sabato 23 aprile 2016

LA MALATTIA: DAL PENSIERO MAGICO AL PENSIERO SCIENTIFICO. Di Claudio Michelazzi






LA MALATTIA

DAL PENSIERO MAGICO
AL PENSIERO SCIENTIFICO
di
CLAUDIO MICHELAZZI



INTRODUZIONE


Se è vero che l'elaborazione di un saggio, dovrebbe servire anche per acquisire ulteriori conoscenze su uno o più argomenti e ristrutturare così il patrimonio conoscitivo , proponendo eventualmente nuove ed originali connessioni tra gli elementi dati in un'ottica di integrazione di pratiche e saperi che operi per un cambiamento di prospettive, ove necessario, all'interno di un paradigma scientifico oppure nei momenti di rivoluzione tra paradigmi, allora, chi scrive, può sicuramente affermare che, almeno per l'autore, questo saggio ed il suo argomento di fondo, sono stati illuminanti. Forte di una preparazione scientifica di base legata a quegli aspetti psicofisiologici, neuropsicologici e complessivamente biologici, che fondano il paradigma, oggi dominante nella comunità scientifica, delle neuroscienze, ossia il mondo “cervello”, quindi di una preparazione iniziale inserita in un'epistemologia prevalentemente riduzionista, deterministica e marcatamente bio-neuro-centrica, preparazione scientifica arricchita successivamente da saperi e pratiche cliniche ed antropologiche di più ampio respiro, a chi scrive, mancava certamente un cammino di approfondimento, anche in altre direzioni. Un percorso umano e scientifico altamente formativo che ha consentito all'autore di conoscere le ipotesi basilari e quelle più all'avanguardia inerenti l'altra faccia della medaglia, ossia il mondo “mente”, delle scienze psi, faccia composta da ipotesi, ricerche, studi e dati, articolati all'interno di percorsi scientifici legati ai più moderni paradigmi come il paradigma sistemico, il paradigma della complessità ed il paradigma olistico. Un grande cambiamento generale di prospettiva e di metodo, dunque, che ha portato chi scrive ad aprirsi ad altri orizzonti scientifici e conoscitivi, propri anche di altre culture, considerando utile l'integrazione di contributi provenienti da esperienze altre e da diverse letture dei fenomeni, in un'ottica di cammino di crescita che da un pensiero di matrice “positivistico-scientista” è andato articolandosi fino ad un più moderno pensiero “sistemico-relativistico-fenomenologico”. Di grande interesse l'argomento principale di questo saggio, il concetto di malattia dalla dimensione religiosa alla dimensione scientifica ed il corso universitario, inserito nel dottorato magistrale di psicologia clinica, da cui è scaturito questo argomento, il corso di sanità pubblica e medicina di comunità. Attraverso l'analisi, prevalentemente storica ed etno-antropologica, e lo studio della dimensione culturale del concetto di malattia, l'autore della presente trattazione, ha voluto poter cogliere il passaggio dalle conoscenze e competenze strettamente bio-mediche e socio-sanitarie date da un corso incentrato sulla medicina ad una più ampia gamma di rimandi e suggestioni che coinvolgessero le scienze umane in toto, consapevole che, probabilmente, da un punto di vista epistemologico e complessivo, il metodo scientifico più funzionale e mirato e la soluzione empirica più proficua oggi, trovino casa nell'integrazione di conoscenze e competenze e nell'idea di network di saperi e pratiche. Non possiamo più permetterci, in modo esclusivo ed autoreferenziale di separare, dividere, ridurre ai minimi termini il corpo o la mente. All'era delle grandi analisi deve, necessariamente, collegarsi, oggi, l'era delle grandi sintesi. Anche i processi bio-molecolari che si scatenano tra un neurone e l'altro rappresentano, oltre ad un dato biologico e naturalistico di base, un fenomeno culturale profondo per ogni scienziato che, nello studiare quei processi, mette in gioco questo fenomeno culturale in un cammino di interconnessione continua tra dati empirici e dati culturali. La prassi medica in toto, non è legata solo a fenomeni fisiologici, biologici e anatomo-patologici, ma, oggi più che mai, anche a fenomeni psicologici, sociologici, economici e politici, così come il corpo umano, a parere di chi scrive, non è meramente un organismo biologico ma, un vero e proprio “organismo culturale” dove la parola “organismo” segnala l'insieme degli elementi biologici e la parola “culturale” l'insieme degli elementi psico-socio-antropologici. Insiemi strettamente correlati ed intrecciati. La malattia, dunque, come fil rouge di questo lavoro, la malattia come momento dove gli aspetti biologici colpiti dalla patologia, aspetti biologici e fisiologici spesso silenti o scarsamente percettibili, in stato di salute, richiamano l'attenzione dell'uomo, la sua mente, la sua riflessione, e questo potente richiamo produce cultura, religiosa o scientifica, che si diffonde e permea i popoli, le comunità, le epoche ed i secoli. La malattia come vasto ponte di collegamento tra bios ed ethnos; la malattia anche come cura e cultura. La malattia come esperienza di vissuti umani, vissuti che producono civiltà.
Nel primo capitolo della presente trattazione, verrà presentata una panoramica generale, epistemologica ed antropologica che, lungi dal voler essere, per forza di cose, sistematica ed orientata ad una sola teoria, vuole proporre una riflessione che si arricchisca di svariati contributi scientifici, indirizzati in più direzioni, questo per consentire una valutazione complessiva dei contributi di ricerca in materia. Avendo più linee guida, anche contrastanti, riusciamo ad orientarci meglio, nell'ottica di una mappa delle conoscenze che ci consenta di poter esplorare al meglio i territori e le vastità di cui è costituito l'argomento principale della tesi. Dal punto di vista epistemologico, delle teorie sulla conoscenza scientifica, fondamentale diviene, a parere dell'autore, il contributo di Thomas Kuhn, principalmente come chiave di lettura dei processi di formazione della scienza in un'ottica di integrazione delle conoscenze e dei saperi, anche in modo creativo ed intuitivo, da paradigma a paradigma, di rivoluzione in rivoluzione. Vengono poi presentati i contributi di Charles Darwin, e del filone di ricerca che si dipana a partire dalla sua teorizzazione, consapevoli del fatto che, considerevoli sono stati, e sono, gli influssi culturali in senso ampio che la teoria naturalistica dell'evoluzione ha prodotto e produce anche oggi. Per quanto concerne il campo bio-medico, sono stati proposti, nel momento introduttivo del primo capitolo, degli interessantissimi contributi inerenti le discipline umanistico-antropologiche, le Medical Humanities, che si occupano di supportare e di influenzare, nel senso di un ampliamento di prospettive non solo riduzionistiche, deterministiche e “biologistiche” ma anche umanistiche e sociologiche, i processi di conoscenza e le prassi della medicina occidentale odierna che, procedendo, spesso, solamente nella dimensione fisiologica ed anatomo-patologica, tende a “disumanizzare” il corpo dell'uomo, influenzata ancora dal paradigma dualista di cartesiana memoria. Per chiudere il primo paragrafo del capitolo, l'autore ha voluto proporre, come spunto per un orientamento epistemologico, gli enormi contributi di uno scienziato, Carl Gustav Jung, psichiatra e psicologo la cui opera, chi scrive, reputa di enorme interesse, che è riuscito a tracciare dei percorsi di ricerca e di prassi nell'ambito di una sintesi complessiva tra approccio biologico ed analitico ed approccio olistico ad antropologico. Ultimo, ma non ultimo, il contributo di un grande psicologo italiano, Luigi De Marchi, scienziato dalle enormi capacità riflessive e di sintesi, la cui interessante ipotesi dello shock primario viene, in questa sede, riproposta come considerevole punto di vista ed ulteriore linea guida.
Nella seconda parte del primo capitolo, è presentata una carrellata di riflessioni teoriche articolate dai principali antropologi e da uno psicologo, a partire dall'Ottocento, sui concetti di malattia, di magia e di religione. In successione, chi scrive, ha voluto proporre i contributi scientifici di Lucien Lévy Bruhl, Marcel Mauss, Bronislaw Malinoswski, Ernesto De Martino, James Frazer e Wilhelm Reich, sempre avendo ben chiara l'idea di fondo della presente trattazione, che la varietà di riferimenti proposti, possa servire come strumento essenziale, come rete di conoscenze utile per percorrere in modo completo, un territorio vasto e frastagliato come quello del rapporto salute-malattia.
Nel secondo capitolo di questo saggio, capitolo centrale per quanto riguarda l'analisi e la riflessione sull'evoluzione del concetto di malattia, dalla dimensione religiosa alla dimensione scientifica, l'autore propone una disamina dettagliata degli aspetti storici ed antropologici legati ai concetti di salute e malattia per come sono andati articolandosi nella civiltà occidentale, dai primordi alla contemporaneità. La panoramica presentata è stata articolata tenendo in considerazione la complessità dei percorsi storici ed antropologici, dove la concezione del sacro, gli aspetti magici, la prassi medica, la Rivoluzione scientifica, il metodo sperimentale, l'osservazione clinica, l'idea di malattia, non possono essere conosciuti in modo settoriale e disgiunti gli uni dagli altri, ma come elementi intrecciati in una reciproca influenza, come percorsi di conoscenza e di definizione dei fenomeni, interagenti, come pietre e mattoni fondamentali per la costruzione di quell'edificio chiamato “cultura”. Ampio spazio, dunque, è stato dato, nella presente tesi, agli sviluppi delle idee di salute e malattia nell'ambito della cultura occidentale, questo perché, in un periodo di consistente globalizzazione e “rimescolamento” di culture, l'autore ha ritenuto opportuno, ritornare alla riflessione sulla propria civiltà, non certo per paura del diverso o per beceri opportunismi politici di varia natura, ma perché consapevolmente convinto che solo non rinnegando la propria provenienza, come intenderebbero fare spesso i promotori di un multiculturalismo di maniera, e presentando all'Altro la propria cultura e la propria appartenenza, possa esistere il riconoscimento reciproco. Io posso esistere culturalmente in quanto uomo occidentale che si confronta con altri uomini che possono esistere culturalmente in quanto uomini di altre civiltà e culture. Un territorio è fatto anche di confini, soprattutto psicologici, che delimitano il proprio essere, non di muri, si badi bene, ma di reciproci confini-riconoscimenti.
Il terzo capitolo di questa trattazione è dedicato alla presentazione del concetto di malattia in altre culture, nello specifico in alcune importantissime culture asiatiche, come quella cinese e quella indiana, e nelle culture dell'America precolombiana. Per quanto concerne le medicine asiatiche, si è voluto riflettere sul paradigma olistico che impregna quasi costantemente le riflessioni e le pratiche sia cinesi che indiane. Fin dai primordi, nelle grandi civiltà asiatiche, l'idea di una relazione funzionale tra uomo e cosmo è stata alla base di ogni teorizzazione e di ogni prassi medica e questo assunto basilare ha consentito, nel corso dei millenni, di elaborare visioni e strategie terapeutiche capaci di considerare l'uomo come parte del tutto ed in stretto contatto con il tutto. Per quanto concerne le medicine amerindie, l'autore, ha proposto una riflessione, presentando alcuni aspetti specifici, sulla figura dello sciamano che grande rilievo ha avuto nelle culture precolombiane. Figura-ponte, collegamento tra dimensioni, lo sciamano è il detentore del sapere medico e curativo di una medicina a cavallo tra magia, religione ed empirismo terapeutico funzionale.
Forte, dopo l'analisi comparata anche di questi momenti culturali extra-occidentali, è stata la consapevolezza che lo strumento, il paradigma più affine per la sensibilità e per la visione di chi scrive, rimane senza dubbio quello andato articolandosi a partire dal percorso umano e scientifico di Carl Gustav Jung, negli aspetti psicologici e psicoterapeutici individuali e negli aspetti antropologicamente più transpersonali. Interessante, come ipotesi inerente i vissuti primordiali comuni al genere umano, potrebbe essere, secondo l'autore, una riflessione complessiva che prenda in esame, almeno nei loro aspetti più culturali, se non possibile, ovviamente, negli aspetti scientifici, anche dottrine vitalistiche come la Naturphilosophie der Frühromantik , la filosofia della natura del primo romanticismo con l'idea di forma archetipica o Urform, scalzate da un o scientismo positivista successivamente imperante e poi dimenticate o riprese sporadicamente da qualche corrente di pensiero definita irrazionalista, dottrine che, seppur datate, possono ancora fornire utili suggestioni e rimandi.
Nel quarto capitolo di questa trattazione, l'autore, facendo riferimento all'interessante saggio di Giorgio Cosmacini dal titolo “ Le spade di Damocle – Paure e malattie nella storia”, ha proposto una carrellata fatta di dati e di elementi storico-antropologici sulle grandi epidemie della storia, a partire da lebbra e peste fino ad arrivare all' AIDS. Questa panoramica finale è stata presentata perché chi scrive ha reputato utile riflettere sul macrocosmo delle grandi patologie della storia e sui suoi collegamenti bio-medici, sociali, economici, politici e psicologici, in relazione ai microcosmi legati ad ogni vissuto individuale di malattia o a quello di ogni piccolo nucleo comunitario. Come ha reagito l'umanità fatta di diverse classi sociali, di professionalità svariate, di comunità differenti, di culture disparate, nel corso della storia, alla morte ed alla distruzione date dalle patologie? Ecco l'affascinante quesito che, per chi scrive, resta come leit-motiv del presente lavoro. Il capitolo si conclude con una riflessione sulla contemporaneità globalizzata e la sua predisposizione a relegare, a nascondere e negare morte e malattia. Cammino intrapreso dapprima da culture avanzate come quella occidentale e poi diffuso in diverse aree del mondo. Cammino che rischia di portarci sull'orlo di un abisso, fatto di iper perfezionismo, di desiderio di eterna giovinezza fine a se stesso e di negazione della fragilità umana e della morte.

CAPITOLO I

PREMESSE EPISTEMOLOGICHE, METODOLOGICHE E PANORAMICA ETNO-ANTROPOLOGICA COMPARATA.

