatrice che padroneggia il materiale scientifico e cerca il più possibile di ritirarsi sullo sfondo, assicurando però le condizioni indispensabili di ordine e di quiete in cui i bambini possono apprendere.

(Contributo on-line)

martedì 11 ottobre 2011

JUNG E L'ARTE


L’attenzione all’immaginario che si trova alla radice dell’esplorazione dell’inconscio collettivo sta anche alla base dell’interesse per l’arte e la creatività.
C.G.Jung si inserisce in modo significativo nel dibattito sulle relazioni tra psicologia e arte, e il contrasto con Freud si fa sentire anche in questa tematica.

Jung evidenzia i rischi della metodologia freudiana, che rivolgendosi agli antecedenti psicologici rintracciabili alla base dell’opera, si allontana insensibilmente dal soggetto facendo di ogni artista un caso clinico e di ogni opera d’arte una malattia.

Crocevia tra l’aspetto archetipico, l’aspetto culturale e l’aspetto personale, la produzione artistica ha un posto importante nella ricerca junghiana.

Per Jung l’opera d’arte è una produzione che va oltre l’individuo poiché il suo significato non è rinvenibile nella condizione umana che lo ha prodotto.

“Per dare all’opera ciò che le è dovuto, è necessario che la psicologia analitica escluda completamente ogni pregiudizio di carattere medico, poiché l’opera d’arte non è una malattia è quindi richiede un orientamento del tutto diverso da quello medico”.

Continuando la citazione di Jung:

“L’orientamento esclusivo verso i fattori personali, che è richiesto dalla ricerca della causalità personale, non è assolutamente ammissibile per l’opera d’arte, poiché qui non si tratta di un essere umano ma di una produzione che va oltre l’individuo.

Si tratta di una cosa che non ha personalità e per la quale quanto è personale non può essere un criterio di giudizio.

La vera opera d’arte trae il suo significato particolare dal fatto che è riuscita a liberarsi dalla stretta e dall’ostacolo di quanto è personale, lasciando lungi da sé ogni elemento caduco e contingente dalla pura personalità”.

Ancora Jung:

“Il suo senso e il suo carattere ( parlo ovviamente dell’opera d’arte in ogni sua forma) sono in essa e non nelle condizioni umane che l’hanno preceduta; quasi si potrebbe dire che essa l’utilizza l’uomo e le sue disposizioni personali semplicemente come terreno nutritivo, impiegandone le energie secondo leggi proprie, e modellando se stessa secondo ciò che vuol divenire” (estratto da “Psicologia analitica e l’arte poetica”, 1922 ).

Se, infatti, il rischio dell’ermeneutica freudiana è rappresentato dalla tentazione psicobiografica, dalla riduzione dell’opera alla vita del suo autore, il pericolo in cui può incorrere tuttavia questo approccio junghiano consiste nella tendenza a considerare l’opera, specie quella forma di “creazione visionaria” di cui parla lo stesso Jung, come un terreno nel quale va unicamente rintracciata l’azione dei vari archetipi.

Scindere elementi personali, archetipici e culturali, privilegiando uno solo di questi fattori, non consente una piena comprensione del prodotto artistico.

Fermandosi sull’esame del processo creativo Jung giunge a istituire una polarità che designa come contrasto tra “simbolico” e “non simbolico”.

Di fronte all’intenzione creativa, che sorge e si sviluppa come una forza autonoma nell’artista, questi può reagire in due modi: o cercando di identificarsi con essa e di porsene a capo, plasmandola il più possibile secondo la propria intenzione, e si avranno allora forme più compiute ed esiti esteticamente più soddisfacenti; o accogliendo la sostanziale estraneità dell’opera come un processo che non può essere del tutto guidato e assimilato.

In questo caso insomma, l’opera si sviluppa nell’artista come un “complesso autonomo”, e quindi più facilmente si farà portatrice di un contenuto simbolico che Jung delinea in modo conforme alla voce Simbolo delle definizioni posto in conclusione a Tipi psicologici (1921).

Egli parla, infatti, di “….un linguaggio gravido di significati, le cui espressioni avrebbero valore di veri simboli, poiché esse esprimono nel modo migliore cose ancora sconosciute, e sono come ponti gettati verso una riva invisibile”.