1.1 PREMESSE EPISTEMOLOGICHE E METODOLOGICHE





Nell'accingerci a presentare l'evoluzione del concetto di malattia, e nello specifico della prima parte di questo saggio, del concetto di malattia nell'ambito delle culture occidentali, vogliamo presentare, in prima battuta, alcune linee guida di natura epistemologica, scientifica ed antropologica, che potranno fungere da coordinate per la comprensione e l'articolazione di tutto il percorso di analisi della complessità che il tema malattia porta alla luce. Premesse necessarie, che in questa sede non vogliono avere nessuna pretesa di sistematicità, che possano essere utilizzate come lenti di ingrandimento per focalizzare l'attenzione su aspetti particolari e tentare di aiutare la comprensione complessiva del problema trattato. Premesse volte a sostenere uno sguardo critico ed analitico su un percorso articolato come quello di malattia che ha toccato, e tocca, svariati aspetti della complessità dell'uomo, aspetti studiati da discipline come medicina, biologia, psicologia, antropologia, etnologia e da teorie della conoscenza e dei processi scientifici. Premesse che, pur in un contesto di studio comparato tra svariate culture come vuole essere la presente trattazione, non possono prescindere dalle posizioni scientifiche, andate articolandosi nel corso dei secoli della storia occidentale, posizioni che hanno influenzato ed influenzano ogni formazione ed ogni prassi in ambito scientifico, anche quella di chi scrive, che essendo vicino ad una formazione e ad una sensibilità intellettuale di impianto fenomenologico, vuole però sottolineare la consapevolezza della necessità e della insostituibilità di un approccio critico, non dogmatico e di una sospensione metodologica del giudizio a priori.
Primo percorso chiave per una lettura precisa, incastonata nella contemporaneità del pensiero epistemologico sul divenire della ricerca scientifica è la riflessione di Thomas Kuhn (1922-1996).
Nel 1962, nel suo capolavoro dal titolo The Structure of Scientific Revolutions,
l'epistemologo Thomas Kuhn, descrisse le tappe fondamentali del processo che costituiva la teorizzazione di una innovativa proposta di Scienza. Secondo lo scienziato americano, le basi fondanti una nuova e solida epistemologia erano da ricercare nei concetti di paradigma e di scienza normale.
Per scienza normale, Kuhn intende una stabile ricerca costruita su risultati consolidati da percorsi scientifici del passato, validati da una comunità scientifica che, per in un determinato periodo di tempo, riconosce questi risultati come fondamenta della sua prassi ulteriore. Capisaldi della scienza normale sono i trattati prodotti e i principi fondanti che non vengono messi in discussione e vengono considerati soprattutto in base alla loro applicabilità e alla applicabilità delle ipotesi prodotte nell'ottica di una riconferma seriale. Kuhn sostiene che persino gli strumenti atti alla misurabilità in ambito sperimentale, sono elaborati nell'ottica dei principi della scienza normale ,tendendo così a confermare quella rete di concetti costituitasi in paradigma.
Con il termine di paradigma, Kuhn, intende indicare conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e di soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca1
Ed è proprio la novità di un paradigma ad attrarre nuovi gruppi di scienziati distaccatisi da precedenti comunità scientifiche per tentare nuove strade nella ricerca. Tuttavia, lo scienziato americano, scardina la visione “romantica” della scienza, legata ad aspetti “eroici” e “mitopoietici”, teorizzando l'opera continua di cesellamento e ripulitura di ipotesi e teorizzazioni portata avanti dalle comunità scientifiche nell'ambito di un determinato paradigma.
Il concetto però più innovativo di Kuhn è legato all' idea di rivoluzione scientifica .
Per lo studioso, quando un determinato paradigma, universalmente accettato, entra in crisi a causa della falsificazione delle ipotesi costruite su di esso, si apre il periodo della rivoluzione scientifica, dove percorsi innovativi di ricerca daranno alla luce ulteriori e diversi nuovi paradigmi, da accettare o rifiutare da parte delle comunità scientifiche. Diversamente dal periodo della scienza normale , dove si sviluppano ricerche atte a sostenere il paradigma dominante, durante una rivoluzione scientifica ,centro della ricerca divengono le ipotesi atte a falsificare una teoria. I nuovi paradigmi nasceranno così sganciati dai risultati della scienza precedente e fuori da una visione “idealistica”, “sommativa” e “progressiva” del sapere scientifico, in stretta connessione, piuttosto, con l'abbandono delle vecchie ipotesi, senza sminuirne l'importanza, e degli schemi precostituiti del paradigma dominante.
La nuova comunità di ricercatori, quindi, si attiverà per trovare dati e risultati sperimentali alla luce del nuovo paradigma, facendo rientrare la fase rivoluzionaria sui binari della scienza normale e producendo ipotesi e manuali a sostegno di un nuovo percorso intrapreso e pronto, dopo il tempo occorrente ad una nuova falsificazione e ad una nuova rivoluzione. L'elaborazione epistemologica di Kuhn, ci consente così di poter osservare, nell'ambito di questa trattazione, la storia e l'evoluzione della medicina e del concetto di malattia come fasi di alternanza tra scienza normale e rivoluzioni scientifiche, tra ricerca per ampliare ipotesi e conoscenze relative ad un determinato paradigma e la sua successiva falsificazione e disconferma a favore di nuovi paradigmi. Qualche esempio, i passaggi rivoluzionari tra i paradigmi, umorale (dalle origini fino al XIV° secolo), anatomopatologico (dal XIV° al XVII° secolo), organico (XVIII° secolo), tissutale (XVIII° secolo), cellulare (1858), istologico (XIX° secolo), microbiologico (1880-1884), biochimico (1905) e genico (1953).
Un secondo percorso importante come premessa epistemologica e metodologica per avere diverse chiavi di lettura inerenti lo sviluppo del concetto di malattia, è l'orientamento scientifico di ricerca, da poco concretizzato, ma fondatosi su un paradigma tra i più potenti mai articolati durante la storia della scienza ossia la teoria dell'evoluzione di Charles Darwin (1809-1882), della medicina evoluzionistica.
Questa scienza, basata sulla teoria evoluzionistica, si fonda sugli apporti di diverse discipline come la biologia evolutiva, l'antropologia, la genetica e la microbiologia e la psicologia darwiniana. Scopo principale di questo percorso interdisciplinare di ricerca è principalmente trovare i significati adattivi della vulnerabilità del corpo umano alla malattia. Diversamente dall'approccio medico moderno che ricerca soprattutto il come della patologia, la medicina evolutiva contemporanea ricerca soprattutto il perché.
Attraverso l'approccio scientifico di orientamento evoluzionistico, medicina, psicologia e psichiatria darwiniane, hanno proposto una chiave di lettura estremamente interessante inerente i concetti di salute e di malattia, grazie anche alla incredibile mole di dati e risultati emersi dalla ricerca, chiave di lettura per noi avvincente anche per l'importanza riservata alla fondamentale interazione tra corpo e mondo, con tutte le enormi implicazioni scientifiche che questa relazione comporta.
Fermi restando, per questo paradigma di ricerca, i concetti fondamentali di selezione naturale, adattamento, funzione, causalità remota, meccanismi prossimi, fitness individuale ed inclusiva, sviluppo, altruismo e comportamento prosociale, molti sono stati i nuovi risultati e molte le ipotesi innovative sondate attraverso il metodo sperimentale che, negli ultimi anni, hanno arricchito il patrimonio di conoscenza della comunità scientifica.
Partendo dal presupposto che l'evoluzione biologica non è un processo guidato verso qualche obiettivo prestabilito, da leggere in chiave teleologica, ma le risposte adattive ai cambiamenti delle condizioni di vita, cioè l'acquisizione di modificazioni fenotipiche che consentono la sopravvivenza a fronte di nuove condizioni ambientali dipendono dalla variazione genetica disponibile e dai fattori che agiscono selettivamente (selezione naturale), i teorici e gli studiosi legati alla medicina evoluzionistica, hanno ipotizzato come la biologia umana, insieme a quella di qualsiasi organismo vivente, possa contenere numerose imperfezioni che tendono a manifestarsi come, o predisporre a, condizioni da cui possano derivare sofferenze e rischi per la sopravvivenza: le malattie, appunto2.
Grazie alla teorizzazione dei tratti, ossia fenotipi misurabili o ipotizzabili, che hanno funzioni specifiche e risultano influenzati dall'informazione genetica e che possono essere adattivi o disadattivi, gli studiosi hanno potuto proporre, come importanti esempi di tratti da definirsi disadattivi che possono trovare una spiegazione nelle pressioni selettive ambientali del passato, le numerose variazioni genetiche responsabili di limitazioni funzionali letali o non letali, queste ultime come forma di protezione contro specifici agenti infettivi (citiamo a titolo di esempio interessante le emoglobinopatie che sono entrate nel pool genico delle popolazioni vissute in ambienti nei quali infieriva la malaria grave, da Plasmodium falciparum)3
Attraverso la teorizzazione di matrice evoluzionistica, gli scienziati hanno potuto ipotizzare ed articolare un vasto sistema di lettura dei fenomeni, un sistema integrato e con un ampio raggio di azione che ha coinvolto e toccato diversi campi di ricerca, dalla microbiologia fino alle scienze umane. In sostanza, il principio fondamentale di questo paradigma è legato all'ipotesi inerente l'uomo moderno come risultato, imperfetto e quindi straordinario, di quattro milioni di anni di evoluzione4, evoluzione che è stata possibile grazie alla estrema plasticità dell'organismo/uomo rimasto in interazione costante con l'ambiente, in un processo di estrema influenza reciproca.
Un terzo percorso fondamentale per la comprensione dello sviluppo del concetto di malattia nelle culture umane, è dato dalle ricerche e dagli studi in ambito antropologico. Tratteremo in un paragrafo successivo alcuni contributi dei padri dell'etno-antropologia moderna, in special modo, le ipotesi sullo sviluppo e sulla diversificazione dei pensieri magico, religioso e scientifico. Grazie allo strumento operativo importantissimo dell'etnologia, la comunità scientifica è riuscita ad articolare prassi di ricerca, ipotesi e teorizzazioni nell'ambito di una nuova disciplina integrata, l'antropologia medica.
Questa disciplina scientifica, fortemente impostata sui processi di ridefinizione dei concetti di salute, malattia, corpo, cura, dolore in rapporto alla variabilità dei contesti culturali e sociali di riferimento e su metodologie comparative e ricerca sul campo, si occupa dello studio, sul versante socio-culturale, dei fenomeni di salute e malattia, in una chiave integrata biologica e storico-sociale.
Secondo Vittorio Lanternari (1918-2010), l'antropologia medica, così come altre discipline (Etnomedicina, storia della medicina popolare, etnopsichiatria, psichiatria transculturale e così via), nascono dalla crisi della scienza e della pratica medica nelle società occidentali e dal diffuso malessere sociale nei confronti di una medicina sempre più distaccata dal paziente5.
Quindi, secondo Domenico Volpini (1938), l'antropologia medica ha evidenziato come ogni individuo in ogni contesto sociale percepisca, interpreti ed affronti la malattia e la salute con modalità strettamente connesse al vissuto personale e all'ambiente socio-culturale di cui è parte6.
Grazie all'elaborazione e all'articolazione di diversi costrutti teorici nell'ambito dell'antropologia medica (a titolo di esempio citiamo la teoria medico-ecologica, formulata da A. Alland nel 1970, la teoria culturale, dovuta ad A.Kleinman e la teoria critica, sviluppatasi negli ultimi 15 anni), la disciplina antropologica ha messo in luce le complesse dinamiche che intervengono a livello sociale e culturale nell'attribuzione di senso alla malattia. I codici culturali dei sistemi terapeutici, sia in ambito occidentale che in altri ambiti, possono quindi essere riconosciuti ed interpretati, in modo rigoroso, all'interno di un discorso socio-culturale più ampio che tenga conto delle dinamiche relazionali, delle prassi tecnico-scientifiche e dei contenuti valoriali e normativi del suo specifico contesto sociale7.
Un grande contributo recente delle scienze umane alla riflessione e alla pratica in ambito sanitario, è inerente alle Medical Humanities, un insieme di discipline che analizzano le modalità attraverso cui le scienze umanistiche (storia, etica, filosofia, sociologia, antropologia e così via.) possono influenzare l’educazione e la pratica medica.
Grazie al contributo delle scienze umane e sociali e, in particolare, dell’antropologia medica, su tematiche quali, ad esempio: i significati simbolici degli stati di salute e malattia; i rapporti di forza (socio-politici, culturali ed economici) che intervengono nella relazione medico-paziente; le prassi e le ideologie terapeutiche dei vari sistemi di cura le Medical Humanities hanno sviluppato una consapevole ridiscussione del paradigma biomedico occidentale.
Secondo Hevans e Greaves, le Medical Humanities hanno consentito di migliorare le capacità del medico, dell’infermiere, del farmacista, del dirigente sanitario di comunicare con i pazienti e, più ingenerale, con gli utenti dei servizi sanitari; penetrare più in profondità nella narrazione dell’esperienza di disagio o di malattia del malato; comprendere meglio il vissuto del paziente, soprattutto nel caso di patologie ad andamento cronico; perfezionare le capacità di fare diagnosi; ricercare percorsi diversi per promuovere il benessere e ridurre l’impatto della malattia o della disabilità sulla qualità di vita del malato; ed infine, evitare il rischio di una pratica medica troppo prescrittiva, non soltanto dal punto di vista farmacologico8.
Per finire questa carrellata di contributi epistemologici, certamente non esaustiva per motivi di spazio e, di questo, ci scusiamo, presentati quasi come suggestioni e dispositivi intellettuali, di natura diversa, atti ad aiutare, in parte, lo studioso nella comprensione di fenomeni complessi inerenti la salute e la malattia, vogliamo proporre alcune ipotesi nate e sviluppate nell'ambito delle scienze psichiatriche e psicologiche. Ipotesi e teorie elaborate da notevoli studiosi e ricercatori, che hanno dato un contributo interessante alle scienze antropologiche, studiosi ben consapevoli dell'importanza di interdisciplinarietà e integrazione di apporti che fanno delle scienze umane un patrimonio di conoscenza e di sperimentazione tra i più completi nel panorama scientifico, passato ed attuale.
Tra i primi grandi ricercatori, provenienti dalla comunità scientifica medico-psicologica, a sperimentare un approccio integrato tra biologia, psicologia e produzioni culturali dell'uomo, sicuramente possiamo trovare il grande psicologo svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961), fondatore della psicologia analitica i cui assunti e le cui pratiche sono state parte fondamentale dello sviluppo intellettuale e della formazione professionale di chi scrive.
Formatosi in ambiente medico-psichiatrico ed interessatosi presto alle innovative proposte freudiane inerenti la teoria psicoanalitica, lo psichiatra svizzero si impose, alla comunità scientifica, come valente sperimentatore, clinico e teorizzatore. Dopo essersi allontanato dalle proposte scientifiche di Sigmund Freud (1856-1939) il grande analista di Zurigo, costruì, grazie ad una prassi clinica e di ricerca, rigorosa, empirica ed estremamente critica, una teorizzazione limpida e fortemente articolata, dove, accostando i processi psicologici innescati da complessi di natura conscia ed inconscia, appartenenti alla sfera individuale a processi transpersonali fondamentalmente collettivi ed archetipici, forti risultano le connessioni tra l'apparato psichico di ogni singolo uomo e le produzioni culturali, simboliche e mitologiche, patrimonio dell'umanità.
Ai fini della nostra trattazione, risulta, però, importante riflettere sulla visione terapeutica di Carl Gustav Jung, ossia sul concetto innovativo dell' archetipo del terapeuta come guaritore ferito, di colui che tiene in sè due poli opposti: il guaritore e il ferito. E così viene alla luce la figura di Chirone che nella mitologia era un centauro figlio illegittimo di Crono e Fillira, immortale. Più saggio e benevolo di tutti i centauri fu grande esperto dell’arte medica e insegnante perfino di Asclepio, padre della medicina e di Eracle.
Dopo una grave ferita, inguaribile, Chirone impara l’arte della cura e , tenendo sempre presente la propria sofferenza, capisce come essa può divenire simbolicamente lo spazio attraverso cui il dolore degli altri può entrare in lui. Come Chirone, così il terapeuta può comprendere la sofferenza dell’altro solo riconoscendo e integrando la propria sofferenza, non come debolezza o fragilità, ma come forza e strumento per poter lasciare entrare ed entrare in contatto con l’altro. Seguendo questa idea fondamentale, Carl Gustav Jung, si interessò fortemente a figure di guaritori proprie del patrimonio antropologico e culturale dell'umanità e nello specifico della figura dello sciamano. La visione sciamanica come primissima forma di contatto con il sacro e al tempo stesso di cura e di guarigione si allontana dalla nostra classica visione occidentale. Per diverse culture non occidentali, la salute è un fatto globale, è una condizione di benessere, uno stare bene nel corpo e nello spirito, è un giusto equilibrio tra le forze della natura e le forze dello spirito. Questo equilibrio può essere soltanto il risultato di uno stretto rapporto con entrambi gli ambiti della realtà: lo spirito deve armonizzarsi con il corpo, con il mondo circostante, con la natura, con gli altri e con gli spiriti del mondo. Una visione che ricorda, per certi aspetti, alcune teorizzazioni nate in ambito occidentale come la concezione olistica della natura psicosomatica dell’uomo e quella della cultura neoplatonica rinascimentale con la sua visione dell’anima mundi, dell’anima del mondo. Se nella sua trance lo sciamano si reca nell’aldilà, nei «mondi altri» per strappare l’anima che è stata rubata all’ammalato, ciò sta a dimostrare la grande dimensione spirituale che è comune alla salute. Lo sciamano usava tremila anni fa attraverso le sue «tecniche dell’estasi» quelle tecniche di gruppo che oggi, nella nostra contemporaneità occidentale, riscopriamo per esempio con i gruppi Balint. Lo psicodramma, le terapie di gruppo, l’analisi dei sogni, la suggestione, l’ipnosi, la catarsi, l’immaginazione guidata e le terapie psichedeliche facevano già parte del suo bagaglio terapeutico e dei suoi riti di guarigione9. Ritorneremo, nel corso di questa trattazione, più volte sulla figura della medicina sciamanica. In questa sede ci interessa però capire come, per Jung, l’arte e la pratica della psicoterapia siano comparabili alla storia millenaria dello sciamanismo. Ci sono caverne nel sud della Francia che contengono dipinti di sciamani in trance di oltre dodicimila anni fa. Estendendosi non solo nel tempo ma nello spazio, le pratiche sciamaniche sono state rintracciate in tutto il mondo, dalla Patagonia alla Siberia. Non dovrebbe quindi sorprenderci che uno studioso attento al patrimonio antropologico dell'umanità, come Carl Gustav Jung abbia realizzato, con la sua profonda concezione del processo di guarigione, delle riflessioni estremamente puntuali sulle molte forme di terapia e di medicine non convenzionali, sciamanismo compreso10.
Secondo lo scienziato svizzero «L’estasi [dello sciamano] è spesso accompagnata da uno stato [di coscienza] in cui lo sciamano è “posseduto” dallo spirito dei suoi familiari o di quelli guardiani. Tramite questa possessione egli acquista gli organi mistici che in qualche modo costituiscono la sua vera e completa personalità spirituale. Questo conferma l’inferenza psicologica che può essere data dal simbolismo sciamanico, che diventa una proiezione del processo di individuazione.»11.
Estremamente interessanti, diventano quindi, i contributi junghiani, per lo studio delle medicine non convenzionali e non occidentali, per la ricerca etno-antropologica su temi come concetto di salute e malattia nelle culture del mondo, per lo studio della storia delle religioni e per la comprensione del simbolico, del mitologico, della creatività e del rapporto costante tra psiche, soma e cultura.
Tra le ipotesi e le ricerche più affascinanti, sviluppatesi negli ultimi anni, nell'ambito della comunità scientifica interessata ai problemi di psicologia e psichiatria, rilevante sembra, dal punto di vista antropologico e a parere di chi scrive, il contributo di uno scienziato italiano, tra i più originali e complessi, Luigi De Marchi (1927-2010) psicologo e ricercatore.
Uomo di scienza, psicologo clinico e sociale, vicino alle idee del Partito Radicale Italiano, De Marchi si è costantemente impegnato, fin dagli anni cinquanta del Novecento, e per tutto l'arco della sua carriera, anche in battaglie per i diritti civili, per lo studio e la corretta informazione su tematiche inerenti aspetti della sessualità come l'assistenza anticoncezionale e l'educazione demografica, nell'ottica della sua ipotesi in relazione alla tremenda pericolosità dell'esplosione demografica e del suo aumento esponenziale nel corso della storia dell'uomo, crescita demografica letta dallo studioso come fenomeno collegato a guerre, fame, genocidi, migrazioni disperate, crisi energetiche mondiali. Aspetti del problema di cui oggi siamo a ben triste conoscenza. Luigi De Marchi è stato, inoltre, l'introduttore, nella comunità scientifica italiana che si occupa di ricerca in psicologia e psichiatria, delle ipotesi e delle teorie proposte dalle scuole psicoterapeutiche di studiosi come Wilhelm Reich (1897-1957), Alexander Lowen (1910-2008) e Carl Rogers (1902-1987). Negli anni ottanta del Novecento, lo scienziato ha proposto, nell'ambito delle scienze umane, una affascinante teoria della cultura che reputiamo, in questa sede, di interesse per un ulteriore approfondimento. Nel saggio “Lo shock primario”, Luigi De Marchi, espone, con lucidità e ricchezza di fonti autorevoli e di prove documentate, l'ipotesi che la nascita della cultura e quindi lo sviluppo e l'evoluzione dell'uomo, siano da derivare dalla nascita della consapevolezza, nei nostri antenati ancestrali, della morte e della malattia.
Per shock esistenziale”, scrive lo scienziato italiano, “intendo il trauma, primario e ricorrente, che la scimmia umana ha subito quando ha preso coscienza del proprio destino di morte e le sue particolari capacità intellettive ed affettive hanno moltiplicato in lei l'angoscia di morte e la sofferenza per la morte dei suoi simili.”12.
A sostegno delle sue ipotesi, De Marchi, facendo riferimento ad un'idea di cultura
vicina agli assunti dell'antropologia culturale di Edwar Taylor (1832-1917) e dell'antropologia americana in toto, propone un affascinante correlazione tra le sepolture di defunti, documenti di storia umana tra i più antichi a noi giunti, e l'angoscia di morte.
Lo psicologo italiano scrive “Il più antico documento di cultura umana (ossia di attività umane espressive di credenza) finora conosciuto, sono le sepolture neandertaliane del paleolitico medio, cioè documenti inequivocabili di una formazione reattiva all'angoscia di morte.”13, sottolineando come questa ancestrale attività di sepoltura possa costituire una primordiale tipologia relazione con la malattia, la sofferenza, la morte dei propri simili, arrivando ad una elaborazione superiore della negazione della morte. Secondo De Marchi, il dato relativo all'atto della sepoltura dei propri simili come atto culturale con tutto ciò che ne consegue, è stato spesso sottovalutato dagli antropologi ed è stato un sociologo come Lewis Munford (1895-1990) a fornire un ulteriore contributo che reputiamo di interesse: “Ogni volta che troviamo traccia dell'uomo nel più antico accampamento o nell'utensile di pietra scheggiata, troviamo anche una testimonianza di interesse e di angosce che non hanno riscontro tra gli animali: in particolare un rispetto per i morti che vengono deliberatamente seppelliti, unito a segni sempre più evidenti di apprensione e di terrore di carattere religioso (….) il rispetto per i defunti (…..) contribuì, forse più delle necessità pratiche, a far cercare all'uomo una sede stabile (…...). La città dei morti è antecedente a quella dei vivi. La precorre e ne costituisce il nucleo.”14.
Terminiamo questa carrellata di spunti epistemologici con una considerazione finale inerente le proposte fatte. Crediamo importante segnalare come il filo conduttore dei riferimenti presentati possa essere ritrovato nella natura intrinseca della ricerca scientifica, occidentale e di altre culture, e di come essa si sia evoluta nel corso degli ultimi anni. Rispetto alle necessarie misure di dogmaticità e chiusura proprie di ogni disciplina scientifica all'atto della fondazione, dimensioni che sole, probabilmente possono aiutare la ricerca e la produzione di ipotesi e teorie all'inizio di ogni rivoluzione scientifica, oggi viviamo in un interessantissimo momento di forte interdisciplinarietà tra modelli e di feconda integrazione di contributi e di risultati tra le comunità scientifiche, approcci questi, che hanno dato forma e vita al paradigma della complessità bio-psico-sociale, con i suoi svariati modelli di lettura, che attraversa tutte le scienze contemporanee della civiltà occidentale. Nell'ottica della complessità e dell'integrazione, pertanto, sono stati presentati, come premesse epistemologiche al presente lavoro, alcuni approcci proposti e studiati dalle scienze biologiche, dalle scienze antropologiche e dalle scienze psicologiche, discipline strettamente legate ad una nuova concezione di uomo e umanità come centri propulsori della ricerca e come motori da cui derivare lo studio della concreta esperienza, che sembra, a chi scrive, aprire interessanti scenari di ricerca, sperimentale ed empirica, nell'ambito di un possibile nuovo umanesimo delle scienze.





2.1 UNA PANORAMICA ETNO-ANTROPOLOGICA

SUI CONCETTI DI MAGIA E RELIGIONE


Per iniziare un'attenta disamina dello sviluppo del concetto di malattia nella civiltà occidentale e nelle altre culture del mondo, è nostra intenzione approfondire, in questa sede, alcuni elementi fondamentali e fondanti, comuni a tutte le civiltà, che, nell'ambito di una visione comparata sulle culture umane, possano essere visti come ponte tra mondi che hanno avuto sviluppi diversificati. Questi elementi comuni, che vanno a costituire i nodi di una rete di saperi condivisi dalle culture mondiali fin dalle origini, possono essere rintracciati nella magia e nella religione. Pur consapevoli di operare per una riflessione che possa essere metodologicamente legata principalmente all'analisi dei fenomeni per come si presentano ad un'osservazione, fenomenologicamente orientata, il più possibile scevra da giudizi a priori, non possiamo non dirci influenzati, comunque, dalla nostra cultura scientifica di provenienza. Questo anche nell'ottica di una visione comparata e complessiva che si dica critica ed analitica ma che non rinunci ai propri capisaldi teorici e all'evoluzione dei propri paradigmi di riferimento, di qualsiasi natura. Tutti gli sguardi sono diversi ed hanno pari dignità ed importanza scientifica, ma il non voler guardare, perché si reputi il proprio guardare troppo soggettivo a causa della cultura di provenienza oppure si pretenda di volere ad ogni costo guardare esclusivamente con gli occhi di un altro, nell'ottica di un relativismo culturale di maniera, comporta, a nostro parere, una mancanza di base, pur sopperita con altri strumenti, ma sempre una mancanza. Pur nel rispetto totale di altre culture e nell'interesse scientifico verso lo studio della complessità umana, posizioni ,queste, derivate, nell'ottica di chi scrive, dallo sviluppo del pensiero occidentale e dei suoi fondamenti morali ed etici, non possiamo non dirci amanti della libertà data dalla nostra scienza (in senso lato), laica, individualista, borghese, empirica, illuminista e razionale, manifestando, sempre nel pensiero di chi scrive, la contrarietà verso l'ottundimento dogmatico, mistico, manicheo, escatologico e teocratico di altri orizzonti culturali dominati da religioni e credenze che governano ogni sfera della vita collettiva ed individuale dell'essere umano senza lasciare agli uomini nessuna via di scampo.
Da diverso tempo, le scienze antropologiche ed etnologiche si interrogano e approfondiscono due dimensioni del pensiero e dell'agire umani che, presenti fin dallo sviluppo dell'umanità, hanno influenzato in modo trasversale tutta la storia delle culture mondiali fin dalle origini, il pensiero magico e la prassi magica ed il pensiero religioso e la prassi religiosa. Grazie ad importanti contributi di ricerca, le comunità scientifiche hanno potuto osservare, in relazione alla magia, come, da sempre, molti popoli hanno fatto uso e fanno tuttora uso di riti magici. Con lo sviluppo delle principali dottrine religiose, la ritualità ancestrale collegata alla magia è stata integrata, in modo velato oppure palese, come dimostrano, a titolo di esempio, i movimenti spiritistici di Buenos Aires, il rito brasiliano del Candomblè, vera e propria religione che adora divinità naturali come gli Orixàs ed i riti africani del Senegal e della Costa d'Avorio.
Passeremo in rassegna, ora, la riflessione teorica di alcuni autori, tra i maggiori esperti e studiosi delle tematiche a noi di interesse, ricercatori ed antropologi che hanno proposto alla comunità scientifica, un percorso di studio e di analisi inerenti magia e religione.
Vorremmo presentare autori come Lucien Lévy Bruhl (1857-1939), Marcel Mauss (1872-1950), Bronislaw Malinoswski (1884-1942) ed Ernesto De Martino (1908-1965), lasciando ampio spazio, in ultima battuta ad un antropologo come James Frazer (1854-1941) che, forte di una corposa erudizione e di una capacità unica di narrare lo sviluppo di culture umane, partendo da un approccio comparativo mirato, sentiamo personalmente e scientificamente più vicino alle origini delle attuali posizioni intellettuali predominanti nella comunità scientifica, poiché formatosi in un ambiente positivista, darwiniano, ebbe una chiara propensione all'analisi scientifica di stampo razionalista vicina ad un empirismo humeano, scettico ed anti-dogmatico , ponendo le basi dello sviluppo successivo di un'antropologia evoluzionista che influenzerà la visione dell'uomo come animale altamente evoluto, pur nelle sue infinite fragilità, e facente parte, incontestabilmente, della natura. Approccio lontano da ogni possibile accusa di riduzionismo, l'approccio evoluzionista, è, a parere di chi scrive, probabilmente vicino a propensioni olistiche sostanzialmente naturalistiche che, pur venate di determinismo, e pur concependo il concetto di “Spirito”, “Psychè”, come acquisito e non dato, fisico e non metafisico, rimane ancora oggi come paradigma fondante della biologia e delle scienze della vita. A parere di chi scrive, in relazione al campo scientifico di studi scelto, la psicologia clinica, un nome, più di tutti, può essere citato come esempio di scienziato dalle ampie convinzioni globalmente materialistiche ed evoluzionistiche tuttavia lontane da un riduzionismo meccanicista, al contrario, venate di una coloritura naturalistica ed olistica e di una lettura dell'essere umano come dato biologico stabile pur nella varietà assunta durante il percorso evolutivo. Lo scienziato in questione è Wilhelm Reich (1897-1957), medico, psichiatra e psicoanalista, che reputò fondamentale proporre una ricerca in cui psiche e soma, biologia e psicologia, antropologia culturale ed antropologia naturalistica, fossero integrate in un funzionalismo complesso, altamente connesso con una visione energetica di flusso, fortemente olistica e collegata con il sistema cosmo. La prassi terapeutica, il modello teorico e le concezioni scientifiche, filosofiche ed intellettuali di Wilhelm Reich fanno profondamente parte anche del pensiero e degli approcci complessivi della moderna psicologia e degli sviluppi più fecondi della scienza psicoterapeutica.
Lucien Lévy Bruhl, filosofo, antropologo e sociologo francese fu uno dei primi ricercatori a sostenere che, per poter studiare i fenomeni sociali nel loro manifestarsi elementare, fosse necessario osservare le società primitive in contesto ecologico. Secondo l'antropologo francese, la scienza occidentale avrebbe dovuto considerare la diversità di appartenenza, nella pratica osservazionale, e capire, a priori, come la cultura maturata in seno all'Occidente, fosse da considerarsi estremamente diversa rispetto alle altre culture del mondo.
Lévy Bruhl, nel corso delle sue elaborazioni teoriche, articolò la teoria del prelogismo che sosteneva la completa diversità del pensiero delle culture primitive rispetto alla cultura Occidentale. Il pensiero primitivo sarebbe così caratterizzato da una forma mentis mistica e prelogica, influenzata in modo complesso da irrazionalismo e inesistenza della contraddizione.
L'antropologo francese era fermamente convito che utilizzare le categorie di pensiero della nostra cultura per osservare ed interpretare universi culturali così diversi da noi, fosse un errore metodologico sostanziale, soprattutto in funzione della riflessione sulle diversità degli approcci a soggettività versus mondo e naturale versus sovrannaturale. Questo errore metodologico, quindi, era dovuto, a parere dello studioso, alla propensione eurocentrica della scienza occidentale che tendeva a leggere altri pensieri ed altre culture, ed in special modo le culture primitive, come forme arcaiche e rudimentali di pensiero, poste in categorie primordiali rispetto a quelle europee, situate molto più avanti rispetto ad una linea di sviluppo verso il progresso, tipica concezione, questa, dell'Occidente positivista.
Lévy Bruhl era fermamente convinto che nelle culture primitive, forti fossero le rappresentazioni collettive dominate dalle dimensioni di fluidità e labilità sostenute da quella che lo scienziato francese chiamerà legge di partecipazione relativa alla capacità del pensiero primitivo di elaborare una consistente intensità di emozioni tale da indurre una partecipazione “mistica” con l'universo. I primitivi, quindi, sentirebbero, grazie ad una participation mystique, uno stretto legame con il mondo che li circonda e con un universo attraversato da forze fluide di natura fisica e psichica che consentono una sovrapposizione tra mondo sacro e mondo profano dove forze soprannaturali riescono a penetrare nelle menti e nelle anime degli uomini lasciando uno spazio alla prassi magica come tentativo di moderazione trasversale. Analizzando in modo comparato le culture primitive e la cultura occidentale, Lévy Bruhl, noterà come all'interno del mondo Occidentale in molti elementi culturali si possano rintracciare residui primordiali di natura prelogica e, partendo da questa constatazione, l'antropologo francese ipotizzerà che le due modalità di approccio alla riflessione, quella magica e quella scientifica, sostanzialmente sono due modelli equivalenti di sperimentazione della realtà e di lettura dei fatti. Le culture primitive per Lévy Bruhl, inoltre, avrebbero la caratteristica di correlare la riflessione sugli oggetti con una forte produzione simbolica, operando così sul simbolo e contattando in questo modo le potenze invisibili del cosmo producendo complesse pratiche di stregoneria. In ultima analisi, il contributo sostanziale dato dallo studioso francese alle discipline etno-antropologiche, e allo studio della cultura, è stato quello di scardinare gli approcci eurocentrici ai problemi, presentando, attraverso esempi concreti e articolazioni complesse, percorsi comparati di confronto tra mondo occidentale ed altre culture.
Lo scienziato che ha influenzato più di tutti lo sviluppo dell'antropologia francese contemporanea è senza dubbio Marcel Mauss. Antropologo, sociologo e storico delle religioni, Mauss, che fu scienziato metodico e scrupoloso, rifiutò categoricamente le comparazioni generalizzate e le sistematizzazioni generiche.
Lo studioso francese, grazie alla sua elaborazione scientifica originalissima, propose una visione concreta della molteplicità e della complessità delle culture mondiali, da osservarsi principalmente nel contesto di origine, viste come sistemi integrati in continua relazione per cui non esistono leggi generali se non in ultima analisi. Interessante l'ipotesi di Mauss concernente gli elementi distintivi del pensiero e della prassi magica da ricercarsi nel luogo, negli agenti, nell'opposizione alla religiosità e nell'irregolarità. La magia comprenderebbe così elementi come i maghi, dalle caratteristiche virtù magiche descritte in miti e tradizioni, gli atti, pratiche magiche contraddistinte da spazio, tempo e luogo, da strumenti e da oralità e/o manualità, e le rappresentazioni magiche costituite da idee e credenze. Per Marcel Mauss la magia è oggetto di credenza “a priori”, perché costituita da induzioni utilizzate dal gruppo mentre la scienza sarebbe costituita da credenze “a posteriori” quindi continuamente sottoposte al controllo sperimentale e razionale. Interessato all'analisi degli elementi che compongono il sistema magico, Mauss, sarà tra i primi a riflettere sul termine “Mana”, che tanto interesserà scienziati e studiosi di scienze umane e della vita, termine che designa il potere dello stregone, la qualità, l'essere e l'agire magici, tanto da costituire una vera e propria potenza capace di mutare le cose. Per l'antropologo francese la magia ha un forte impatto sociale e può essere comparata a tecnica, scienza e religione. Questa succinta panoramica sul pensiero di Marcel Mauss ha cercato di definire le linee guida fondamentali del suo contributo scientifico, immenso contributo che ha portato le scienze antropologiche alla modernità e alla ricerca di continue integrazioni e di un'analisi metodica dei sistemi complessi senza tuttavia perdere di vista ogni singolo anello della concatenzaione causa-effetto.
Altro grandissimo studioso e ricercatore, la cui influenza culturale e scientifica ha coinvolto moltissime discipline, è l'antropologo britannico di origine polacca, Bronislaw Malinowski, i cui studi, incentrati sull'idea che le istituzioni umana vadano analizzate all'interno del contesto che le ha prodotte, lo porteranno a fondare l'antropologia funzionalista. Innovatore considerevole, Malinowski, propone alla comunità scientifica una rivoluzione metodologica che sarà conosciuta come osservazione partecipante, metodo etnografico legato alla ricerca intensiva sul campo. Diversamente dalla scuola evoluzionista (Frazer) che leggeva i fenomeni magia, religione e scienza come eventi razionali in continuo sviluppo e dalla scuola sociologica (Mauss) interessata all'impatto sociale e gruppale delle prassi magico-religiose, Malinowski propone una netta separazione tra magia, religione e scienza, distinzione dovuta a funzioni ed origini diversificate. In relazione alla religione, l'antropologo britannico, propone una lettura chiara e definita delle funzioni e dei compiti del pensiero e dalle prassi religiose, viste come mezzi utili per elaborare i momenti di crisi nello sviluppo dell'esistenza umana, grazie a principi fondanti di natura metafisica e spirituale. La religione, quindi, per Malinowski, aiuta l'uomo ad elaborare e superare, attraverso la ritualità, paure e bisogni legati all'esistenza e a produrre una normatiovità morale in seno al gruppo di appartenenza. La riflessione sulla magia del grande scienziato di origine polacca, lo portò a concepire anche la prassi magica come un tentativo degli esseri umani di trovare soluzioni ai problemi, pratici e spirituali, posti dall'esistenza, attraverso saperi e pratiche tramandate da tradizioni culturali. Il sapere magico, la credenza nella magia, deriverebbero dalle esperienze particolari sperimentate, durante il proprio cammino iniziatico, dal mago, questi saperi sarebbero vere e proprie rivelazioni.
Date queste premesse, Malinowski, rifuta categoricamente l'idea della magia come forma primordiale di conoscenza scientifica, secondo l'antropologo britannico, l'obiettivo principale di magia e scienza è rispondere ai bisogni primari dell'uomo. Entrambe le discipline, nella visione malinowskiana, posseggono teorie e principi che governano le modalità di azione, di ricerca e di sperimentazione e la differenza sostanziale concerne il fatto che la scienza si basa su esperienze quotidiane che vengono osservate e catalogate razionalmente. Magia, scienza e religione diventano così, nel pensiero di Malinowski, processi di conoscenza diversificati e correlati a modalità di pensiero che possono coesistere. Ognuna delle tre sfere di riflessione e di applicazione, quindi, può occupare una struttura precisa delle culture umane: il sacro, il profano, la tecnica, le arti e così via. In ultima analisi, per lo scienziato britannico, magia, religione e scienza svolgono una funzione importantissima nelle culture umane, funzione diversificata per ciascun campo, dal più quotidiano e materiale a quello più spirituale e sovrannaturale, interagendo continuamente per consentire lo sviluppo della cultura.
Il massimo studioso italiano di tematiche relative al rapporto tra magia e religione, è senza dubbio l'etnologo ed antropologo Ernesto De Martino. Rappresentante indiscusso di quel momento culturale di passaggio, tipicamente italico, prevalentemente fatto di ombre, tra il ventennio fascista, che vide il De Martino protagonista intellettuale di rilievo nel panorama accademico molto vicino al regime, e il secondo dopoguerra, che orientò più di un intellettuale verso le convenienti sponde del comunismo filo-stalinista del PCI, prova questa, probabilmente, delle predisposizioni “machiavelliche” intrinseche ad una parte considerevole della cultura del popolo italiano che, sia concesso anche per un distinguo etnico , dato il tentativo complessivo del presente lavoro di analizzare variabili culturali, e per la nostra provenienza legata al mondo ladino dolomitico ,vicino all'area geografica del Tirolo storico, mondo che forse ben poco a di che spartire con l'evoluzione della cultura italica nella sua storia più o meno recente, non fanno parte del panorama intellettuale ed umano di chi scrive.
Sia perdonata questa digressione che probabilmente si allontana da uno sguardo che vuole essere il più scientifico ed oggettivo possibile e dal tracciato su cui si muove l'argomento della presente trattazione ma che manifesta l'orgoglio, per chi scrive, di appartenere ad una minoranza etnica di confine come quella ladina che proprio per essere attigua ed affine a ben altre realtà culturali e storiche, vorrebbe distinguersi sostanzialmente da un'italianità che non le appartiene se non per imposizione storica e quotidiana, italianità la cui natura intrinseca ed estrinseca è fin troppo tristemente conosciuta, soprattutto nei suoi aspetti politici, economici e sociali.
Ernesto De Martino, dunque, considerato esponente di spicco dell'antropologia culturale italiana ed allievo di Benedetto Croce, propose una lettura decisamente critica dello sviluppo dell'antropologia e dell'etnografia, sostenendo fermamente l'irriducibilità dell'esperienza umana ad un'indagine di tipo scientifico, relegata alle scienze come conoscenze effimere inerenti approcci utilitaristici ed applicativi. Per l'antropologo napoletano, sostenitore convinto dello storicismo crociano, solo la storia può rendere l'uomo sempre più consapevole, criticando ,così, aspramente gli approcci scientifici francesi e britannici, colpevoli, a suo parere, di incapacità di vedere la dimensione storica delle culture primitive.
Lo studioso italiano si propose di considerare l'universo magico nelle sue pratiche e nelle sue credenze come legato, in modo importante, al concetto di presenza intesa come “esserci nel mondo”, dimensione elaborata dall'uomo per far fronte alla tremenda paura del “non-esserci”, e, a riprova della sua tesi, presentò alla comunità scientifica una vasta gamma di esempi etnografici inerenti l'emersione delle culture magiche come proiezione sul mondo del desiderio umano di manifestare la propria esistenza. Con categorie di pensiero come “il dramma storico del mondo magico”, De Martino, ipotizzò che vi fosse, alla base della magia, una continua evoluzione riflessiva relativa ad un'esistenza in continuo divenire, incerta e mai con sicurezza definibile, relegando lo stregone, il mago, l'uomo con poteri sovranaturali ad essere testimone per la comunità, di una realtà sovrasensibile, più certa della vita reale, con cui interagire per il bene della comunità. Per lo studioso italiano divenne così fondamentale una prassi etnografica che obbligasse lo scienziato ad un confronto serrato con il contesto naturale di ricerca, e per De Martino, questa ricerca sul campo, avvenne nel Mezzogiorno d'Italia, raccogliendo e catalogando una seria corposa di documentazione concernente gli aspetti magico-religiosi del territorio. Da questa ricerca e dall'analisi del materiale raccolto, l'antropologo napoletano, riuscì a delineare una lettura culturale e sociale dai toni critici e dalla messa in luce di meccanismi antropologici legati ad una situazione di grande miseria complessiva dovuta, per lo studioso, all'arretratezza ed all'isolamento in cui era stato tenuto per secoli il Meridione. Grazie alla forte propensione del De Martino per la ricerca sul campo, si sviluppò in lui una coscienza critica che lo spinse a riflettere in modo approfondito sulla tendenza della comunità di studiosi di etnologia per un' interpretazione prevalentemente etnocentrica costituita da griglie intellettuali fatte di pregiudizi culturali. Per ovviare al problema, lo studioso meridionale propose,e un approccio etnocentrico critico che potesse utilizzare dispositivi e strumenti conoscitivi autocritici e consapevoli che indirizzassero la comunità scientifica occidentale verso un umanesimo etnografico che consentisse un' ampia storicizzazione ed un approfondito confronto storico-culturale tra etnie.
Ernesto De Martino divenne così uno studioso dai forti impulsi interdisciplinari, coniugando l'approccio etnografico ed antropologico a ricerca in campo psicologico e parapsicologico, che lo spinsero alla raccolta di svariato materiale sulla fenomenologia magica, su eventi fuori dall'ordinario, come chiaroveggenza, telecinesi e telepatia, rimasti ai margini del pensiero scientifico Occidentale classico e sui fenomeni di trance propri della ritualità sciamanica delle culture primitive, fenomeni ai confini della coscienza, ricchi di spunti comparativi con i processi psicotici di scissione dell'io e di forte interesse per campi di studio come la psicologia transpersonale.
Ultimo grande scienziato che vogliamo presentare in questa carrellata, non esaustiva per motivi di spazio, è il britannico James Frazer. Abbiamo ritenuto opportuno dedicare lo spazio finale di questo paragrafo ad un grande ricercatore che, pur cronologicamente e scientificamente posizionato prima degli studiosi fin qui presentati, a nostro parere, rappresenta un filone della ricerca, andato articolandosi alla fine del XIX° secolo, dalle solide fondamenta costruite su basi scientifiche ed epistemologiche vicine al paradigma evoluzionistico di estrazionre darwiniana, da un lato, e all'approccio biologico empirico-positivista, metodologicamente rigoroso, dall'altro. Visioni e metodi che hanno fortemente influenzato la cultura scientifica occidentale che, anche se corposamente criticati, rimangono come contributo epistemologico indiscusso, se non altro, per i decisivi sviluppi della ricerca successiva. James Frazer, pur rimanendo legato alla concezione antropologica ottocentesca, propose alla comunità scientifica europea, grazie ad un corpus documentario considerevole, la conoscenza approfondita di culture, tradizioni e folklore di molteplici parti del mondo. La concezione dell'antropologo britannico, relativa alla storia ed allo sviluppo delle culture umane, era legata profondamente ad una visione evolutiva della conoscenza umana, il cui articolarsi si dipanava dalla magia alla religione, fino ad arrivare alla scienza moderna, unico approdo che consentuiva una panoramica dettagliata ed approfondita sul mondo. Frazer vedeva la magia come una pseudoscienza, propria delle popolazioni primitive, dominata da figure carismatiche che, attraverso pratiche stereotipate, volevano dominare gli eventi naturali e sovrannaturali. Tuttavia, per l'antropologo britannico, la magia, al pari della scienza, utilizzava una determinata regolarità nell'osservare e trattare i fenomeni, una forma arcaica di controllo sui dati oggettivi non sostenuta da alcun metodo sperimentale, ma fondata su correlazioni illusorie e credenze. L'aver posto la magia a fondamento dello sviluppo culturale umano, in un' ottica evolutiva dei saperi e della conoscenza, su un percorso di natura lineare e non circolare, per Frazer, non ha significato, comunque, una sua svalutazione intellettuale e scientifica, anzi, il grande studioso britannico, ha più volte sottolineato l'importanza della coerenza logica interna al discorso magico, indicandone sempre la funzionalità specifica nel contesto di origine e di utilizzo.
Come per la magia, quindi, anche per la religione, diviene fondamentale, secondo Frazer, riuscire ad orientare, con prassi e credenze, gli accadimenti naturali, con la differenza sostanziale, però, che mentre nel mondo magico governare gli spiriti e le energie sovrasensibili era prerogativa dello sciamano, nella religione, subentrano figure divine, da invocare con preghiere e riti, la cui volontà è, nella maggior parte dei casi, imperscrutabile ed ingovernabile. All'apice del percorso evolutivo della cultura umana, Frazer, pone la scienza, con le sue correlazioni effettive e la sua stringente logica legata a causalità, riproducibilità, validità, e generalizzabilità, dando risalto alla perfettibilità del pensiero umano, dote che ha consentito quindi, lo sviluppo della conoscenza dalla magia alla religione, fino alla scienza. L'opera scientifica di James Frazer ebbe il suo sviluppo e la sua articolazione, in modo consistente, nel lavoro di ampliamento, di rimaneggiamento e di rimodellamento del suo monumentale saggio dal titolo “The Golden Bough”, il Ramo d'oro, studio sulla magia e la religione.
Fin dal titolo del suo capolavoro, Frazer, intende procedere ad una comparazione sistematica di miti, tradizioni e culture, alla ricerca di elementi condivisi e di differenze e, partendo dal mito di Enea, consigliato dalla Sibilla, in relazione ad un ramo d'oro da portare con se per discendere verso l'Ade, analizzato in parallelo ad un evento protostorico come il rito della soppressione del re del bosco di Nemi, l'antropologo britannico propone un excursus, corposo e dettagliato, nel mondo della magia, della religione, degli usi, dei costumi e dei riti di moltissime culture. Nello sviluppo dell'opera, James Frazer, pur seguendo il filo conduttore datogli dalla sua propensione evoluzionista e darwiniana, riesce magistralmente a divagare per infiniti sentieri trasversali, arricchendo la sua riflessione di contributi legati a tematiche come la struttura della magia, del culto, della natura, degli alberi, della costruzione dei tabù, della morte e della rinascita.
Interessanti sono le riflessionio critiche sui riti sacrificali ed espiatori, evolutisi come prassi esorcizzanti ed apotropaiche.
Per concludere questo breve percorso di presentazione delle principali teorie etno-antropologiche sulle origini della riflessione esistenziale dell'uomo, del suo rapporto con l'ambiente e del suo bisogno di sviluppare cultura , vogliamo sottolineare come, a parere di chi scrive, nella varietà di ipotesi e di correnti di pensiero, alcune sostenute da contributi scientifici di natura empirica, altre legate a riflessioni principalmente speculative, si possano trovare dei tratti condivisi, che consentono di pensare, a guisa di denominatore comune, al bisogno dei primi aggregati umani di narrare, attraverso una grande molteplicità di strumenti, materiali ed immateriali, legati alla magia, alla religione, alla mitopoiesi o alla quotidianità, la propria esistenza complessivamente bio-psichica ed energetica, situata nel mondo, i propri vissuti e le proprie paure all'Altro, a differenza di qualsiasi altra specie vivente, ed è probabilmente questo bisogno estremo di narrazione coinvolgente le dimensioni di corpo, tempo, mondo ed intersoggettività quindi di riconoscimento, il tratto comune di ogni cultura che, in ultima analisi, è stato collante fondamentale nei processi paralleli di emersione di produzione culturale, contesto, sviluppo evolutivo biologico, sviluppo della coscienza e del pensiero umano.
















CAPITOLO II

EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI MALATTIA DALLA DIMENSIONE MAGICO-RELIGIOSA ALLA DIMENSIONE SCIENTIFICA NELLA CULTURA OCCIDENTALE.