Quindi, la psicologia analitica considera l’impulso creativo “un complesso autonomo” che ha una vita psichica indipendente dalla coscienza.

Le sue origini non sono da ricercarsi solamente nell’inconscio personale dell’autore, perché in questo caso si tratterebbe di arte “sintomatica” e non “simbolica” (pensiamo alle nevrosi dell’artista), ma vanno ricercate in quella sfera della mitologia inconscia le cui immagini primordiali sono date da quelle proprietà comuni all’umanità che l’inconscio collettivo conserva e attiva come possibilità di rappresentazione, per cui l’opera d’arte ci offre una perfetta immagine che, sottoposta ad analisi, si rivela nel suo valore di simbolo, di possibilità archetipica di immagini primordiali.

A questo proposito Jung precisa che “…non esistono rappresentazioni innate, ma possibilità innate di rappresentazioni che pongono limiti definiti alla fantasia più audace, cioè esistono categorie dell’attività della fantasia, in certo qual modo idee a priori di cui l’esistenza non è dimostrabile senza l’esperienza.

Esse appaiono solamente nella materia formata, quali principi regolatori della sua formazione; il che significa che noi non possiamo ricostruire il modello primitivo dell’immagine primordiale se non per mezzo di conclusioni tratte dall’opera finita.

L’immagine primordiale o archetipo è una figura, demone, uomo, o processo, che si ripete nel corso della storia ogni qual volta la fantasia creatrice si esercita liberamente.

Essa è in prima linea una figura mitologica. Esaminandola da presso, notiamo che essa è in certo qual modo la risultante di innumerevoli esperienze tipiche di tutte le generazioni passate. Si potrebbero scorgere i residui psichici di innumerevoli avvenimenti dello stesso tipo. Essa rappresenta una media di milioni di esperienze individuali e dà un immagine della vita psichica,suddivisa e proiettata nelle forme multiple del pandemonium mitologico”. (estratto da “Psicologia analitica e l’arte poetica”, 1922 ).

Quando la fantasia creatrice si esercita liberamente, dunque si scatenano queste immagini primordiali nelle quali risuona la voce stessa dell’umanità.

L’artista che le impiega è come se parlasse con mille voci, elevando ciò che è precario all’eterno.

Ogni relazione con l’archetipo, vissuta o espressa, è “commovente” nel senso che agisce sprigionando in noi una voce che, mediata dall’artista, lavora all’educazione dello spirito.

Un importante contributo sulla “personalità creativa” si trova in un famoso saggio di Neumann ( 1955) dal titolo “L’uomo creativo e la trasformazione”.

Riallacciandosi all’ipotesi di Jung sull’esistenza di un istinto creativo, Neumann delinea le caratteristiche sull’uomo creativo, il cui tratto principale è quello di muoversi mantenendosi in equilibrio tra lo sviluppo dell’Io e il mondo inconscio, sia nella sua valenza personale che collettiva.

L’individuo creativo rimane aperto all’inconscio, ma il suo contatto con l’immaginario non si traduce in un assorbimento, in un’inflazione, come invece accade ad esempio allo psicotico.

Proprio l’azione di un complesso personale diviene la via per accedere al patrimonio archetipico.

Neumann rileva un sottile legame tra creatività e sofferenza psichica.

L’artista tende a non sanare le sue ferite attraverso un progressivo adattamento al collettivo, ma, mantenendole aperte, utilizza la sofferenza quale mezzo per far affiorare dalle profondità psichiche la forza risanatrice della creatività.

L’esistenza di una correlazione tra sofferenza psichica ed arte, supportata anche dalla mia esperienza analitica nel corso di lavori di analisi su artisti, non si inquadra in un approccio causale che considera l’opera quale prodotto della malattia, ma va visto all’interno di una prospettiva finalistica che proietta ogni accadimento ed ogni fenomeno psichico in un progetto di cui è necessario scoprire il senso.

Creare, dunque, è per l’artista un tentativo di scoprire ed affermare la propria identità, guarendone scissioni e ferite, è un modo di entrare in relazione con l’inconscio, iscritto in quella generale attitudine creativa nei confronti della vita che costituisce una potenzialità presente in ciascun essere umano, attitudine sulla quale tutti gli junghiani sostanzialmente concordano.