1.2 LA MALATTIA NELLA PREISTORIA E NELL'ANTICHITA'



Molti sono i dibattiti ancora aperti nelle comunità scientifiche, inerenti le ipotesi legate allo sviluppo del concetto di malattia fin dalla comparsa dei primi uomini.
Tuttavia risulta unanime l'idea di come. fin quasi da subito, l'uomo si sia occupato nella riflessione su salute e malattia. Le origini di concettualizzazione della malattia coincidono verosimilmente con le origini stesse della cultura umana ed è possibile che l'evoluzione della religiosità abbia avuto luogo anche sotto le pressioni selettive delle sofferenze umane patite a causa delle malattie che colpivano i nostri antenati cacciatori-raccoglitori15.
Da un punto di vista antropologico, seguendo la tradizione storico-culturale, il pensiero umano sarebbe passato da un'originaria fase magica, tipica dei gruppi legati alla caccia e alla raccolta, a una fase animistica, caratteristica di popolazioni sedentarie, e, infine, ad una fase personalistica, propria di economie più sviluppate, dedite al commercio16.
Come preziosa testimonianza dello sviluppo della riflessione dell'uomo su salute e malattia, possiamo trovare i dipinti sulle pareti delle caverne eseguiti dai primi gruppi evoluti di Uomo di Cro-Magnon e le sepolture rituali che, con la presenza di più o meno ricchi corredi funerari, stanno a dimostrare che la morte e la causa - o le cause – che l'avevano provocata meritavano un rito che permettesse di vincere l'angoscia generata dal dolore e dalla consapevolezza del distacco e del non ritorno. La nascita della medicina non può che collocarsi in questo punto ed essere concepita come sforzo per prolungare i termini dell'esistenza17.
Per quanto riguarda la civiltà occidentale già a partire dallo studio sulle lingue indoeuropee è notevole l'assenza di un termine unico, comune, inerente la malattia e, in tale varietà semantica, possiamo definire diverse aree di significato come quella relativa al concetto di malattia come debolezza, perdita di forze, incapacità al lavoro fisico, o quella relativa a difformità e variabilità rispetto a canoni di bellezza prestabiliti dalle comunità di appartenenza. Ulteriori campi di differenziazioni semantiche si possono trovare in relazione ai concetti di malattia come disturbo e malessere o sofferenza e dolore. Risulta chiaro, in prima analisi, come in queste arcaiche suddivisioni concettuali legate alla formazione di un linguaggio, quindi di un pensiero, si possono trovare due ampie macro-aree di significato: una soggettiva e concernente sensazioni fisiche e sofferenza individuale ed una relativa all'incapacità di partecipare al lavoro fisico per la sussistenza e alla devianza rispetto alle proporzioni fisiche inerenti un canone di bellezza condiviso dai gruppi sociali, queste ultime categorie, probabilmente legate, grazie ad ampie coloriture morali ed estetiche, a stigmatizzazioni e tentativi di isolamento sociale, dando peso, fin da subito, ad una correlazione illusoria concernente la relazione tra il bello ed il buono. Si sviluppa dunque, già in epoca ancestrale, la differenza tra essere malato, avere una malattia ed essere riconosciuto da un gruppo come malato ossia una dimensione dell'essere estremamente complessa, di natura integrata tra aspetti biologici, psicologici e sociali, che, grazie all'attuale modello di lettura scientifica del paradigma bio-psico-sociale, riusciamo a comprendere, probabilmente, nella sua globalità. Gli studiosi appartenenti al mondo anglosassone, per distinguere le tre dimensioni dell'essere malato, hanno analizzato tre termini della loro lingua che esprimono i diversi approcci al problema: illness, ossia l'esperienza, il vissuto del malato, desease, relativo agli aspetti biologici e fisiologici della malattia e sickness, termine dai connotati fortemente sociali quindi come la malattia venga percepita dal gruppo di appartenenza. Questa interessante analisi apre, allo studio, un insieme di prospettive e di chiavi di lettura anche in relazione alla dicotomia, sempre presente nella cultura occidentale inerente salute e malattia, cultura occidentale fondata apparentemente sul bisogno intrinseco dell'essere umano di costruire relazioni duali contrastanti e confuse: bello-brutto, buono-cattivo, mente-corpo, sano-malato e così via.
Già a partire dai termini in uso di malattia, dai risvolti meramente biologistici, oppure di malattie, di più ampio respiro, la nostra cultura e le svariate comunità di studiosi che hanno proposto riflessioni sul problema all'alba della nascente civiltà occidentale ed in special modo nella civiltà greca, si sono sempre chieste se corretta una possibile lettura delle malattie come entità oppure come processi, come realtà oggettive misurabili oppure come mere denominazioni di fenomeni all'osservazione però non quantificabili e fluttuanti, dividendo le prime teorizzazioni tra possibili letture dinamiche e nominalistiche oppure ontologiche e realistiche.
All'interno di una lettura ontologica ancestrale, la malattia viene riconosciuta come prodotto di un oggetto materiale privo di anima e penetrato nell'organismo, processo che verrà denominato dagli studiosi come teoria corpuscolare o Fremdkorpertheorie, oppure prodotto di una contaminazione causata da un essere materiale vivente definito come parassita (teoria parassitaria) o da un essere immateriale vero e proprio (teoria demoniaca).
In questa primitiva ricerca inerente le cause principali di uno stato di malessere possiamo ben notare una commistione tra eventi naturali ed eventi sovrannaturali con una vera e propria correlazione tra agente infettivo e personificazione del maligno, quasi una trasposizione sul piano etico e morale del disagio e della sofferenza psico-fisica.
In relazione a questa ancestrale lettura del patologico, costruita su basi magico-religiose, è lecito pensare che, sul fronte della cura, individui con caratteristiche particolari, disponibili cioè ad aiutare le persone sofferenti e capaci di conquistarne la fiducia dichiarandosi in grado di comunicare con un mondo invisibile, soprannaturale, siano stati vantaggiosi per la sopravvivenza del gruppo18.
Nelle medicine arcaiche diventa fondamentale il perché di uno stato di malattia, connesso quasi sempre a dimensioni culturali magico-religiose come la vendetta di uno stregone o la punizione da parte di divinità adirate legata alla trasgressione di un tabù. Le malattie sono sempre presenti nelle narrazioni che esprimono la causalità come colpa, che la diagnosi trascendentale di uno stregone, di uno sciamano o di un sacerdote identifica quale origine di una situazione disastrosa o di una catastrofe naturale19.
Il concetto di causa si colloca quindi all'esordio stesso della pratica medica, come il fattore determinante di ogni direzione dell'agire20.
Con l'evolversi dei gruppi umani , nel passaggio tra la prassi della caccia e della raccolta e l'instaurarsi di una più adattiva sedentarietà, alcuni fenomeni di ampio impatto evolutivo vennero alla luce: una consistente crescita demografica, una rapida urbanizzazione e una stratificazione gerarchica delle prime società con individui liberi e proprietari di risorse ed individui resi schiavi, poveri e privi di risorse. Nelle antiche civiltà che si andarono formando tra il bacino del Mediterraneo e l'Asia Minore, questi fenomeni portarono allo sviluppo di conflitti tra gruppi, di carestie, di invasioni, di deforestazioni, di incessante fabbisogno di risorse e di evoluzione di nuove malattie carenziali e di epidemie che produrranno una crescita esponenziale di stati patologici dovuti ad agenti infettivi, malattie che colpiranno il genere umano per tutti i secoli della sua storia, fino ad oggi.
Tra le più antiche civiltà umane, formatesi a cavallo tra preistoria e storia, troviamo quelle mesopotamiche, sviluppatesi nei territori tra i fiumi Tigri ed Eufrate per almeno quattromila anni. Queste civiltà hanno probabilmente introdotto, in relazione al concetto di malattia, letto ancora in chiave religiosa e mitopoietica, un primo ed arcaico sistema nosologico, basato sull'associazione tra configurazioni di sintomi localizzati a livello di diversi organi ed i nomi degli dei responsabili di provocarli, ed una modalità di pronosticare l'evoluzione della malattia presagendo la sorte del paziente sulla base di segni divinatori ma anche dell'esperienza21.
A dimostrazione del livello evolutivo raggiunto da queste civiltà, possiamo trovare i più antichi testi medici e le prime farmacopee risalenti alle dinastie di Ur (ca. 2563-2387 a.C) e Lagash (ca. 2494 – 2342 a.C.).
Un'altra grande civiltà, sorta sulle sponde del fiume Nilo, che pervenne a concezioni molto sofisticate di malattia e salute, è sicuramente quella egizia. In modo consistente, fin dai primordi, in questa civiltà, si sviluppò l'idea di una vita dopo la morte, idea concepita intorno al concetto di rinascita e ciclicità dell'esistenza e di un ordine sociale incentrato sulla figura del regnante, il faraone. Tuttavia, diversamente dai babilonesi che accettavano le sofferenze come meritate punizioni divine dei peccati, gli egizi non consideravano la malattia come castigo conseguente ad una trasgressione22, elaborando la condizione patologica come estremamente intrinseca ad una condizione esistenziale di natura ciclica, proponendo un pensiero che diverrà comune a molte culture orientali e a molte frange settarie di orientamento mistico, rimaste spesso ai margini nella cultura occidentale, pensiero ricco di concetti esoterici come la reincarnazione o metempsicosi, la trasmigrazione delle anime, la purificazione rituale da ottenersi attraverso prassi iniziatiche.
Nell'elaborazione culturale della civiltà egizia la malattia non trova quindi origine in un dramma personale, quanto in un dramma cosmico. La patologia si introduceva dall'esterno come un agente, animato o inanimato, spesso una sorta di verme parassita che si insidiava nella carne e nelle ossa23.
Diverse ricerche contemporanee, hanno dimostrato che nel mondo egizio, la figura del medico-guaritore, concernente la prassi sciamanica, era socialmente riconosciuta e faceva leva su notevoli competenze tecniche, bilanciate da conoscenze tradizionali e da prassi rituali fortemente emozionali.
Anche le conoscenze anatomiche possono dirsi sviluppate presso gli antichi egizi, prova ne sia la originale e complessa prassi della mummificazione dei cadaveri, conoscenze che però avevano alla base ipotesi fondanti sostanzialmente diverse da quelle di altre culture in merito alla funzionalità dei vari organi.
Ulteriore ed interessante civiltà, nata e sviluppatasi nell'area geografica a cavallo tra il Mediterraneo e l'Asia minore, è la civiltà ebraica. Raro e forse unico esempio, di arcaica cultura monoteistica presente tra le antiche civiltà, il mondo ebraico, ha una visione della malattia fortemente influenzata dalla credenza religiosa prevalente e dal corpus dottrinario composto dalle sacre sacritture, testimonianza incredibile della storia e dei costumi del popolo eletto. Per la cultura ebraica, ogni uomo nasce con il peccato originale, diventa così inutile cercare la causa di un possibile stato patologico e sarà proprio la devozione al Dio venerato, sostenuta da stati d'animo predisposti al sacrificio e alla espiazione, a consentire o meno il superamento della malattia-prova imposta da Jahvè. Il ricorso al sapere umano, anche ad un sapere terapeutico, per gli ebrei, era probabilmente visto come una mancanza di fede verso il Dio unico ed un tentativo sacrilego di modificare quanto deciso dall'onnipotenza del nume. Tuttavia, nei testi sacri ebraici, si possono trovare, anche a fronte di carenza di conoscenze anatomo-fisiologiche specifiche, interessantissime informazioni di interesse clinico-patologico e prescrizioni interpretabili come vere e proprie regole igienico-preventive, anticipazione di un'autentica medicina preventiva24.
Nel corso dello sviluppo delle culture antiche, come abbiamo potuto vedere, pur con ampie differenziazioni concettuali e metodologiche, sostanziale rimane intatta l'eredità ancestrale inerente la concezione magico-religiosa delle medicine arcaiche.
Sarà così anche per la civiltà greca dei primordi, civiltà che, più di ogni altra, influenzerà direttamente ed indirettamente ed in ogni suo aspetto, la cultura occidentale per come oggi la conosciamo. Numerosi storici delle religioni hanno riconosciuto, però, quale novità fondamentale delle religioni ariane rispetto, ad esempio, alle culture semitiche il fatto che mentre queste ultime vedevano nei fenomeni naturali l'espressione di forze divine, la religione dei greci (ma anche l'induismo) antropomorfizzavano nelle divinità le forze della natura, dando alle rispettive divinità una forte impronta naturalistica25.
Ulteriore prova della visione complessivamente magica ed estremamente connessa ai bisogni religiosi dell'uomo la possiamo trovare in molte letterature antiche, giunte a noi grazie allo sviluppo della scrittura e, per quanto concerne la civiltà greca dei primordi, nell'opera omerica dove appare chiaro come la malattia sia letta in qualità di deperimento cronico dovuto a potenze misteriose prive di elementi mortali propri dell'umanità.
Per Omero diventa significativa la descrizione di malattia come stato complessivo di infermità misteriosa, come trauma, come morte improvvisa, come confusione mentale ed intossicazione, stati patologici dovuti a punizione divina.
Mettendo a confronto, però, le prime produzioni narrative della civiltà greca ed in special modo l'epopea omerica con autori di poco successivi, si possono notare già delle discrepanze tra una primitiva ipotesi eziopatogenetica di natura magico-religiosa, come nell'elaborazione omerica, ed un'idea più laica e di forte connotazione naturalistica come quelle proposta nel mito dell'età dell'oro di Esiodo (VIII secolo a.C.- VII secolo a.C.) che, descrivendo le vicende del famoso vaso di Pandora, manifesta un pensiero meno connesso con il divino in relazione alle malattie. Contrariamente ad Omero che legge la malattia come stato d'essere complessivo, uguale per ogni tipologia di sofferenza, Esiodo propone il concetto di malattie, tentando di scardinare la monoliticità di un aggregato patologico sovrannaturale e presentando svariate cause per la sofferenza umana, cause legate ad una visione naturalistica. Nella lettura fatta da Esiodo si costruisce un primo ed arcaico tentativo di nosologia scardinata dal pensiero magico dove le malattie potranno essere viste come parte della natura alla stregua dell'essere umano.
Con lo sviluppo della civiltà greca e della sua raffinatissima cultura filosofica, intorno al VI° secolo e al V° secolo a. c. , pensatori e studiosi di arte medica, si fecero interpreti di una visione dinamica della malattia che si metteva in contrapposizione alla lettura ontologica delle origini.
Risale ad un pensatore e studioso greco originario di Mileto, in Asia Minore, Senofane di Colofone (ca 560-500 a.C.), il primo tentativo di sganciare la prassi della conoscenza dagli aspetti religiosi e dall'influenza magica di re e sacerdoti, quasi un tentativo di ribellione da gerarchie sociali precostituite legate a monarchie autoritarie.
Non è la rivelazione magica e misteriosa la fonte della conoscenza per Senofane che propone invece una ricerca faticosa intorno alla natura delle cose e getta le basi per un'indagine sulla realtà che utilizzi gli strumenti propri della logica e del ragionamento, confrontandoli con l'esperienza acquisita26.
Ulteriori idee utili ad una concettualizzazione naturalistica della malattia e della salute, nell'ambito delle culture occidentali, sono state sviluppate all'interno della scuola pitagorica, la cui insistenza sull'armonia e sulla quantificazione come presupposti conoscitivi influenzerà la scuola ippocratica27.
Risulta essere anche di Alcmeone di Crotone (ca. V secolo a.C.) una delle prime definizioni di malattia naturale ritrovata dagli studiosi del campo. Intorno al 500 a. C., il medico e filosofo che operava nella Magna Grecia, tentò di elaborare una posizione scientifica lontana da aspetti magici e religiosi, una posizione teorica, dal forte impianto naturalistico, che contemplava la salute come equilibrio, o isonomia, di qualità inerenti a umido, secco, caldo, amaro e dolce e la malattia come il predominio, o monarchia, di una di queste qualità.
In epoca di poco successiva, con l'evolversi di conoscenze, teorie ed ipotesi inerenti salute e malattia e grazie al fecondo contributo delle prime figure di filosofi e pensatori ellenici, si ampliò la prassi legata alla costituzione di scuole dove possibile una formazione, uno scambio di saperi tra maestri e discepoli, una condivisione di prassi e di metodi che riuscirono ad arricchire, anche per la medicina, un sapere dai forti connotati empirici in grado di consentire approfonditi studi sul campo in relazione anche alla possibile riproducibilità della diagnosi e della cura. Colui che viene considerato il padre della medicina occidentale, Ippocrate di Kos (ca 460-370 a.C), pose le basi per la costruzione di una feconda scuola medica e predicò il rifiuto dell'esercizio della medicina come pratica magica, mettendo per sempre al centro dell'attività del medico un uomo che utilizza la ragione e l'esperienza per comprendere la malattia28.
I discepoli di Ippocrate, concepiranno, secondo i dettami del maestro, la malattia come sofferenza del corpo, pur con l'idea della certezza della capacità di auto-guarigione dell'organismo secondo il principio della vis medicatrix naturae, concezione di malattia causata dalla mescolanza e dal disequilibrio degli umori fondamentali e dalla perdita della simmetria tra caldo e secco e freddo ed umido. La malattia sarà causata da discrasia, ossia perdita della giusta proporzione mentre la salute sarà frutto di eucrasia, quindi di equilibrio e simmetria. La patologia umorale classica, che presuppone questa eziologia inerente equilibrio/disequilibrio, rimarrà legata in modo consistente al pensiero medico di Ippocrate per il quale il corpo dell'uomo contiene sangue, flegma, bile gialla e bile nera o atrabile e, secondo la scuola ippocratica, il passaggio da salute a malattia non avviene in modo brusco ma attraverso innumerevoli stadi intermedi.
Grande risulta il contributo del pensiero ippocratico in relazione alla concezione di malattia, che veniva letta, probabilmente per la prima volta, non come evento primario, ma come perturbazione di una condizione naturale, cioè la salute29.
Tuttavia, ampie discussioni critiche nella comunità di studiosi, hanno innescato l'assenza, nel metodo ippocratico, di veri e propri criteri anatomici, assenza percepibile nell'impossibilità inerente una localizzazione precisa di fenomeni patologici data da un riferimento costante a parti fluide.
Sarà in epoca ellenistica, e precisamente presso le scuole di Antiochia e di Alessandria, che ampie ricerche anatomiche condotte sul campo, porteranno a chiavi di lettura del patologico molto approfondite e dettagliate, producendo una contrapposizione tra idea di malattia legata alla discrasia degli umori ed idea di malattia come lesione di parti solide.
Figure di medici come Erofilo (ca. 335-280 a.C.), Erasistrato di Ceo (ca. 310-250 a.C.) e Prossagora di Coo (fine IV secolo a.C.), appartenenti alla scuola conosciuta come dogmatica, affiancarono all'osservazione del malato una ricerca intesa ad ampliare le conoscenze di base attraverso osservazioni anatomiche (dissezioni) e studi fisiologici30
Alcuni medici che si formeranno alla scuola alessandrina, ipotizzeranno, portando all'estremo la contrapposizione con la medicina ippocratica, in relazione alla patologia, un' eziopatogenesi di natura quasi esclusivamente meccanica dalle forti componenti idrodinamiche, idea che avrà il suo epigono in Asclepiade di Bitinia (129 a.C.-140 a.C.), operante in Roma.
Ulteriori contributi allo sviluppo e alla ricerca concernente i concetti di salute e malattia, giunsero dalla tradizione della scuola empirica (ca. III° secolo a.C.) e dagli studiosi che ad essa facevano riferimento e dalla scuola conosciuta come metodica che utilizzava un approccio essenziale e pragmatico alla malattia.
L'ultima grande civiltà antica, la cui forte influenza sulla cultura occidentale è unanimemente riconosciuta, che vogliamo presentare in relazione a questa trattazione, è quella di Roma. La medicina romana non ebbe mai un particolare interesse per le dispute ideologiche o dogmatiche31.
Tra le primitive concezioni di epoca romana legate alla patologia, troviamo l'idea che il miglior modo per guarire fosse relativo ad un processo spontaneo di cura obbedendo al proprio corpo, un pensiero naturalistico proposto anche da uomini di cultura come Catone il vecchio (ca. 234-149 a.C.).
Una delle principali fonti per conoscere il concetto di malattia e cura nella civiltà romana, rimane il De re medica di Aulo Cornelio Celso (ca. 14 a.C. - 37 d.C.), che sostanzialmente rimene legato alla concezione ippocratica, fornendo descrizioni dettagliate di patologie acute e croniche.
Anche a Roma, si svilupparono diverse scuole mediche, tra cui una scuola metodica, dove si insegnava come la medicina fosse un sapere in evoluzione. Per i metodici le malattie avevano una realtà ontologica ed una sede elettiva da cui traevano origine e da cui prendevano il nome32.
Il più importante medico dell'antichità, insieme ad Ippocrate, verrà riconosciuto in Galeno (129 d.C - ca. 199 d.C.). Nato a Pergamo e trasferitosi nella Roma imperiale, il suo pensiero, la qualità e l'imponente produzione quasi enciclopedica relativa ai suoi arditi studi di anatomia e di fisiologia rimarranno indiscussi per quasi quattordici secoli. La sua fama divenne rapidamente considerevole tanto da essere nominato medico personale dell'imperatore Marco Aurelio (121 d.C. - 180 d.C.) nel 161 d.C.
Influenzato dal pensiero aristotelico, Galeno criticò in modo aspro la medicina del suo tempo sostenendo come essa rischiava di perdere una visione razionale del processo di conoscenza scientifica, perdita da rintracciarsi soprattutto nell'abbandono del rigore metodologico ed etico che avrebbero dovuto accompagnare sempre il medico nella professione33.
Il medico di Pergamo, pur conoscendo approfonditamente il metodo ippocratico, però, rinunciò alla prudenza di Ippocrate e, nonostante le spesso incerte conoscenze di anatomia, gli errori della sua fisiologia e la scarsa efficacia delle sue prescrizioni terapeutiche, concepì un'idea di malattia piuttosto moderna34.
Galeno, intendeva la patologia come sintomo di una lesione ad un determinato organo, dando al suo pensiero clinico una forte connotazione localizzazionista dalle implicazioni fortemente meccanicistiche e teleologiche.
Architravi di tutto il pensiero galenico sono, così, lo sviluppo del concetto aristotelico di causa finale e l'idea che, nel corpo umano, ogni organo rivesta una sua specifica funzione che trova una giustificazione ontologica nel rapporto con l'insieme di tutto l'organismo umano che risulta un'entità complessa capace di autoregolarsi e finalizzata ad un mantenimento essenzialmente statico del suo equilibrio, reso precario nella patologia35
Tuttavia, Galeno, non abbandonerà mai del tutto la concezione classica ippocratica della malattia anzi, sarà in grado di integrare, in una visione complessa, la ricerca anatomo-patologica di natura solidista con la teoria umorale e con influssi inerenti la teoria pneumatica, visione d'insieme che giustificherà la meritata fama del medico imperiale nel corso dei secoli.











2.2 LA MALATTIA NEL MEDIOEVO E NEL RINASCIMENTO



La civiltà romana, forte di uno sviluppo politico e culturale di notissimo rilievo, ebbe una durata secolare e un'espansione territoriale, con annessi influssi culturali tali da impregnare in modo consistente tutta la storia della civiltà occidentale fino ai nostri giorni, con pochissimi precedenti nella storia antica.
Tuttavia, complici svariati motivi di ordine economico, politico e sociale, l'influente potere degli imperatori di Roma, cedette il passo ad equilibri e sviluppi di natura sostanzialmente nuova, nel panorama della cultura occidentale, dando, di fatto, inizio a quel periodo che verrà chiamato dagli esperti, Evo di mezzo o Medioevo.
Negli ultimi secoli di vita dell'impero romano, incessante divenne, come non mai, la tendenza, quasi sempre presente nella storia di Roma, ad un'integrazione culturale e politica tra popolo conquistatore e popoli conquistati, fino a giungere, però, ad un momento di notevole crisi globale che diventerà consistente e foriera di cambiamenti sostanziali. Nuove popolazioni, definite barbare da coloro che volevano rimarcare una diversità di usi e di costumi rispetto alla cultura greco-romana, che da diverso tempo vivevano ai confini dell'impero, si spostarono in massa e più volte entrarono in contatto con un mondo che stava per tramontare, portando nuove istanze culturali e rivoluzionando gli assetti complessivi del mondo antico. Un nuovo potere, di natura religiosa, però, si era inserito nel contesto occidentale, prima combattuto e poi accettato da Roma: il potere temporale e religioso della Chiesa cattolica. E sarà in seno alle istituzioni ecclesiastiche che, nei momenti più difficili della convivenza tra cultura barbara e cultura romana, che si elaboreranno gli imput culturali della nuova Europa e che si difenderanno, se non tutti, almeno in parte, i contributi del mondo antico, facendo anche un'opera di trascrizione e di diffusione del sapere che non aveva mai avuto eguali. Importanti furono, in seno alla chiesa, i contributi filosofici e gli apporti alla riflessione sulla scienza dati da quei maestri pensatori riconosciuti come padri della chiesa che produssero una importante riflessione anche sulla figura di Cristo come portatore di salute perché fattosi carico dei peccati e delle sofferenze dell'umanità; riflessione che si allontanava dal concetto positivo di salute proprio della cultura greco-romana e ribadiva l'idea che malattia e morte fossero strumenti positivi di salvezza.
Personaggi come S. Agostino (354-430 d.C.), S. Isidoro di Siviglia (570-630 d.C.), medico e vescovo e S. Ambrogio (339-397 d.C.), arricchirono di temi interessantissimi inerenti le modalità della conoscenza e di costruzioni dottrinarie complesse il sapere della nuova umanità emersa dal mondo antico. Da un punto di vista medico, il concetto di malattia del periodo, si basava sostanzialmente sui testi galenici e prevaleva un'idea di salute come giusta integrità del corpo ed equilibrata mescolanza della natura umana rispetto a caldo ed umido. Sarà lo stesso Isidoro di Siviglia, dotto maestro dalle notevoli competenze mediche, a propugnare concetti relativi all'idea di malattia come stato di sofferenza del corpo causato dal potere della morte. La medicina precedente quello che sarà lo sviluppo della scuola salernitana nei secoli successivi, elaborerà dunque le proprie dottrine all'interno di un ragionamento che produrrà una commistione tra pensiero galenico, pensiero aristotelico e una prassi dove rimarranno presenti compiutamente gli elementi magico-religiosi della tradizione.
Per diversi secoli dell'età medioevale convissero tre idee principali di malattia, un concetto spirituale/miracolistico per cui la malattia era mandata da Dio e i rimedi a cui ricorrere erano preghiere, esorcismi e culto dei santi e delle reliquie; un concetto medico/naturalistico in cui la malattia è intesa come un fenomeno naturale da spiegarsi sulla base della dottrina umorale; un concetto magico/superstizioso per cui la malattia era causata da un intervento demoniaco che solo pratiche occulte ed esorcistiche potevano sconfiggere36.
La dottrina cristiana si occupò di elaborare, in relazione allo stato di malattia, concetti come infirmitas, vero e proprio stato mancanza, debolezza e privazione, dalla forte valenza sociale negativa, a cui fece seguito l'idea di caritas come assistenza morale e pragmatica agli infermi.
Tuttavia, ai margini dell'Europa medioevale che si stava formando, un pensiero ed una pratica medica andavano strutturandosi in una cultura, lontana dal mondo occidentale ma che, nel corso dei secoli avrebbe influenzato, e si sarebbe fatta influenzare, costantemente dalla cultura europea, la civiltà arabo-islamica.
Vogliamo inserire in questo momento di analisi relativo alla cultura occidentale anche il mondo arabo-islamico, consapevoli del fatto che, pur essendo universi fondati su basi culturali prevalentemente dissimili, da sempre forti sono stati i contatti reciproci tra le due culture, con diversi momenti, pacifici o meno, di integrazione e di tentativi di conoscenza e comprensione reciproci e ben visti sono, a parere di chi scrive, in questi odierni momenti di forte tensione politica e sociale tra le parti, tutti i tentativi di approfondimento e di studio comparato tra le due culture, volendo rimarcare però anche le consistenti differenze culturali, partendo da quei principi etici e morali non negoziabili, sviluppatisi a partire dall'Illuminismo europeo in poi, che riguardano i diritti fondamentali della persona e che da più parti nel mondo islamico ,oggi, ci sembrano venire calpestati.
La medicina araba comprende tre diverse realtà legate alla concezione medica araba-beduina, di tipo popolare praticata nella penisola arabica prima dello sviluppo dell'Islam, alla medicina del Profeta, vicina a scritti e detti di Maometto e la medicina araba propriamente detta che fa riferimento alle teorie mediche presente nei libri scritti in arabo e vicina alla tradizione ippocratico-galenica37.
Fin dalle origini dell'Islam, che dette un'ulteriore impronta religiosa alle chiavi di lettura tradizionali della malattia nel mondo arabo, nel testo fondamentale degli islamici, il Corano, consistenti furono le precauzioni ed i dettami inerenti gli aspetti igienico-sanitari, correlate alla credenza della malattia come prova cui Dio sottopone il proprio popolo, idee ,queste, vicine anche al mondo religioso ebraico e ulteriore prova, probabilmente, di uno stretto legame culturale alle origini delle due civiltà.
La civiltà arabo-islamica, più volte, venne a contatto con altre culture del bacino del Mediterraneo e, se è vero che la medicina araba non si distacca dalla teoria umorale di Galeno, i protocolli di osservazione clinica furono però portati a elevati gradi di perfezione38.
La medicina araba fu essenzialmente una medicina di tipo pratico, con connotazioni empiriche di singolare modernità, valga per tutte le considerazioni l'introduzione della detersione chirurgica delle ferite purulente che, in Occidente, non era di solito effettuata39.
Tra i più famosi medici arabi, troviamo Ibn Zakariyyah ar-Razi, conosciuto come Razhes e Ibn Sina, conosciuto come Avicenna (980-1037), dotto studioso di anatomia e igiene e di farmacopea che propose importanti riflessioni, di matrice platonica, su salute e malattia, quest'ultima, concepita come espressione di influenza negativa del mondo materiale di natura plurale ed antagonistica. Per Avicenna, l'anima, che aspira alla riunificazione con il Creatore, è legata al corpo a causa dei piaceri dei sensi e lo stato naturale degli uomini è quindi la salute, relegando le malattie a momenti di passaggio.
Altra figura importante per le scienze arabe, operante a Cordova, fu Ibn Rushd conosciuto come Averroè ( 1126-1198), importante studioso di orientamento aristotelico.
Nell'Europa medioevale, dopo i secoli critici del crollo dell'impero romano e delle invasioni barbariche, intorno all'anno mille, superata la paura per l'avvento del nuovo millennio che aveva scosso gli animi religiosi e popolari dell'Occidente, vi furono una ripresa economica e politica e uno sviluppo sociale importante che fecero nascere nelle comunità un ottimismo per i tempi nuovi. La medicina di questi primi secoli del nuovo millennio, era relegata ancora principalmente, alla sfera magico-religiosa, era una medicina prevalentemente tradizionale popolare fatta di ricette e basata su di un empirismo non privo di una relativa efficacia lungamente testata40.
Tuttavia, in importanti centri monastici, gli studiosi, che pur provenivano dall'ambiente religioso, si mostrarono interessati ad un approccio alla malattia e alla salute di tipo razionale e scientifico.
La più importante scuola medica del periodo fu quella di Salerno dove, nei primi secoli del secondo millennio fiorirono i tentativi di ampliare le conoscenze mediche, integrando la tradizione ippocratico-galenica con il pensiero medico arabo ed ebraico. I medici di Salerno, contrariamente al pensiero della tradizione cristiana, non accettavano passivamente la malattia, e, tentando di curarla e prevenirla, elaborarono un corpus di precetti igienico-sanitari che prendevano in considerazione l'alimentazione, l'ambiente, i comportamenti salutari.
Alla base delle dottrine della scuola di Salerno vi erano riflessioni e studi sull'anatomia del corpo umano, sull'importanza dell'armonia psicofisica e sul valore di una dieta corretta ed equilibrata: principi che oggi sono ripresi dalla cosiddetta medicina psicosomatica e dalla scienza dell'alimentazione41
Sulla scia della fama raggiunta dalla scuola salernitana, altre città si proposero, nella prima metà del XII° secolo, come centri specialistici di produzione e diffusione del sapere medico e nacquero così i primi corsi universitari di medicina a Parigi (1110) e a Bologna (1158). Autorizzata dalla Chiesa, la prima dissezione documentata di un cadavere umano venne effettuata pubblicamente a Bologna, intorno al 1315 dal medico Mondino de' Liuzzi (ca. 1270-1326)42.
Due furono gli orientamenti principali di medici e pensatori medioevali in relazione al concetto di malattia. Da un lato il forte contributo del pensiero di Galeno rimaneva ben impresso e andò ad influenzare, insieme ad un approccio realista, l'idea di quei medici e studiosi che vedevano nella patologia un epifenomeno la cui diatesi era da ricercarsi nella meccanica fisiologica che sola veniva aggredita dalla malattia, ponendo così le basi ad una prima dicotomia tra organismo e persona, dall'altro lato, filosofi e uomini di Chiesa, decisero di procedere nell'alveo di un pensiero religioso per cui la malattia era fortemente correlata al peccato ed il malato doveva vivere la sofferenza come dono di Dio.
Nell'ambito dell'elaborazione dottrinaria in seno alla Chiesa, si sviluppò quella corrente di pensiero che verrà conosciuta come scolastica. Molti i nomi di filosofi, religiosi e studiosi che diedero ampi contributi anche dal punto di vista della articolazione dei concetti di salute e di malattia. Citiamo, per indirizzare i lettori interessati ad ulteriori approfondimenti i contributi di Sigieri di Brabante (1235-1282), Tommaso d'Aquino (1225-1274) e Arnaldo da Villanova (1240-1311). Tuttavia, i contributi teorici complessivi degli studiosi medioevali, pur fondamentali ed articolati su processi di ragionamento rigorosi, nel corso del XIV° secolo saranno messi a dura prova e quotidianamente confrontati con la prassi medica vera e propria, dal flagello della Peste e dalla consunzione dovuta alle carestie e alle guerre. Tratteremo in altro capitolo e nel dettaglio, gli aspetti più concreti e rilevanti per la nostra discussione, in relazione a patologie epidemiche e carenziali e sviluppo delle prassi terapeutiche anche in epoca medioevale. Per ora ci basti sapere, per avere un'idea dell'impatto della peste sull'Europa medioevale, che la mortalità complessiva nella popolazione europea della seconda metà del Trecento fu pari ad oltre un terzo del totale dei viventi e che la medicina ufficiale, quella che si basava sull'armamentario teorico-pratico di Ippocrate e di Galeno, si dimostrò totalmente inadeguata ad affrontare il problema43. Con il dilagare della morte nera, l'Atra mors, come veniva definita la Peste, con la crisi politico-sociale che metteva a dura prova il sistema feudale, con guerre e carestie, per l'Occidente, alle soglie del XV° secolo, si aprì il periodo conosciuto come autunno del medioevo, un momento di forti rivolgimenti culturali e politici, di consistenti tensioni tra comunità e livelli gerarchici della società, di conflitti tra arcaici mondi delle campagne rurali ed antiquate ed appariscenti contesti cittadini, dove, grazie anche a individualità ed imprenditorialità commerciali, più forte si faceva largo il contrasto tra sistemi vecchi e nuovi. E sarà proprio in contesti di borghi cittadini che si svilupperà ulteriormente e notevolmente, sul finire del medioevo, una classe sociale di uomini liberi, industriosi e creativi, che, pur non essendo aristocratici, daranno un peso fondamentale a commerci e conoscenza: la borghesia. Sarà questa classe sociale a operare per ampliare lo sviluppo di saperi e pratiche in ogni settore dando un valore considerevole agli approcci laici, non dogmatici, razionali e libertari e sarà da questa classe sociale che usciranno i maggiori intelletti, donne e uomini di scienza, di arte , di pensiero, di politica e di economia che, grazie ai loro contributi, in epoche successive, daranno vita a quella che sarà conosciuta come la Rivoluzione Scientifica del XVII° secolo, anticipatrice di tutte le altre rivoluzioni culturali, economiche, politiche e sociali che porteranno il mondo occidentale alla modernità.
Con la fine del medioevo, proprio grazie anche ai contributi del mondo laico di estrazione borghese, nuove proposte culturali si integreranno nel contesto europeo in una vera e propria rinascita complessiva prodotta dalla rinnovata riflessione sul mondo antico. All'aristotelismo dominante nel pensiero del medioevo, alla verticalità dell'esperienza umana medioevale improntata alla concezione dell'uomo come creatura sofferente e peccatrice che doveva tendere costantemente al divino in una dimensione escatologica e penitenziale, intervennero, come modelli culturali innovativi, il neoplatonismo mutuato dal pensiero antico, la concezione dell'uomo come struttura fondante dell'esistenza, il canone estetico del bello come misura prima dell'etica e la forma classica come presupposto di un'orizzontalità di interessi proiettati verso la vastità del sapere e del mondo. Il nuovo e complesso momento culturale verrà conosciuto come Umanesimo, a cui seguirà il Rinascimento, vera e propria rinascita culturale, artistica, filosofica. Il pensiero neoplatonico, nelle scienze, approdava così in Europa, grazie anche alla migrazione degli studiosi greci e bizantini che abbandonavano Costantinopoli, caduta nelle mani dei turchi nel 1453, invitando a comprendere la realtà fisica con gli strumenti dell'astrazione matematica ed incrinando il dogmatismo aristotelico della cultura universitaria44.
Per quanto concerna l'idea di malattia, il pensiero di Galeno è ancora dominante, integrato tuttavia con i contributi della passata epoca medioevale e con le nuove elaborazioni teoriche che prenderanno più vie. Molte le domande, stimolate da nuove ed emergenti riflessioni intorno alla patologia e da una prassi della dissezione sempre più consistente, domande che cercheranno risposte inerenti la ormai assodata diversificazione di approcci, tra elementi umorali ed elementi organici, risposte legate alle funzioni delle strutture solide nell'eziologia delle patologie e nelle manifestazioni cliniche. Molte le discipline della conoscenza, oltre alla Medicina in senso stretto, che si occuperanno di salute e di malattia. Tra le più antiche, dobbiamo dare qui spazio anche all'Alchimia, che vede nell' Umanesimo e nel Rinascimento i suoi secoli aurei, anche per i fecondi contributi culturali che andranno a stimolare, grazie ad un approccio investigativo sulla natura, quelle che saranno le ricerche della scienza nuova che verrà.
L'Alchimia, vero e proprio percorso teorico, pratico ed iniziatico alla conoscenza, consentirà di fondare su un primitivo empirismo, arricchito da un linguaggio esoterico altamente simbolico, una rudimentale prassi sperimentale fondata sull'osservazione. L'artefice alchemico si poneva in un rapporto con la natura basato sullo studio dei fenomeni percepibili e sulla modifica degli eventi che li provocavano45. Anche il corpo umano risultava così destinatario della ricerca alchemica, attraverso la sperimentazione di elementi che lo rendessero incorruttibile e quindi ritardassero od allontanassero a tempo indeterminato la morte46. Sarà, nel Novecento, Carl Gustav Jung, ad approfondire con studi e ricerche la notevole complessità del fenomeno alchemico, visto, in ottica Junghiana anche come proiezione psicologica su elementi fisici dei modelli archetipici dell'inconscio collettivo.
In ultima analisi, e a modesto parere di chi scrive, l'Alchimia, pur conservando consistenti elementi di natura magico-esoterica circondati da un alone di misticismo, riuscirà ad intuire, con le proprie prassi e con le proprie ricerche sperimentali, il percorso che, successivamente, condurrà alle porte del metodo sperimentale e della scienza moderna. Per questo, chi scrive, non sarebbe propenso a definire la pratica alchemica come pseudoscienza ma, come un vero e proprio approccio scientifico arcaico, un modello protoscientifico empirico e profondamente incardinato nello sviluppo per paradigmi e rivoluzioni della scienza occidentale.
Dal pensiero alchemico si svilupperà, prevalentemente in nord Europa, quella tradizione medica che verrà chiamata iatrochimica e lo studioso che più di tutti si occuperà di trovare un'integrazione tra prassi medica classica, consolidata, e sperimentazioni empiriche di tipo alchemico, sarà Theoprastus Bombastus von Hohenheim, conosciuto ai più come Paracelso (1493-1542).
Nell'ottica di un superamento delle concezioni di stampo ippocratico-galenico, per Paracelso le malattie sono entità dotate di struttura propria che vivono in qualche modo da parassiti a spese dell'organismo umano47.
Per lo studioso svizzero, la teoria degli umori non era più sufficiente per spiegare, nella sua complessità, l'emergere delle malattie, che divenivano, ad un attenta analisi clinica, delle vere e proprie specie differenziate la cui eziologia poteva ricadere nell'orbita di influenze astrali o climatiche oppure essere correlata a veri e propri avvelenamenti ambientali. Per Paracelso, diventava fondamentale la reazione chimico-dinamica del corpo agli agenti patologici, reazione che avveniva per simpatia grazie ad un profondo legame tra fisiologia umana e universo, tra corpo ed astri, minerali o piante.
Tuttavia, l'originalità della visione epistemologica e scientifica di Paracelso, risiede principalmente nella sua intuizione della scomposizione della materia in elementi curativi primari, di origine chimica e minerale, destinati a creare una nuova farmacologia48.
Paracelso, grazie alla sua grande abilità di medico, scienziato e divulgatore, grazie ai suo viaggi e alla sua capacità di creare legami tra scuole ed accademie, diede vita e corpo alla scuola iatrochimica le cui tesi saranno riprese, in periodi successivi, da altri studiosi e ricercatori come Jean Baptiste van Helmont (1579-1644), per il quale la malattia che aggrediva il corpo dall'esterno o dall'interno, era una modalità estremamente attiva e dinamica, Franciscus Sylvius (1614-1672) e Thomas Willis (1621-1675).
La grande eredità lasciata alla cultura occidentale dalla scuola iatrochimica è il concetto di malattia come fenomeno dovuto ad un parassita e l'idea che un principio chimico/spirituale e la fermentazione fossero alla base delle funzioni vitali normali e patologiche, caratteristici della iatrochimica, in qualche modo prefigurarono le tesi biopatologiche della microbiologia e della biochimica moderne49.
Con lo sviluppo di innovative correnti teoriche e di prassi mediche sempre più complesse ed articolate, il Rinascimento vide un incremento considerevole di ricerche e dibattiti intorno al concetto di malattia e allo studio dell'eziopatogenesi delle principali patologie che colpivano il genere umano.
Fondamentale diventerà così il dibattito nelle comunità scientifiche, intorno alla natura dell'innescarsi della malattia e medici come Girolamo Fracastoro (1478-1553) insistettero molto sull'idea che le malattie fossero prodotte, in larga parte, da agenti esterni. Sarà proprio Fracastoro a teorizzare l'esistenza di piccoli germi capaci di moltiplicarsi nel corpo dell'ospite, germi che si sarebbero diffusi, da un portatore ad un contagiato attraverso oggetti sporchi, per contatto diretto o attraverso la respirazione.
Una tradizione medico-scientifica, nata e sviluppatasi quasi contemporaneamente all'approccio iatrochimico, conosciuta come iatrofisica, verrà trattata nel prossimo paragrafo, dedicato alla Rivoluzione scientifica. Tale tradizione, a parere di chi scrive, rappresenta un sentiero che, pur sviluppatosi a partire dalle riflessioni del tardo rinascimento, si può ben percorrere grazie agli strumenti epistemologici di natura meccanicista che vennero pensati ed ipotizzati nell'ottica del rinnovamento scientifico che aprirà le porte alle concezioni di ricerca e sperimentali moderne e chiuderà il grande capitolo della scienza rinascimentale. A conclusione di questa ampia panoramica sulla ricerca medica e sul concetto di malattia di Medioevo e Rinascimento, non possiamo non notare come la patologia e la terapia, dopo un iniziale appannaggio della sfera religiosa, siano passate, grazie allo sviluppo della concezione dell'uomo come centro dell'universo, propria dell'Umanesimo, alla quasi totale proprietà della ricerca empirica, laica, accademica e scientifica. Il corpo dell'uomo del Rinascimento, non è più scisso dall'anima e mortificato in funzione espiatoria e purificatrice, ma diventa centro di interesse per lo sviluppo delle potenzialità estetiche, etiche e fisiologiche insite nell'essere umano. Il corpo rinascimentale, nei suoi aspetti fisici e spirituali diverrà bello, in senso classico, prove ne siano gli ampi studi anatomici riportati nelle opere dei grandissimi artisti e disegnatori del periodo. Mentre nel Medioevo, la religiosità presente in modo sostanziale nella vita delle comunità, vedrà una diffusione notevole del corpo dei santi e dei suoi pezzi, venerati uno ad uno, idolatrati come reliquie frammentarie quasi a voler sottolineare, attraverso un nichilismo materialista, l'importanza esclusiva dello spirituale e del metafisico, a partire dal Rinascimento, Il corpo fisico non sarà più tabù e rappresenterà quell'unità, olistica, serena e classicamente bella, da studiare ed ammirare.
Dopo la Rivoluzione scientifica e gli sviluppi del pensiero cartesiano, pur scindendo nuovamente il corpo dall'anima, il pensiero occidentale volgerà il proprio sguardo, contrariamente al Medioevo, prevalentemente alla dimensione scientifica, ben consapevole dell'importanza di sperimentazione, osservazione e traduzione in termini teorici, nello studio del corpo come oggetto. Questo approccio che verrà conosciuto come meccanicismo, consentirà di approfondire moltissimi aspetti funzionali e strutturali della fisiologia umana, e, così, si raffineranno e si renderanno sempre più ottimali, gli strumenti ed i traguardi della scienza medica nel suo complesso.