Come Neumann vede, infatti, nella psiche uno spazio, un luogo di capacità e attività creative, così Hillman collega la creatività sia nei suoi aspetti costruttivi che distruttivi, con il “fare anima”, con quel processo di creazione, ingenerazione, risveglio, illuminazione ed individuazione dell’anima, intendendo con anima il regno dell’immaginale, quella prospettiva particolare delle cose, quella zona intermedia tra l’individuo e il mondo esterno, quel momento riflessivo nel quale gli eventi vengono trasformati in immagini.

L’immaginazione creativa è considerata dunque una componente psichica fondamentale da cui dipende la possibilità di prendersi cura dell’anima e delle sue immagini, cura che caratterizza l’approccio della scuola archetipica dell’arte.

Il profondo rapporto tra creatività ed individuazione, la visione dell’opera come luogo dove l’artista cura le sue ferite e lavora alla propria trasformazione, non solo possono essere viste attraverso un approccio misto all’arte che parte da prospettive teoriche differenti, ma in molti casi possono essere anche colti all’interno di un

modello iniziatico che rintraccia nel prodotto artistico quelle dinamiche di morte e rinascita al centro dei rituali di iniziazione.

Quindi, sia la prospettiva iniziatica che quella mistica adottata da Neumann nell’individuare le radici del fenomeno creativo in quella “Grande esperienza della realtà unitaria”, rendono visibile il rapporto esistente tra una funzione creativa della psiche, particolarmente operante nell’artista, ed una funzione religiosa, esprimendo intenti che verrebbero sostanzialmente a coincidere nello sforzo di rinnovamento da una parte e nel contatto con il numinoso dall’altra.

Merita qualche considerazione a parte la questione del rapporto tra arte e psicoterapia.

Jung è stato tra i primi, se non il primo, ad introdurre nella psicoterapia attività di carattere artistico (in particolare il disegno e la pittura). Lo spunto è da cercare nella sua autoanalisi; in esperienze importanti quali la stesura del Libro rosso, una messa in bella forma, attraverso disegni e testi poetici, dei contenuti dei sogni e delle fantasie sviluppate con la tecnica dell’”immaginazione attiva”.

A proposito della costellazione dell’ambito artistico da parte di Jung, in connessione o meno con le vicende dell’autoanalisi, vanno anche ricordati il disegno dei mandala, la stesura dei Septem sermones ad mortuos (1961) e le attività con la pietra, che Jung considerava materiale ricco di valenze simboliche.

Una volta fissata l’immagine, il problema nel lavoro analitico diviene quello di elaborarla.

Questa elaborazione procede lungo una duplice direzione.

Il “principio della comprensione” che mira ad estrarre subito il “senso”, o un senso dall’immagine; e il “principio della raffigurazione”, che invita ad indugiare presso di essa, arricchendola, dandole una forma sempre più rotonda, per cui il disegno può diventare dipinto, e il resoconto scritto, poesia o racconto.

Tutte questa pratiche, che io, ormai da tempo, svolgo all’interno del mio lavoro analitico con alcuni dei miei pazienti, costituiscono utili, e a volte necessari, esercizi di amplificatio dell’immagine, perché la mettono a fuoco meglio, ne precisano i tratti e le implicazioni, permettendole così di svolgere fino in fondo il ruolo terapeutico che è racchiuso proprio nella sua qualità di immagine, e che, in sintesi, è quello di tradurre in forma percepibile pulsioni, affetti ed emozioni.



Bibliografia

Jung C. G. , Psicologia analitica e arte poetica, (1922) in Opera vol. 10 (tomo primo) . Boringhieri Torino 1985.
Jung C. G. , Tipi psicologici, (1921) in Opera vol. 6. Boringhieri Torino 1988.
Jung C.G., Septem Sermones ad Mortuos, (1961) Giovanni Oggero, Carmagnola 1989.
Neumann E., L’uomo creativo e la trasformazione , Saggi Marsilio 1993
Neumann E., Storia delle origini della coscienza, Astrolabio Ubaldini Roma 1978.