3.2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA E L'ETA' MODERNA





Nello sviluppo della cultura occidentale, il '500, è considerato un secolo chiave per comprendere come si sia evoluta la società europea e, nello specifico, come sia stato possibile l'articolazione della Rivoluzione scientifica, che tanto contribuirà all'emergere della scienza moderna. A cavallo tra '400, '500 e '600, la civiltà occidentale conobbe, in svariati campi, una serie di innovazioni tecnologiche e filosofiche e scoperte scientifiche che mutarono radicalmente gli assetti culturali europei. Grazie all'invenzione della stampa a caratteri mobili ad opera di Johannes Gutemberg (1399 ca-1468), la divulgazione scientifica in senso ampio e la comunicazione divennero fondamenta di un modo nuovo di intendere la conoscenza ed i contatti umani. Forti furono gli impulsi, politici, economici e sociali che spinsero le potenze europee del periodo a finanziare grandi viaggi di navigazione e scoperta che portarono ad un'espansione, senza precedenti nella storia, della civiltà e della cultura occidentali, spesso correlata ad invasioni non pacifiche e a sfruttamento indiscriminato delle nuove terre scoperte. Il 12 ottobre del 1492, il navigatore genovese Cristoforo Colombo (1451-1506) approdò su terre nuove che vennero successivamente ribattezzate americhe.
Nel 1517, sulle porte della cattedrale di Wittemberg, un teologo e monaco agostiniano, Martin Lutero (1483-1546), espose le proprie tesi teologiche che attaccavano duramente il potere temporale della Chiesa di Roma ed alcuni dogmi fondamentali del pensiero religioso cattolico, dando così inizio ad una considerevole rivoluzione teologica, politica e filosofica, la Riforma Protestante che, grazie anche al contributo di innumerevoli teologi e filosofi entusiasti quasi da subito del pensiero protestante, come Giovanni Calvino (1509-1564), pur dividendo l'Europa in due grandi assetti culturali di cui ancora oggi sentiamo il peso specifico, portò alla ribalta temi di valenza enorme per l'umanità, come la responsabilità individuale, l'immediatezza del rapporto con il divino, e l'importanza dell'agire pubblico come sviluppo etico, economico e politico, correlato ad istanze morali da cui non prescindere. Anche la Scienza ebbe sviluppi, fino allora impensabili grazie anche alle riflessioni epistemologiche di grandi studiosi come Francis Bacon (1561-1626 ), uomo politico e pensatore d'eccezione che, fornito di un sottile pragmatismo tipico della cultura anglosassone, rivoluzionò il mondo della ricerca scientifica ed il modo stesso di intendere ed utilizzare la scienza, criticando e demolendo il monumento della logica aristotelica, quell'antico e scricchiolante edificio con cui ogni intellettuale del tempo doveva ancora confrontarsi50. Per Bacon diviene fondamentale produrre una prassi scientifica di natura fortemente empirica, capace di organizzare i molti dati sensibili raccolti e di pervenire, attraverso l'induzione, ad un ampliamento della conoscenza. Altro grande scienziato e filosofo, il cui nome sarà legato in prima persona a quella che verrà conosciuta come Rivoluzione scientifica, è Galileo Galilei (1564-1642), che partendo da una consistente base empirica, cercherà in tutti i modi di coniugare l'osservazione, la sperimentazione e la misurazione dei dati creando l'approccio sperimentale che lo scienziato definirà metodo. Galileo, interessato a problemi astronomici, comprese, inoltre, come l'ipotesi copernicana di un sole al centro del Creato,con la Terra e tutti gli altri corpi celesti ad orbitare intorno a questa stella, fosse il modello cosmologico più attendibile51. Questa ipotesi, insieme alla proposta del metodo sperimentale, andò a rivoluzionare, in svariati settori, il pensiero e la cultura occidentale fino allora dominante, capovolgendo la concezione di uomo come centro della conoscenza e spostando l'attenzione sulla natura e sui fenomeni fisici connessi. Il metodo sperimentale di Galileo, composto da ipotesi, osservazione, verifica, misurazione e teorizzazione, diventerà ,così, paradigmatico per la comunità scientifica e forte sarà sempre più l'esigenza di raccogliere dati, operazionalizzarli e sistematizzare le ipotesi in teorie.
Un altro grande scienziato e pensatore, la cui opera sarà fondamentale per lo sviluppo del pensiero scientifico moderno, fu René Descartes, meglio conosciuto come Cartesio (1596-1650), teorizzatore del metodo scientifico moderno. Secondo Cartesio, per comporendere ed impadronisrsi di una conoscenza veritiera, occorre dotarsi di un Metodo, cioè di un procedimento efficace e coerente con cui raggiungere la certezza della propria meta conoscitiva. Vero ed evidente è ciò che si presenta chiaramente alla percezione umana, evidente è quindi ciò che può essere compreso secondo le leggi della matematica52. Nodi fondamentali del Metodo saranno l'evidenza, l'analisi, la sintesi e l'enumerazione completa dei problemi. Secondo Cartesio, per giungere ad una prassi scientifica corretta, il processo doveva essere sostenuto dal dubbio metodico, una visione fortemente critica ed analitica di ipotesi e teorie. Il pensiero di Cartesio influenzerà in modo consistente la scienza medica il cui sviluppo sarà possibile grazie alla concezione del filosofo francese legata alla separazione complessiva dell'idea di corpo dall'idea di anima che sarà conosciuta come dualismo cartesiano. Questa visione dualistica, consentirà di concepire il corpo come una macchina da poter studiare fino nei più intimi dettagli, dando un forte impulso agli studi e alle ricerca nel campo medico, come mai accaduto prima di allora.
A partire dal 1500, grazie al forte sviluppo dell'interesse per le scienze fisiche, prenderà campo, in ottica medica, l'orientamento che verrà conosciuto come iatromeccanica che influenzerà la comunità scientifica, parallelamente all'approccio iatrochimico. Con la rivoluzione metodologica galileiana, che puntava alla matematizzazione dei fenomeni naturali e all'uso di modelli meccanici, consistente fu la creazione di situazioni sperimentali e questo rese possibile dimostrare, per esempio, la circolazione del sangue. Gli esperimenti di William Harvey (1578-1657) confutavano la dottrina galenica, dimostrando che la quantità di sangue che passa attraverso l'aorta in un giorno è tale che non può essere prodotta dal fegato a partire dagli alimenti53. Harvey, forte anche di un'eredità di studio inerente l'anatomia che, dopo l'avvento di Andrea Vesalio e dei grandi anatomisti delle università di Padova e di Bologna, era ormai scienza sperimentale raffinata54, nella sua prassi sperimentale, utilizzò un approccio matematico che fino ad allora non veniva preso in considerazione. Tale approccio stimolò la misurazione sistematica dei fenomeni anche in medicina e l'affinamento delle prassi sperimentali. Lo sperimentalismo e la diffusione del microscopio determinarono l'abbandono della filosofia aristotelica, in favore di una concezione meccanicistica, e all'idea di una finalità funzionale delle attività vitali si sostituirono le forme ed i movimenti di particelle materiali, ovvero le forze che si esercitano tra esse. La nuova concezione meccanicistica puntava in pratica a spiegare i fenomeni vitali sulla base degli stessi principi del mondo fisico inanimato55. Importanti medici e scienziati come Alfonso Borelli (1608-1679) e Giorgio Baglivi (1668-1706) proposero ipotesi e sperimentazioni indirizzate ad un approfondimento in senso meccanicistico dell'osservazione dei fenomeni naturali. Baglivi era fermamente convinto che le malattie derivavano dall'azione dei solidi, nome con cui definiva le strutture solide dell'organismo, in particolare da difetti di funzionamento delle fibre elementari di cui sono composti56.
La prassi sperimentale ed il metodo scientifico, dopo i primi enormi contributi epistemologici di uomini di scienza come Galilei e Cartesio, andò affinandosi sempre più in direzione di un empirismo, a tratti radicale, grazie ai contributi di studiosi, scienziati e filosofi come John Locke (1632-1704), Isaac Newton (1642-1727) e David Hume (1711-1776), che inaugureranno la spiccata passione dei filosofi e scienziati di cultura anglosassone per il dibattito epistemologico e per la dfottrina della scienza.
Con l'avvento della Rivoluzione scientifica e l'innovazione metodologica data da prassi osservativa e sperimentale di natura empirica, anche il dibattito sull'eziologia delle patologie, tra infezione e contagio, che già precedentemente aveva preso campo, ottenne un notevole impulso, grazie alle ipotesi e alla sperimentazione di diversi scienziati che, abbandonando in parte le vecchie teorie umoraliste di matrice ippocratico-galenica, ottennero fecondi risultati dal punto di vista clinico ed epistemologico. Un medico come Thomas Sydenham (1624-1689), pur impostando un neoippocraticismo di fondo alle basi della propria dottrina, propose il concetto di “costituzione epidemica” dando ampio risalto, in un'ottica di contagio, alle cause esterne di natura patogena. Il dibattito acceso intorno all'eziologia delle patologie, tra sostenitori del contagio e quelli dell'infezione, si protrarrà per diversi secoli e molti saranno i medici, ricchi sempre più di conoscenze e competenze fisiologiche e fisiopatologiche, che si opporranno alle dottrine che facevano del contagio la causa primaria di malattia. Francois Magendie (1783-1855), padre della medicina sperimentale francese, fu acerrimo nemico dell'ipotesi relativa al contagio, insieme ad un altro medico francese, Francois Brussens (1772-1838), propenso a delineare nell'infiammazione la causa onnicomprensiva delle malattie. La teoria del contagio, però, superati gli scogli che la legavano ad una vetusta impostazione ippocratico-galenica, trovò nuova linfa nell'ipotesi dell'aggressione da parte di microrganismi elaborata dallo scienziato Pierre Bretonneau (1778-1862).
A partire dai contributi fondamentali di scienziati, medici e filosofi che avevano proposto e prodotto la Rivoluzione scientifica, anche grazie alle influenze culturali, scientifiche e sperimentali che avevano fatto da premessa al grande rivolgimento metodologico ed epistemologico del XVII° Secolo, la scienza dell'Europa moderna, acquisì, nei secoli successivi, maggiore ampiezza di orizzonti e strumenti sempre più raffinati, elementi che consentirono, da un punto di vista pragmatico, la cura e la cancellazione di patologie, le più svariate, che, nel corso della storia, avevano colpito e cancellato dalla faccia della Terra, milioni di esseri umani.
Il XVIII° secolo, il secolo in cui si produssero, nell'ambito della cultura occidentale ulteriori rivoluzioni culturali e sociali, dall'articolazione della metodologia critica e dell'etica dell'Illuminismo, alle rivoluzioni politiche ed economiche della fine del Settecento, vide un considerevole affinamento delle teorie e delle pratiche mediche. I tre sistemi medici comunemente ritenuti più emblematici dello spirito del secolo, furono quelli di Stahl, Hoffmann e di Boerhaave. Tutti e tre questi medici-filosofi concepirono una teoria dell'organismo, sano e malato, ovvero una fisiologia ed una patologia, da cui ricavarono indicazioni terapeutiche57.
Georg Ernst Stahl (1660-1734), intendeva la scienza medica lontana dalla fisica e più interessata ai fenomeni vitali guidati dall'anima. Il corpo, per Stahl, è formato da fibre solide e fluidi, ma l'origine dei movimenti e delle funzioni risiede nell'anima immateriale58 e la causa principale della malattia risiederebbe nella disregolazione del controllo dell'anima sui processi vitali. Al contrario di Stahl, Friederich Hofmann (1660-1742) concepì la medicina nell'ottica del sistema meccanicista e il medico come uno scienziato con solide competenze nell'ambito delle scienze esatte. Le malattie, per Hofmann, deriverebbero da disturbi dei movimenti, aumentati o diminuiti, o da modificazioni delle quantità e qualità degli umori, i trattamenti dovrebbero mirare a diminuire il tono o ad aumentarlo, a evacuare gli umori o a modificare la crasi59.
Anche Hermann Boerhaave (1668-1738), terzo grande medico e scienziato del periodo, rimase ancorato ad una spiegazione meccanicista della fisiopatologia, concependo il corpo umano come macchina fisica sottostante alle leggi della materia, alle forze ed all'idraulica, articolando una teoria corpuscolare della materia che prevedeva la salute come equilibrio dei fluidi corporei e la malattia come disequilibrio complessivo degli aspetti idraulici dell'organismo.
Boerhaave pensava che per ogni malattia fosse possibile identificare segni distintivi che non si trovano mai in altre e perciò detti “patognomonici” e che il modo corretto di procedere consisteva nell'esaminare il malato, valutare la malattia e quindi elaborare una teoria60.
Dalla seconda metà del Seicento in poi, divenne considerevole la proposta teorica ed applicativa inerente le varie forme di tassonomie nosologiche, che consentivano di raggruppare segni e sintomi in base alle diverse patologie riscontrate e di procedere ad una descrizione che si voleva il più scientifica ed oggettiva possibile, descrizione che avrebbe consentito una maggiore conoscenza ed una maggiore generalizzazione in funzione della cura.
Anche il metodo anatomo-clinico, con le sue iniziali propensioni localizzazionistiche, ebbe forti impulsi in questo periodo. Medici come l'italiano Giovanni Battista Morgagni (1682-1771), descrissero in modo sistematico le alterazioni prodotte sui corpi dalle malattie, dimostrando che le patologie sono localizzate in organi specifici, che i sintomi seguono le lesioni anatomiche e che questi cambiamenti morbosi dell'organismo sono responsabili della malattia61.
Morgagni riuscì a sganciare la concezione medica di malattia allora predominante, legata a teorie ed ipotesi di natura prevalentemente metafisica ed ontologica, e a correlarla ad una più concreta dimensione di osservazione clinica ed anatomica dai forti risvolti somatici e fisiologici.
Medici come Gaspard-Laurant Bayle (1774-1816), René-Theophile-Hyacinthe Laennec (1781-1826) e Jean-Nicolas Corvisart (1755-1821), successivamente vollero approfondire il metodo anatomo-clinico, collegando la concezione di patologia all'osservazione dei tessuti e degli organi colpiti, localizzando gli attacchi delle malattie che divennero così forme cliniche ben descritte e strutturate.
Grazie al contributo puntuale e mirato dei medici legati al metodo anatomo-clinico, furono inventati apparecchi per esplorare le cavità del corpo, accessibili attraverso canali anatomici naturali come il retto, lo stomaco e la vescica urinaria e innovativa divenne l'introduzione del microscopio nella diagnostica62.
Il XIX° secolo ed il XX° secolo, si apriranno così ad una forte carica innovativa, sperimentale e clinica, nata e sviluppatasi grazie ai contribuiti scientifici ed alle proposte teoriche andate articolandosi nei secoli della Rivoluzione scientifica. L'epoca della nostra contemporaneità, non potrà più esimersi, così, dal pensare alle patologie come a processi di modificazione, locale o complessiva, di un organismo che verrà conosciuto sempre più nel dettaglio grazie ai contributi di analisi ed osservazione clinica e diagnostica, portando, in determinati momenti, anche all'estremo, le concezioni deterministiche e meccanicistiche, sostenute da uno scientismo di matrice positivista, che, in diversi casi, ha consentito il progresso scientifico necessario per avanzare nella conoscenza e nella cura, in altri casi, ha corso il rischio di sostituire epistemologicamente la religione classica alla religione della venerazione incondizionata della scienza.











4.2 LA MALATTIA NELLA CONTEMPORANEITA'





Durante il 1700, forti furono le impostazioni culturali e, più nello specifico, epistemologiche legate ai concetti di razionalismo illuministico e di determinismo empirista. Queste concezioni influirono anche sul progresso della dimensione scientifica, contribuendo ad una prassi categorizzante della scienza, vicina ad una classificazione perentoria dei fenomeni osservabili atta a consentire, dal punto di vista sperimentale, saperi e pratiche il più rigorose ed oggettive possibili. Con le battaglie complessive di laicizzazione delle coscienze, anche gli ultimi residui dell'influenza del pensiero religioso sulle pratiche mediche, abbandonarono il campo. Tuttavia, probabilmente come reazione ad un pensiero epistemologico dominante e a senso unico, con l'avvento della nascente sensibilità romantica del primo ottocento, si impose, nelle scienze, un pensiero principalmente legato alla dimensione olistica e naturalistica dell'esistenza umana, conosciuto come vitalismo, forte di contributi scientifici e di ricerca che volevano riportare l'uomo all'interno della natura, dopo tanto, forse troppo, meccanicismo deterministico, che, al suo apice, aveva previsto una lettura complessiva dell'organismo vicina all'idea di macchina, di meccanismo, di struttura alienata dalla natura. Gli scienziati vicini al vitalismo, intendevano reinserire i processi organici nel flusso dei processi vitali e naturali, leggendo, in chiave romantica, la natura come elemento pervasivo del cosmo. Questa parentesi sarà di breve durata poiché nel corso del XIX° secolo, si imporranno nel mondo occidentale, nuovamente correnti di pensiero che sposteranno l'attenzione culturale e scientifica verso chiavi di lettura scientiste e positivistiche, che consentiranno, anche grazie ai progressi tecnologici delle rivoluzioni industriali, una analisi dettagliata dei processi fisiologici e patologici fin nelle dimensioni microbiologiche e biochimiche. Queste concezioni, fortemente riduzionistiche, se da un lato favoriranno il raggiungimento di importanti traguardi in campo medico e scientifico, dall'altro saranno scalzate, in special modo nelle scienze umane, dall'esigenza, soprattutto a partire dalla fine Ottocento e nel Novecento, di rivedere l'uomo come sistema complesso e non riducibile alla sola somma dei singoli elementi che lo compongono, ma totalità in continua evoluzione ed interazione con il proprio interno ed il proprio esterno, totalità complessa che, a livello psicologico, elabora continuamente elementi consci ed inconsci, consapevoli ed automatici.
Con questa notevole evoluzione scientifica, tra Ottocento e Novecento, degli studi, delle ricerche, delle prassi cliniche e terapeutiche in campo medico, molte malattie debilitanti e anche le numerose patologie a carattere epidemico ed infettivo, saranno in parte debellate. Basti pensare, a titolo di esempio, al cammino di ricerca e di cura inerente una patologia altamente pervasiva e di antichissima presenza come la Tubercolosi. Anche le prassi sanitarie di igiene ambientale e di prevenzione delle malattie, avranno un considerevole peso a partire dal XX° secolo.
Da metà Ottocento in poi si affermeranno, dunque, i concetti sperimentali della microbiologia medica e parallelamente, anche in assenza di una approfondita consapevolezza diffusa del rapporto causale diretto tra microrganismi ed epidemie/pandemie, comincerà a ridursi l'impatto delle malattie infettive nei paesi sviluppati, fenomeno, questo, che incrementerà l'aumento di malattie cronico-degenerative, dovute a stili di vita inerenti l'aumento dei livelli di benessere e dall'incremento di popolazione anziana63.
Il metodo sperimentale, andato articolandosi fin dall'epoca della Rivoluzione scientifica e divenendo il simbolo più forte del processo di evoluzione delle prassi scientificamente fondate, nel corso dell'Ottocento e nel Novecento, diverrà processo costituente di ogni ricerca e di ogni studio preliminare alla teorizzazione e alla prassi clinica. L'osservazione sperimentale costituirà così la chiave di volta di percorsi scientifici volti a sostenere i costrutti teorici che la comunità scientifica impiegherà per dare risposte plausibili all'accadere dei fenomeni. L'epoca romantica, dopo una prima, dubbiosa, presa di distanze dal metodo sperimentale avvenuta nella medicina vitalistica, si appassionò nuovamente agli aspetti della fisiologia, soprattutto in relazione ai contributi scientifici del medico francese Francois Magendie (1783-1855). L'approccio sperimentale nel campo della fisiologia, verrà sostenuto con convinzione da altri medici dell'epoca come Claude Bernard (1813-1878) e Carl Ludwig (1816-1895) che orienteranno la ricerca nella direzione di un ferreo determinismo, causa-effetto, nella lettura dei fenomeni. Insieme allo studio e alla ricerca in campo fisiologico, intorno alla metà dell'Ottocento, diverranno importanti anche gli esperimenti e le teorizzazioni in campo istologico ed istopatologico. Bernard teorizzava un determinismo chimico-fisico assoluto dei fenomeni vitali, normali e patologici e assumeva il fatto che la fisiologia animale può essere considerata analoga a quella dell'uomo64. Forte dell'affermazione del concetto nominalistico in medicina, per cui le malattie non sono entità, Bernard, così, impose una lettura che voleva contrastare le ipotesi nosologiche, avvicinando le patologie a dimensioni naturali coinvolgenti l'intero organismo.
Con l'introduzione di una tecnologia di ricerca sempre più specializzata, diversi scienziati e medici come Jacob Schleiden (1804-1881) e Theodor Schwann (1810-1882) daranno inizio agli studi sulle componenti microbiologiche degli organismi, sulle unità di base di tutti i sistemi viventi che saranno conosciute come cellule. In campo strettamente medico, Rudolf Virchow (1821-1902), lanciava il programma della patologia cellulare con l'obiettivo di rifondare la medicina sulla fisiopatologia cellulare e sul metodo sperimentale e localizzando a livello cellulare la sede di tutte le malattie65. Per Virchow, la patologia e la sua predisposizione erano ben rappresentate da deviazioni del normale funzionamento della fisiologia cellulare, nello specifico dalla reazione abnorme della cellula e del suo interno a situazioni aggressive o anormali.
Con il progredire delle ricerche e l'affinarsi di metodi e strumenti, venne alla luce e si impose la batteriologia, che puntò sullo studio e sulla clinica delle cause eziologiche precedenti il palesarsi della patologia. A partire da Jacob Henle (1809-1885), preminente in medicina, divenne la dimostrazione dell'eziologia microbica di diverse malattie infettive e la possibilità di correlare, in alcuni casi, sia descrittivamente, sia sperimentalmente, la specificità clinica della malattia con i cicli di vita dei parassiti, approccio che trasformò il concetto microbico della malattia in un paradigma della patologia sperimentale66.
Immenso divenne così, in questo frangente, il contributo di scienziati e ricercatori come Louis Pasteur (1822-1896) che inaugurò, ufficialmente, la batteriologia medica. Altro grande scienziato che operò nella direzione della ricerca microbiologica, fu Robert Koch (1843-1910) che, postulando tre principi generali che all'osservazione consentivano di stabilire con sicurezza l'eziologia di una patologia in ambito microbico, dette ulteriore impulso alla definizione eziopatogenetica e agli studi in ambito clinico e terapeutico. Tuttavia i postulati di Koch furono concepiti lavorando con malattie infettive causate da batteri e di conseguenza non si applicavano alle malattie virali, fino a quando, nel 1931, non furono realizzate le culture cellulari che consentirono di coltivare i virus67.
Oltre alla riflessione otto-novecentesca sulle patologie di origine microbica e virale, consistenti furono gli studi paralleli sulle malattie carenziali ed immunitarie. In relazione alle patologie da carenza, venne posta attenzione alle condizioni igienico-sanitarie e socio-ambientali in cui versava la maggioranza della popolazione, applicando nella prassi clinica le scoperte e le ricerca che mettevano in luce come l'organismo di un soggetto avesse potuto incorrere in deficit disfunzionali che presto divenivano cronici e debilitanti.
Da un punto di vista immunitario, invece, fondamentale fu la scoperta, con la correlata nascita di una disciplina scientifica come l'endocrinologia, che le ghiandole sono organi che producono secrezioni interne. Una scoperta scaturita dalla dimostrazione che l'asportazione della tiroide causava mixedema, una condizione che poteva essere trattata efficacemente somministrando estratti di tiroide, dimostrazione che legava fortemente il concetto di deficit endocrino sl concetto più generale di malattia da carenza68.
Con lo sviluppo dell'immunologia e gli studi ad essa correlati, la medicina ottenne risultati sempre più consistenti, influenzando le pratiche cliniche anche nella contemporaneità, in special modo nella ricerca immunopatologica, indirizzata anche alla sperimentazione ed all'osservazione dei processi di iperattività immunitaria, ossia di quelle funzioni fisiologiche che diventavano patologiche ed aggredivano il corpo stesso. Il concetto di autoimmunità, a partire dagli anni sessanta del novecento, è divenuto capitolo centrale della ricerca biomedica ed un numero sempre maggiore di patologie cronico-degenerative è stato associato ad un'eziologia autoimmune69.
Anche la chirurgia, nel corso dell'Ottocento e del Novecento fece passi da gigante, riuscendo a smarcarsi dalla semplice attività artigianale a cui sempre era stata associata. Forte dei contributi di una ricerca anatomica sempre più consistente e dettagliata, la disciplina si specializzerà in prassi specialistiche all'avanguardia anche da un punto di vista dello sviluppo di tecniche di sedazione , di anestesia e di sterilizzazione complessiva di strumenti ed operatori, il tutto a favore di un'ottimale riuscita della prassi di cura e di intervento su acuzie e cronicità patologiche.
Per quanto concerne, invece, la malattia mentale, quelle discipline che, nel corso dei secoli si erano impegnate nella ricerca e nel trattamento terapeutico delle patologie psichiatriche, videro profondi rivolgimenti, e di impostazione complessiva, e di osservazione mirata su svariati aspetti, a partire dalla fine del XVIII° secolo e per tutto il XIX° secolo e il XX° secolo. Sganciata dalla lettura religiosa, la patologia mentale, venne studiata principalmente su due fronti, quello della terapia, della cura, in acuzie ed in cronicità, e quello della ricerca, anche nosologica e nosografica, per una categorizzazione di segni e sintomi. Per tutto l'Ottocento, i medici che si impegnarono in questo determinato settore della scienza, optarono per trattamenti terapeutici che, in base al paradigma di riferimento, cercavano di fare luce sui processi e sull'eziologia dei disturbi mentali. I principali paradigmi scientifici di riferimento gravitarono intorno agli approcci organicisti e agli approcci più strettamente psicologici. Nel Novecento, entrambe queste strade saranno percorse fino a portare alla grande rivoluzione delle neuroscienze contemporanee, della psicofarmacologia e delle terapie della parola o psicoterapie. L'evoluzione delle idee dominanti in psichiatria, in relazione alla malattia mentale, sarà, prima relegata agli aspetti biologici e neurologici. In seconda battuta, importanti saranno le teorizzazioni sugli aspetti psicologici, in ambito psicodinamico o cognitivo-comportamentale. Recentemente, grazie allo sviluppo e all'affinamento di tecniche di osservazione dal vivo con strumenti altamente raffinati, consistente è stata la convergenza, in un'ottica che si riferisce al paradigma della complessità, tra analisi degli aspetti biologici e neuroscientifici e approfondimento tecnico-metodologico delle terapie psicologiche, divenute sempre più importanti e funzionali alla cura e all'ascolto del paziente.
Complessivamente, la medicina di oggi, nella nostra cultura occidentale, ha fatto propri i contributi del percorso di sviluppo e di ricerca che, dalla Rivoluzione scientifica in poi (senza dimenticare quanto avvenuto nei secoli precedenti), ha prodotto evidenti risultati positivi, in più direzioni. Se è vero che, a causa di molteplici fattori, la medicina odierna spesso, può manifestarsi come una prassi difensiva che tende a voler mantenere uno status quo globale protettivo nei confronti degli operatori ma, limitato nei confronti dei pazienti, è pur vero anche che la medicina è una scienza, ad oggi, vivace, in fermento ed in continua evoluzione, tecnologica, metodologica e terapeutica. Uno dei principali filoni di ricerca, oggi, risulta essere quello della EBM, la medicina delle evidenze di base, che, agendo nella direzione del sostegno sperimentale e statistico alle pratiche cliniche, è propenso ad una standardizzazione replicabile e generalizzabile della terapia.
Per concludere questa lunga carrellata sul concetto di malattia nella civiltà occidentale, vogliamo riflettere su come, nel corso dello sviluppo culturale e scientifico dell'occidente, le due grandi dimensioni di analisi proprie del pensiero umano, quella somatica e biologica (legata alla scienza in senso stretto) e quella spirituale (legata alla religiosità nel senso più ampio del termine), si siano alternate quasi come percorsi a senso unico, nella lettura dei fenomeni, i più disparati possibili, e soprattutto, dei fenomeni che coinvolgono i grandi temi della vita, come quello della salute. Diventa ,così, importante, oggi, vedere come scienza e spiritualità, ai nostri giorni, contribuiscano sempre più a rendere al meglio, insieme, l'idea della complessità dell'essere umano, divenuto non più solamente un meccanismo somatico da riparare o uno spirito rinchiuso in un corpo da mortificare, senza riduzionismi o dogmi vicini ad un pensiero unico, anzi, fornendo utili strumenti di comprensione ed azione e aprendo fronti di sviluppo e di crescita, verso una medicina integrata ed una cura che sia il più possibile, a tutto tondo.

