(Contributo on-line)

mercoledì 5 ottobre 2011

LA PSICOLOGIA ANALITICA DI JUNG E LA CREATIVITA'


ARTE E PSICOLOGIA: CARL GUSTAV JUNG


Jung si è interessato a lungo dei processi psichici propri dell’attività artistica nei due scritti Psicologia analitica e arte poetica (1922) e Psicologia e poesia (1930), nei quali si opponeva all’interpretazione freudiana dell’opera d’arte e al suo metodo riduttivo che faceva dell’arte l’espressione di una sublimazione. Jung accentuava il carattere visionario dell’opera d’arte conferendo all’espressione artistica un significato che va oltre il vissuto individuale dell’autore e mette in contatto col mondo archetipico. L’espressione artistica non è la manifestazione di un malattia da curare attraverso la conoscenza delle cause, davanti ad un’opera d’arte non va cercato l’antecedente ma il senso dell’opera stessa. L’antecedente può essere indagato, ma solo se è di aiuto alla rivelazione di quel senso. Il rapporto tra l’opera e la causalità personale è lo stesso che c’è, diceva Jung, tra il terreno e la pianta che vi cresce sopra. La causalità personale non c’è in quanto l’opera va oltre l’individuo. Una produzione artistica diventa arte quando riesce a liberarsi del personale ed esprimere un qualcosa di universale. La pianta non è solo un prodotto della terra, essa è anche “un processo che sta a sé… la cui essenza non ha nulla a che vedere col carattere del terreno” . L’opera d’arte quindi ha un senso che non deriva dalle condizioni umane che l’hanno preceduta, anzi essa ha utilizzato l’uomo e le sue abilità come “terreno nutritivo”. Jung quando affermava tutto ciò non si rifaceva alle produzioni artistiche dettate da una intenzione artistica, egli pensava alle opere intese come “atto unico” sgorgato dalla mano dell’autore, le cui idee e/o immagini non sono un prodotto della sua intenzione, ma fluiscono liberamente come un fiume in piena e tutto viene espresso, anche ciò che non si sarebbe voluto esprimere. L’artista non si identifica col processo creativo, egli ne è sottomesso. 
L’opera non intenzionale è quella che viene utilizzata nella prassi psicoterapeutica. Attraverso un uso spontaneo delle tecniche espressive il paziente viene messo in condizioni di confrontarsi col proprio inconscio e di mettere in moto le proprie potenzialità psichiche. Il bisogno di un atto creativo artistico irrompe in un processo terapeutico inaspettatamente sotto forma poetica o pittorica o teatrale; i prodotti che emergono hanno spesso la profondità di significato della migliore arte. A volte nelle sedute di Teatro Terapia il paziente si prepara una sorta di canovaccio, attraverso delle immagini, delle pantomime e degli oggetti. Egli sale sul palco per comunicare intenzionalmente al gruppo un suo vissuto, ma è soltanto quando all’improvviso si libera del suo progetto teatrale, quando entra in contatto con le proprie emozioni, quelle che affiorano spontaneamente in quel momento unico ed irrepetibile, è soltanto allora che la sua creatività artistica rivela anima. Come negli artisti estroversi, come Jung li chiamava, così nei pazienti è l’inconscio che guida la coscienza. L’io pensa di essere libero, ma è solo un’illusione, “…pensa di nuotare” ma è la corrente che lo porta avanti. L’impulso creativo artistico è “irregolare” e “dispotico”. L’espressione artistica che a noi interessa nel processo terapeutico è quella “visionaria” come nel Faust quando, nella seconda parte, tutto si capovolge, e ciò che succede ci allontana dall’umano accadimento. Mentre strappiamo il velo della realtà ci inoltriamo nella visione di immagini profonde di altri mondi, di creature ignote e di abissi inesplorati. “Quando di notte attendo che tu giunga… sollevando il velo mi guarda… le dico: Sei tu che dettasti a Dante l’Inferno?”. In questi versi Anna Achmatova racconta di qualcosa di misterioso che sopraggiunge di notte, un ospite diletto ed atteso che fa raggiungere l’inferno, quello interiore che apre le porte della creatività. Questa immagine poetica secondo me rappresenta quel passaggio tra l’intenzione e l’eruzione creativa-artistica, e proprio questa immagine poetica fu scelta da una paziente in una performance per esprimere quella forza interiore molto profonda che sprigiona segni, colori e che comunica attingendo dalle radici più nascoste e fa raggiungere l’inferno.

(Contributo on-line)