CAPITOLO III

IL CONCETTO DI MALATTIA IN ALTRE CULTURE DEL MONDO





1.3 ALCUNE CULTURE DELL'ASIA E LA MEDICINA COME CONOSCENZA OLISTICA




Dopo aver ampiamente trattato il percorso di evoluzione e sviluppo che, nella cultura occidentale, ha avuto il concetto di malattia, consapevoli del fatto che una disamina approfondita meriterebbe molto più spazio, è ora la volta di volgere la nostra attenzione all'analisi degli aspetti etno-antropologici e culturali di alcune delle civiltà più interessanti provenienti da aree diverse del pianeta, nello specifico, dall'Asia e dall'America. La malattia tra le società principalmente a tradizione orale è un'esperienza assai complessa che coinvolge l'identità culturale di un gruppo intero e non si esaurisce nella sola sfera delle tecniche terapeutiche. Rappresentare una particolare condizione di malattia o di un processo di guarigione richiede anche che ci si confronti inevitabilmente con la natura umana. Si può pertanto comprendere il perché, tra queste società, ogni gruppo umano ha riversato nel campo della medicina i più disparati e intimi elementi della propria psichicità, delle proprie strutture mentali, e così pure delle proprie rappresentazioni collettive. L'estrema "modernità" nel concepire il concetto di salute, sta proprio nella più intima e giusta armonia tra il gruppo umano e l'ambiente, la natura che lo circonda, in una sorta di risultante equilibrio ecologico frutto del rispetto delle regole morali del vivere sociale, piuttosto che di un semplice equilibrio materiale tra gli organi interni del corpo.
Tuttavia pratiche, credenze e formule rituali incluse in ogni sistema medico-religioso ribadiscono il senso di dipendenza da un ordine di autorità sovrannaturali, sovraumane, preposte al controllo di una condotta lecita, nonché allo svolgimento retto dell'esistenza comunitaria. Questo sistema ha come obbligo la funzione cognitiva di spiegare e giustificare ciascun caso di malattia o di morte secondo una logica di causalità, che attribuisce in larga parte all'uomo la responsabilità del male o dell'esperienza di morte. Stregonerie, azioni di spiriti malefici, infrazioni di tabù, risentimenti degli antenati, sono perciò i molteplici e più frequenti motivi chiamati in causa quali responsabili di malattie e di morte.
Per l'Asia si tratteranno due culture di importanza considerevole, la cultura cinese e quella indiana, per l'America, si proporrà una analisi dettagliata sulla figura dello sciamano come medico e guaritore.
Certamente, uno studio comparato tra diverse culture, risulta sempre pregno di una notevole complessità data da percorsi evolutivi sostanzialmente differenti, seppur costruiti su radici comuni che, ad una prima osservazione, almeno per quanto riguarda le tematiche della presente trattazione, manifestano tuttavia una comunanza di intenti legati ad una visione finalistica dei processi di cura: dalla malattia, alla diagnosi, dalla terapia, al ripristino funzionale, totale o parziale.
Per iniziare questo percorso di analisi, tra malattia e cura, e nello specifico, in relazione ad alcune culture e civiltà rappresentative del mondo orientale, dell'area geografica dell'Asia, area considerata una vera e propria culla delle civiltà,
vogliamo presentare, a grandi linee, gli elementi di nostro interesse, propri del mondo cinese. Civiltà millenaria di fondamentale importanza nel panorama mondiale, anche la cultura cinese, fin dalle origini, si arricchì di un pensiero religioso, dai più disparati assetti, che pose le basi, nelle pur grandi diversità, all'evoluzione complessiva di quel mondo. Tra le due grandi visioni filosofico-religiose della Cina, il Confucianesimo ed il Taoismo, la seconda, a parere di diversi studiosi, si articolò e crebbe grazie alle solide fondamenta poste dalla prima, intorno alla seconda metà del primo millennio a.C.
Forti furono le contrapposizioni tra Lao Tzu e Confucio, che, seppur contemporanei e legati da un pensiero critico nei confronti della dinastia regnante del periodo, proposero soluzioni diverse per condurre gli uomini al cambiamento: per il Taoismo, era necessaria la arcaica semplicità del Tao, per il Confucianesimo, era necessario il ritorno alle virtù di carità e giustizia proprie dei santi imperatori del passato. Tuttavia, ad un'attenta analisi, risulterebbe che i concetti espressi dai due importanti pensatori, fossero presenti fin dai tempi più antichi. A Lao Tzu e Confucio, andrebbe però il merito, di una codificazione scritta ed insegnata, dei principi basilari di questi approcci filosofico-religiosi alla vita. Il maestro Lao Tzu visse intorno al sesto secolo a.C., nacque in un modesto villaggio della campagna cinese e divenne un funzionario imperiale. Durante il suo percorso di crescita spirituale, volle compilare un testo grazie al quale poter divulgare la sua filosofia e le sue dottrine. Nacque così il Tao Te ching, opera suddivisa in due parti, una per il Tao e una per il Te.
Per il pensatore religioso cinese, il Tao significherebbe, nello specifico, “Via”, con l'accezione di “modo di condursi, sistema”, e sarebbe una legge generale della natura, interconnessa con tutte le cose, la fonte prima del mondo e l'origine sostanziale e formale di ogni essere. Il Tao, energia metafisica, si individuerebbe nelle cose, attraverso il Te, che, per Lao tzu, sarebbe potenza, vigore ed efficacia.
Tutte le cose esistono nel Tao ed il Tao è presente in ogni cosa. L'equilibrio complessivo di ogni singolo individuo è dato dall'equilibrio del rapporto tra soggetto ed universo. La malattia, il disequilibrio, sono dati, quindi da una rottura della relazione armoniosa tra energia cosmica ed essere umano, pensiero questo che, anche nelle origini della scienza medica occidentale, è fermamente presente come si è potuto vedere più sopra. Fin dai primordi, il Taoismo, postula fermamente l'esistenza di bisogni spirituali e di bisogni corporei, bisogni che vengono nutriti dall'esercizio della moralità, per quanto concerne lo spirito, e da pratiche di ordine dietetico, sessuale, respiratorio ed alchimistico, in relazione al corpo. Soprattutto gli esercizi fisici inerenti specifiche dimensioni fisiologiche, divengono importanti prassi preventive in funzione dell'equilibrio cosmico da preservare. Anche dal Taoismo, come dal Confucianesimo e dai vari influssi che si articoleranno e produrranno la millenaria cultura cinese, si svilupperà quella pratica medica conosciuta come Medicina Tradizionale Cinese (MTC), che, ad oggi viene riconosciuta come importante fattore di prevenzione e di sviluppo della salute dalla Nazione Cinese. La Medicina Tradizionale Cinese, è una scienza olistica in quanto considera tutta la realtà come unica e l'uomo come microcosmo inserito in un macrocosmo onnicomprensivo. L'uomo, in sintesi, viene visto come un sistema aperto, connesso con l'ambiente ed in continuo scambio energetico con il cosmo.
Importanti, come abbiamo visto, furono per la cultura cinese, i fermenti intellettuali e religiosi che contribuirono alla strutturazione di un pensiero complesso e volto alla riflessione sui grandi temi dell'esistenza, dell'energia cosmica, della vita e della morte che fece nascere sicuramente da questi presupposti, delle tecniche terapeutiche di notevole pregio come il Qigong, lo Shiatsu, la dietoterapia, la fitoterapia, l'agopuntura e la moxibustione, tecniche queste ultime, di grande impatto anche in Occidente.
Con lo sviluppo di numerose correnti di pensiero e di nuove tecniche terapeutiche, anche la Medicina Tradizionale Cinese vide il fiorire di più scuole di pensiero e la più antica suddivisione all'interno della scienza medica cinese, la si può trovare tra medici colti o studiosi, che fondavano la loro scienza sullo studio accademico dei classici e medici plebei o marginali, legati alla prassi comune quotidiana. Ad oggi vi sono numerose prove documentarie su studi e pratiche delle scuole mediche, testi di notevole interesse per gli studiosi. Con lo sviluppo delle ricerca e della pratica clinica, fiorirono anche le scuole universitarie dove si formavano i giovani medici e gli studiosi e la produzione trattatistica anche nel campo della farmacologia.
L'Agopuntura divenne, nel corso dei secoli, la prassi clinica più adottata, consentendo ai clinici di sperimentare con ampi margini di successo, sempre nuove applicazioni e nuovi strumenti inerenti.
L'origine dell'Agopuntura si perde nella notte dei tempi e, secondo gli studiosi, tale tecnica si svilupperebbe in ambito magico-religioso e probabilmente il suo primo periodo di utilizzo, con forme apotropaiche, si potrebbe far risalire al neolitico (8000- 5000 a.C.). Sviluppatasi poi, nel corso dell'evoluzione della millenaria cultura cinese, l'Agopuntura si legò strettamente alla Medicina Tradizionale Cinese e fino alla sua marginalizzazione, a partire dal Novecento e dalla Rivoluzione culturale maoista, che adottò i principi e le pratiche della medicina occidentale emarginando nelle campagne e nelle comunità rurali i medici che adottavano tecniche tradizionali, rimase il più importante strumento clinico-terapeutico in uso.
Divenuta così una delle pratiche cliniche principali nella Medicina Tradizionale Cinese, l'Agopuntura si vide utilizzata da diverse scuole mediche. Tra le principali, troviamo la Scuola del Nei Jing, per la quale le malattie erano date da problemi di circolazione e di stasi dei flussi energetici vitali; la Scuola dello Shan Han Lung, che si occupò delle patologie esterne da freddo o da calore utilizzando i principi della fitoterapia; la Scuola dello yin e dello yang, che propose la malattia come causata da vuoti o stasi dei principi vitali dello yin e dello yang; la Scuola dei cinque movimenti, attiva ancora oggi, che fa riferimento a leggi come inibizione, attivazione e disprezzo ed utilizza pratiche come l' agomoxibustione, la fitoterapia e la dietetica; la Scuola del Ming Men che applicò all'eziologia delle malattie l'idea della carenza di energia (qi) e di sangue (xue); la Scuola della moxa, che trasformò la prassi dell'agopuntura in una tecnica di sollecitazione calorica di vari punti della cute, tecnica, ad oggi, studiata anche da scienziati occidentali, incuriositi dai processi biochimici innescati dall'uso di moxe che vanno a stimolare la batteriolisina ematica, l'anticorpopoiesi splenica, il titolo anticorpale ed il livello della blastizzazione linfocitaria segnalare, a parere di chi scrive, per l'interesse antropologico e per la direzione altamente spirituale e psicologistica intrapresa, due scuole, nate in epoca molto antica, da un lato, la Scuola della guarigione cosmica, che sviluppò pratiche mediche e preventive peculiari come il massaggio, la ginnastica, il TaiJiquan e tutta una serie di complessi rituali alchemici di tipo meditativo, dall'altro lato, la Scuola sciamanica ed invocativa, basata su formule magiche e talismani ed imperniata su un simbolismo dal forte valore emozionale.
Altra grandissima ed antichissima cultura, in area asiatica, sorta intorno al fiume Indo, è la cultura indiana. L'origine di questa civiltà si perde nella notte dei tempi ed essa si sviluppa, nel corso dei millenni, grazie a continue migrazioni, verso la terra indiana e fuori da essa, migrazioni foriere di notevoli contaminazioni culturali, non da ultime quelle proposte dagli studiosi come origine delle civiltà sparse sul suolo europeo grazie alle influenze dei popoli indo-europei.
Di grande interesse, per il tema di questa trattazione, sono le concezioni della medicina e della salute sviluppatesi nelle culture che hanno dato vita alla civiltà indiana, la principale delle quali risulta essere l'Ayurveda, conosciuto come il più antico sistema di teorie e prassi di medicina.
Le prime testimonianze che provano l’esistenza di un sapere medico organizzato sono rintracciabili nell’Atharva Veda e possono essere datate forse intorno al 2.000 a.C.
L'Ayurveda, a detta degli studiosi, nasce e si sviluppa nell'India Vedica per migliaia di anni ed il termine che denomina questo composito insieme di tecniche e teorie significa letteralmente “La Scienza della Vita”, dal sanscrito AYUS, o “vita” e VEDA o “scienza”. Fondamentali rimangono per tale sistema medico, i concetti della presa in carico terapeutica della salute e delle vita umana, in ogni possibile sfaccettatura, psicologica, fisiologica, comportamentale ed ambientale, aspetti che, in una visione olistica, possono venire intaccati dalle malattie, concepite, in ultima istanza come squilibrio dei componenti fondamentali della fisiologia, combattute anche con la prevenzione, intesa non semplicemente come diagnosi precoce, ma piuttosto come insieme di metodi volti a promuovere e rafforzare lo stato di benessere e di salute.
Grazie alla consistente importanza della trattatistica medica in ambito culturale indiano, possiamo oggi ricostruire tutte le raffinate concezioni inerenti salute e malattia, che fanno parte del bagaglio filosofico e scientifico della civiltà indiana. Nel trattato chiamato “Sushruta samhita”, antichissimo testo dell’Ayurveda, si può trovare una interessante definizione di salute: “La salute è quella condizione nella quale i principi fisiologici del corpo sono in equilibrio, la digestione è efficiente, i tessuti sono in condizione normale, le funzioni escretorie sono regolari e mente, sensi e spirito sono pienamente appagati”.
Analizzando questi assunti di origine arcaica, è facile notare come primari risultino per il benessere e la salute, anche gli aspetti psicologici ed emozionali, volti ad integrare una concezione antica e tuttavia modernissima, inerente la salute ed il benessere come condizione positiva di equilibrio dinamico e non come situazione negativa legata a disordini manifesti.
Una delle teorie mediche più importanti, nel complesso corpus torico ayurvedico, è senza dubbio la teoria dei Dosha.
Secondo la dottrina ayurvedica i principali fattori fisiologici che occorre mantenere in equilibrio per conservare la salute sono i tre Dosha. I Dosha sono definiti da S. Sharma come “gli ultimi irriducibili principi metabolici che governano l’intera struttura psicosomatica dell’uomo”. Nella loro condizione di equilibrio essi mantengono la salute, mentre in quella di squilibrio causano le malattie. Il termine Dosha significa letteralmente “impurità”, con evidente riferimento alla possibilità di determinare malattie. I Dosha sono tre: Vata, Pitta e Kapha: Vata rappresenta il principio del movimento e dell’attivazione. Esso presiede alle funzioni nervose, circolatorie, respiratorie, escretorie e di locomozione. Pitta rappresenta il principio della trasformazione e della termogenesi. Esso presiede alle funzioni digestive, metaboliche ed endocrine. Kapha rappresenta il principio della coesione e della struttura. Esso governa i fluidi, promuove la crescita e la forza, ed è responsabile della lubrificazione delle articolazioni e dell’immunità.
Diventa interessante ,così, osservare come, si possano analizzare in modo comparato, gli assunti di una dottrina antichissima come l'Ayurveda nell'ottica di una corrispondenza con le modernissime ipotesi della PNEI, psiconeuroendocrinoimmunologia.
Per il sistema dell'Ayurveda, la malattia costituisce uno degli aspetti, forse nemmeno il più importante, sui cui si focalizza la prassi clinica, costruita sulla conoscenza approfondita del paziente volta alla ricerca delle radici del problema e ad una più completa ed incisiva azione. La valutazione clinica, quindi, sarà orientata all'analisi del grado di disordine presente nella fisiologia del paziente ed il grado di ordine rimasto, facendo leva su quest’ultimo, da un punto di vista terapeutico, per ottenere una piena e duratura guarigione.
Nella prassi diagnostica dell'Ayurveda non si cercherà allora la definizione precisa della malattia ma una sempre più accurata ricerca eziopatogenetica ed un'analisi precisa di tutti i possibili fattori coinvolti nello scatenarsi della patologia.
Interessante diviene, in ultima analisi, presentare le svariate pratiche terapeutiche di cui si è arricchito, nel corso dei millenni, il sistema ayurvedico come l’impiego delle piante medicinali, preparate secondo ricette che risalgono il più delle volte ad oltre 2000 anni fa. La farmacopea ayurvedica è estremamente ricca, contando oltre 9000 piante. Ad essa ha attinto a piene mani anche la farmacopea occidentale che ha utilizzato piante come la Rawolfia serpentina, la Commiphora mukul e la Phyllantus amara, tanto per citarne alcune. Il principio di impiego delle erbe è rigorosamente allopatico, nel senso più stretto del termine. Ogni sintomo ed ogni problema vengono trattati con il loro opposto. Non si può non rilevare come in ciò l’Ayurveda sia estremamente moderna e vicina al pensiero della medicina attuale. La peculiarità delle preparazioni ayurvediche sta però nel fatto che esse contengono dei principi in grado di stimolare le difese interne dell’organismo e di risvegliare i meccanismi naturali ed intelligenti di autoriparazione ed autoguarigione che sono insiti nella natura stessa del corpo.
Ulteriori prassi terapeutiche da citare sono il drenaggio, le terapie comportamentali e nutrizionali e l'utilizzo di tecniche di rilassamento e proiettive basate su strumenti creativi, prassi terapeutiche che dimostrano ampiamente come l'Ayurveda sia, fondamentalmente, un sistema medico i cui fondamenti olistici tengono strettamente in considerazione l'unità mente-corpo.
Per concludere, chi scrive vorrebbe sottolineare che, nel corso dello sviluppo delle diverse culture, quella occidentale e quelle orientali, una profonda differenza sostanziale si è manifestata in considerazione del fatto che, mentre in Occidente abbiamo avuto un'evoluzione meccanicista e razionalista della scienza, basata sull'idea del dualismo mente-corpo di origine cartesiana e continue rivoluzioni scientifiche che spesso hanno fatto piazza pulita di dottrine e ricerche precedenti, in Oriente le ipotesi arcaiche legate all'idea della totalità e del legame tra corpo e psiche e del loro aggancio fondamentale con la natura e con il cosmo, hanno fatto da assunto inviolabile a qualsiasi possibile innovazione scientifica. Tuttavia, la notevole differenza tra il pensiero prevalentemente materialista e razionalista della scienza occidentale e il pensiero spiritualista e cosmico della scienza orientale, in questi ultimi anni è stata sanata con il tentativo, supportato empiricamente e sperimentalmente, di integrazione di teorie e prassi di quella ricerca scientifica conosciuta come medicina integrata, filone della ricerca che inizia a dare i suoi frutti.




2.3 ALCUNE CULTURE AMERINDIE E LA MEDICINA COME CONOSCENZA SCIAMANICA


Passeremo ora in rassegna, dopo aver affrontato a grandi linee il pensiero medico di alcune culture dell'Asia, le esperienze culturali di varie popolazioni amerindie che, a parere di chi scrive, risultano veramente interessanti e degne di riflessione. Il continente americano, è noto, ha visto l'affermarsi di popoli indigeni conosciuti come nativi americani, civiltà e comunità, prima dell'arrivo della presenza occidentale, dalla notevole raffinatezza culturale e dalla profonda complessità. Secondo gli studiosi, l'ipotesi più probabile è che circa 13.000 anni fa, il continente americano avrebbe visto una forte migrazione di gruppi umani che, attraverso una lingua di terra che univa i continenti asiatico ed americano, avrebbero popolato, da sud a nord, tutte le americhe, diversificandosi in etnie e tribù e dando origine ad imperi, regni e comunità.
Questa ipotesi è stata approfondita anche utilizzando i contributi delle scienze biologiche che hanno notato come la maggior parte dei nativi presenta caratteristiche somatiche affini alle popolazioni asiatiche: occhi allungati, zigomi sporgenti, con in più la quasi assenza di barba e capelli perlopiù scuri e lisci, solitamente neri; il gruppo sanguigno predominante è lo 0.
In Centro e Sud America, questi nativi americani costruirono importantissime civiltà come, Maya, Aztechi ed Incas, mentre, nel Nord America, gli indigeni erano prevalentemente dediti alla pastorizia e al nomadismo. Al giorno d'oggi, ancora molti nativi sono presenti nel continente americano, anche dopo la tormentata invasione e lo sfruttamento economico secolare portato avanti dagli uomini occidentali che, a parere di chi scrive, rappresentano un esempio classico di integrazione culturale forzata, imposta con armi e sotterfugi, a discapito della scelta di individui o comunità. Una prassi diffusa e complessivamente ben conosciuta, legata probabilmente all'idea occidentale, articolatasi nei secoli, ma presente fin dall'antichità, di Stato, sovrano, centralista burocratico ed unitario, in continua espansione politico-territoriale ed economica, senza nessun rispetto per minoranze etniche e culturali appartenenti ad altre tradizioni e ad altre evoluzioni storiche, che tanto ha permeato e continua a permeare il mondo dell'Occidente, Italia inclusa.
Consapevoli della moltitudine di orientamenti culturali e di civiltà presenti nelle americhe precolombiane, vogliamo tuttavia presentare due focus, per concentrare l'attenzione, che, chi scrive reputa di grande interesse in relazione alla panoramica etno-antropologica della presente trattazione. Il primo focus è inerente le culture dei nativi conosciuti come Indiani d'America e il secondo focus concerne le pratiche dello sciamanesimo sul continente americano. Per gli Indiani Americani la parola "medicina" significava molto più che una sostanza per poter ristabilire la salute e la vitalità ad un corpo ammalato o esaurito. Medicina significava "potere", forza vitale vista dentro ogni aspetto della madre terra, "completezza" e "integrità".La medicina di una persona era la sua energia, l’espressione del suo organismo vitale, significava anche "conoscenza", perché conoscere dà alla persona il potere di fare nella sua vita mentre senza non si otterrebbe altro che un deambulare cieco e sordo. "Medicina”, dunque, è tutto ciò che può sostenere l’uomo nel sentirsi collegato e in armonia con la natura e tutti gli esseri viventi ogni cosa che guarisce il corpo, la mente e lo spirito è medicina. Per reperire le risposte a un problema, gli uomini delle tribù indiane andavano nelle foreste o nelle mesas per osservare i presagi o i segni che li avrebbero aiutati e sostenuti nel processo di guarigione in questo modo essi si ricollegavano con i poteri superiori e i cosiddetti aiutanti di medicina. Noto agli studiosi è l'esempio di Manitonquat , uomo di medicina e leader spirituale degli Assonet Wampanoag, grande racconta-storie, il quale aveva fede nel potere che le storie hanno di guarire le persone, la comunità e perciò la terra stessa. Molto spesso le persone della comunità andavano da lui chiedendogli di insegnare loro come diventare sciamani e, se lui raccontava loro le estreme difficoltà del percorso, queste persone se ne scappavano via piene di disappunto, alla ricerca di qualcosa di più veloce. Questo esempio è estremamente significativo in relazione all'importanza di queste determinate figure di medici tradizionali nelle culture amerindie. Presenteremo in rassegna ora alcuni ulteriori esempi tratti da svariate ricerche di antropologi e studiosi che hanno raccolto numeroso materiale di indubbio fascino. Presso i Lakota, altra tribù indiana, si distinguono diversi tipi di medicine men: Il Wichasha wakan ovvero "uomo sacro" che a un antropologo apparirebbe come il classico "Sciamano". Per la cultura tribale dei Lakota, lo si può divenire in molti modi: fin da bambino il candidato dimostra particolare senso della solitudine e della contemplazione in rapporto all'ambiente in cui si trova a crescere ed anche se non ci può essere la certezza della sua propensione per entrare nel ruolo di sciamano, la figura più anziana della comunità, stimata e rispettata per la saggezza, lo porta alle cerimonie, gli narra le credenze e le tradizioni del suo popolo e farà in modo che un uomo sacro lo istruisca sulle cose spirituali. Il futuro sciamano, dopo l'apprendistato, così, potrà ricevere il potere da un animale, sia tramite un sogno, sia come risultato di una visione, oppure riceverà il potere da un altro Wichasha wakan, al momento della sua morte.
Altra figura di medicine man è il Pejuta Wichasha che significa letteralmente "uomo delle erbe" ossia il classico uomo di medicina che ha il potere di guarire i malati. Questo guaritore deve saper parlare la lingua Lakota, perchè lingua e religione sono strettamente correlate, deve inoltre possedere il potere di parlare con gli spiriti ed essere in grado di parlare il linguaggio segreto degli sciamani, l’hambloglaka. Deve conoscere i canti giusti per ogni medicina che utilizza e quelli delle cerimonie che esegue nel caso non li conosca o usi quelli sbagliati, tutto ciò che farà non avrà alcun effetto. Deve essere stato istruito nel suo lavoro da un uomo sacro più anziano possedere sincerità e sapere quando ha potere, infatti il potere va e viene e può svanire in un batter d’occhio. Può utilizzare una sola o diverse medicine perché a nessuno è consentito conoscerle tutte. Deve avere alcune cose essenziali per le cerimonie di guarigione cioè un’ala d’aquila, una borsa per la pipa, e una pipa di pietra rossa (per i Lakota). Deve avere un sonaglio e un tamburo cerimoniali per invocare l’aiuto degli spiriti, ed anche salvia, cedro ed erba dolce, che userà per le fumigazioni purificatrici. Ogni Pejuta wichasha ha la propria borsa di medicina, con le sue erbe medicinali e i suoi oggetti di medicina sacri che non presterà mai a nessuno nè dovrà farsi rubare, pena la perdita dei poteri e delle sue peculiarità. Egli apprende i segreti delle erbe da un esperto o da sogni e visioni. Un uomo di medicina sa dove e da quale direzione avvicinarsi ad un’erba e se essa sia efficace di giorno o di notte. Si dovrebbe sempre raccogliere l’intera pianta, compresa la radice e mai raccogliere una pianta con i semi che, se raccolta in modo non cerimoniale non farà guarire nessuno. Lo sciamano è capace di introdursi nella mente del malato e percepirne il dolore (questi sono principi di empatia e rispetto verso la natura). Presso i Lakota per chiedere l’aiuto di un uomo di medicina è necessario inviare come dono una pipa di pietra rossa, che lui poi restituirà. Alcune guarigioni vengono eseguite spiritualmente attraverso cerimonie, preghiere, sventolando ali d’aquila e attraverso l’atto di fumare la Sacra Pipa. In questi casi non si somministra alcuna medicina speciale mentre altre cure vengono effettuate preparando una certa tisana, un infuso o una poltiglia ottenuti da una pianta speciale cosa che spesso viene combinata con la capanna sudatoria.
Altra affascinante figura di medicine man è il Yuwipi che significa "lo scopritore", "il sognatore della Roccia", "l’uomo delle luci tremolanti", "colui che viene legato", "l’uomo delle pietre che rintracciano": queste sono alcune espressioni Lakota che indicano questa figura misteriosa, per il fatto inerente la cerimonia particolare di guarigione che solo lui può compiere. Ci si rivolge a lui quando un bambino si è allontanato e non lo si trova più, quando si perde o ci viene rubato qualcosa, quando una persona malata vuole sapere la causa della sua malattia. Allora l’uomo Yuwipi prepara il rito del mistero notturno dove attraverso la propria personale pietra sacra, si metterà in contatto con gli spiriti per conoscere ciò che è necessario sapere. La sua pietra è sempre perfettamente rotonda e spesso dipinta di rosso, ed è una "pietra che rintraccia". In questa pietra è incarnato Tunka, la roccia, il potere soprannaturale dell’inamovibile.
Wapiya, invece, è lo stregone e mago, temuto e ammirato al tempo stesso, a seconda dell’uso che fa del proprio potere infatti con la sua conoscenza positiva guarisce i malati, mentre nel suo aspetto negativo è il "custode delle ossa", lo stregone malefico che provoca le malattie. Un Wapiya buono può utilizzare un bastone di legno per perforare una vena e far uscire il sangue cattivo insieme alla malattia oppure può aspirarla con la bocca direttamente dal corpo del malato e poi sputarla via come avviene nei riti di guarigione peruviani.
Waayatan è il profeta, colui che è in grado di vedere nel futuro e di predire ciò che accadrà. Heyoka rappresenta il "contrario", colui che fa tutto alla rovescia. Heyoka è l’inversione dell’espressione hoka hey che i nativi indiani guerrieri gridavano lanciandosi nelle battaglie. Egli è un "sognatore del tuono", cioè deve aver sognato Wakinyan, gli uccelli del tuono poiché sognandoli diventa automaticamente un heyoka, che lo voglia o no. La sua figura fa entrare il divertimento nel sacro ma essere un heyoka è cosa importantissima perchè il suo potere è immenso, infatti può guarire in maniera incredibile o addirittura cambiare il tempo atmosferico quando sia necessario.
Nella tradizione di un'altra tribù nativa delle americhe, i Seneca, non viene mai svelato quali, tra i membri della nazione sono le persone di medicina. Una vera persona di medicina non dice mai "Io sono un uomo o una donna di medicina." Altri potranno dirlo di qualcun altro, ma è proibito dichiararlo di se stessi. Presso i Seneca una persona di medicina deve avere cinque requisiti: deve essere un consulente, cioè assistere gli altri aiutandoli a scoprire le proprie inclinazioni personali, la propria medicina e un buon sentiero da percorrere nella vita. Deve essere capace di impartire soluzioni tradizionali facendo uso della legge tribale e della saggezza. Deve essere uno storiografo dei ricordi della terra, cioè conoscere i racconti della creazione e i primi quattro mondi o età dell'umanità, come pure le profezie dei futuri quinto, sesto e settimo mondo. Deve essere un erborista e guaritore, cioè conoscere l’utilizzo delle piante medicinali e delle cure di guarigione naturali che derivano da madre terra. L’Erborista conosce anche la medicina delle creature animali e il modo in cui esse assistono gli uomini nel trovare cure spirituali o mentali. Questo talento include anche la capacità di riconoscere e diagnosticare le malattie del corpo, della mente e dello spirito. Deve possedere il dono della profezia ovvero essere un veggente, un sognatore o comunque essere in grado di comunicare con il mondo dello spirito a proprio piacere, poichè in qualsiasi momento potrebbe verificarsene la necessità. Deve avere la capacità di insegnare ad altri tutti gli aspetti della saggezza e della conoscenza, la sua esperienza deve essere condivisa perchè la medicina possa continuare a vivere e ad assistere le generazioni future. Fools Crow , morto nel 1989, capo cerimoniale dei Teton Sioux, considerato da molti il più grande uomo sacro dei nativi americani nell'ultimo secolo, definiva le persone di medicina " ossa vuote " attraverso le quali operano i poteri superiori agivano per curare il mondo e la terra, disse anche al suo biografo ed amico Thomas E. Mails: "Le ossa più pulite servono Wakan Tanka e i poteri superiori nel modo migliore; le persone sacre e le persone di medicina lavorano duramente per divenire pulite. Più l’osso è pulito, più acqua vi si potrà versare dentro e più velocemente scorrerà. Il potere ci arriva dapprima perchè facciamo di noi ciò che dovremmo essere, e quindi scorre attraverso di noi verso l’esterno, verso gli altri. Il potere prende il sopravvento nella vita di una persona sacra. Influenza ogni cosa di noi. Siamo in grado di guarire noi stessi e gli altri. Possiamo compiere viaggi con il nostro spirito fino alle dimore dei poteri superiori, e possiamo trasformarci in creature animali o in uccelli che vadano tra la gente a vedere cosa sta accadendo. Ma tutte le persone di medicina sono differenti dalla gente comune. Il modo in cui pensano è differente. Ciò che accade loro è differente. Comprendono cose dentro di sè che gli altri non capiscono. Sono questi pensieri e questa comprensione a far sì che raggiungano gli apici di potere necessari per il loro lavoro. Le nostre vite sono una danza di potere; la nostra gente lo vede e perciò ci onora. Non ho mai toccato nè alcool nè droghe; non ho nemmeno fatto uso del peyote come avviene nella Native American Church. Wakan Tanka è in grado di portarmi più in alto di quanto possa fare qualsiasi pianta."
Al termine di questa breve panoramica, raccolta dal materiale elaborato e presentato alla comunità scientifica da svariati studiosi ed antropologi, risulta evidente come, per le culture precolombiane e, nello specifico, per le culture dei nativi nord-americani, lo strettissimo legame tra dimensione sacra e sfera diagnostica e terapeutica sia imprescindibile. L'esistenza dell'uomo e la cura delle sue malattie non possono essere sganciate da una spiritualità che coinvolge la terra, i corpi, e le potenze superiori e ogni dimensione del vivere quotidiano risulta così pregna di una interazione continua con i riti e con il sacro.
Il secondo focus che si vuole proporre, legato in modo consistente con gli ambiti culturali che in questo paragrafo presentiamo ma che, in modo trasversale, attraversa la maggior parte delle culture umane, è una riflessione sulla figura e sulle pratiche dello Sciamano.
Mircea Eliade (1907-1986), enorme figura di studioso che si occupò, tra l'altro, nella sua ricerca, anche della figura dello sciamano, nel considerevole saggio “Lo sciamanesimo e le tecniche dell'estasi” propose di considerare lo sciamanismo principalmente come un fenomeno religioso siberiano e centro-asiatico. Secondo Eliade, attraverso il russo, il termine deriva dalla parola tungusa shaman. In altre lingue del centro e del nord dell'Asia i termini corrispondenti sono: lo yakuta ojun, il mongolo buga, boga e udagan, il turco-tartaro kam.
Per Eliade lo sciamanismo corrisponde ad una "specialità" magica particolare: implica il "dominio del fuoco", il volo magico e così via. Così, benché lo sciamano sia, fra l'altro, un mago, non ogni mago può essere qualificato come sciamano. La stessa precisazione, sottolinea lo studioso, si impone nel riguardo delle guarigioni sciamaniche: ogni medicine-man è un guaritore, ma lo sciamano utilizza una tecnica propria solo a lui. Quanto alle tecniche sciamaniche dell'estasi, esse non esauriscono tutte le varietà dell'esperienza estatica attestate dalla storia delle religioni e dall'etnologia religiosa: non si può dunque considerare un qualsiasi estatico come uno sciamano; questi è lo specialista di una trance durante la quale si ritiene che la sua anima possa lasciare il corpo per intraprendere ascensioni celesti o discese infernali.
Eliade, nell'articolazione del suo saggio Lo sciamanesimo e le tecniche dell'estasi”, presenta allora lo sciamano come “specialista” nei rapporti con gli "spiriti", dotato di capacità estatiche permettenti il volo magico, l'ascensione al cielo, la discesa agli Inferi, il dominio sul fuoco e così via. Per l'antropologo rumeno, i popoli che si dichiarano "sciamanici" danno un'importanza considerevole alle esperienze estatiche dei loro sciamani; queste esperienze li riguardano personalmente e direttamente, perché sono gli sciamani che, per mezzo della loro trance, li guariscono, accompagnano i loro morti nel "regno delle ombre" e fanno da mediatori tra loro e i loro déi, celesti o infernali, grandi o piccoli. Questa ristretta élite mistica non solo dirige la vita religiosa della comunità, ma in un certo modo veglia sulla sua "anima". Lo sciamano è il grande specialista dell'anima umana: lui solo la "vede", perché ne conosce la "forma" e il destino.
Abbiamo voluto citare alcuni interessanti passaggi tratti dal lavoro di Mircea Eliade, per introdurre, in questo paragrafo dedicato a culture che, nella maggior parte dei casi, hanno visto un prevalente utilizzo della figura dello sciamano come medicine man in relazione a malattia e salute, a rapporti tra sfera del sacro e dello spirituale e sfera del somatico e del fisiopatologico, l'idea, già sostenuta da molti scienziati ed antropologi, dell'importanza delle pratiche suggestive legate al sacro e alle figure carismatiche che, probabilmente, facendo leva su processi di reciproco influenzamento psico-somatico, da leggere anche in chiave transpersonale, giungono attraverso diagnosi e terapie, alla guarigione, psicologica e somatica, del paziente.
Lo sciamanesimo, dunque, come prassi gnostica legata a figura sacre e carismatiche, è una conoscenza antichissima e universale che si è diffusa in società molto diverse, dai cacciatori-raccoglitori del paleolitico fino alle società sedentarie e agricole più complesse. Si è preservato nella maggior parte delle comunità indigene e si è riadattato in quello che oggi, nella società occidentale contemporanea, è chiamato “neo-sciamanesimo”.
Uno dei temi fondamentali della conoscenza sciamanica, come premesso più sopra, riguarda la capacità di curare sia malattie fisiche che disturbi spirituali. Questa qualità terapeutica dello sciamanesimo, basata su una concezione integrale e multidimensionale della realtà, della persona e della salute, ci rivela il suo potenziale sanante e il suo potere spirituale. Ed è ciò che precisamente promuove, oggigiorno, il risorgere dell'interesse sullo sciamanesimo, un fenomeno che trascende il campo accademico e suscita inquietudini in un pubblico molto più ampio, poiché è un campo che ha grande risonanza e potenzialità per far riflettere e agire sui i problemi contemporanei.
Secondo la maggior parte di studiosi, dunque, gli sciamani svolgono la funzione di mettere in comunicazione i diversi piani di realtà e, grazie alla capacità di coltivare la facoltà di sdoppiare la loro coscienza, fanno da ponte tra le loro comunità e il sovrannaturale, ottemperando ad una diversità di funzioni come il divinatore, medico, saggio, officiante di cerimonie o perfino capo politico. Ciò che distingue gli sciamani e attribuisce loro questa identità tanto speciale è la loro capacità di uscire dalla realtà ordinaria, andare verso lo straordinario e saper ritornare, portando qui qualcosa che viene dalla loro connessione con questi altri piani sacri o sovrannaturali.
Gli sciamani si occupano specialmente di mantenere la comunicazione con le forze spirituali, del dialogo con gli spiriti degli animali, ai quali devono chiedere il permesso o la riconciliazione dopo una partita di caccia. Si occupano degli elementi della natura per portare la pioggia, scongiurare una siccità o fermare il fuoco; delle piante, da cui apprendono l'arte di curare le malattie del corpo e dell'anima. Si occupano anche dei morti, le cui anime a volte non vogliono partire, o delle stesse divinità che è necessario onorare e servire sempre.
Le attività e le competenze principali dello sciamano sono ,così, a parere degli studiosi, il viaggio in mondi differenti o piani della realtà; la capacità visionaria, facoltà scrutatrice che permette loro di vedere attraverso la materia e sapere quello che succede in altri mondi ed ,in un senso più ampio, la visione sciamanica o “l'occhio forte”, si riferisce alla capacità di ampliare la percezione ordinaria e avere visioni, o affinare la sensibilità per captare e vedere energie e forze sottili; la capacità di sdoppiare la sua coscienza ed entrare in uno stato di trance estatica. La trance è il veicolo del viaggio e per ottenerlo si utilizzano diversi mezzi tra i quali la vibrazione della musica, il canto, il ballo ripetitivo, le percussioni, il movimento fisico costante e, specialmente, l'assunzione di piante o sostanze psicoattive considerate sacre per l'uso esclusivamente rituale e curativo che se ne fa. Un elemento, a volte meno considerato nella tecnologia della trance, è l'uso e la realizzazione di immagini e icone, così come statuine, manufatti, vasetti o pezzi decorati, pitture sia sul corpo che su altre superfici naturali come cortecce, rocce o sulla terra stessa. Come risultato del viaggio, sopraggiunge la trasformazione dello sciamano, che comporta la sua morte e la sua resurrezione, così come la sua conversione in altri esseri, generalmente animali. Ciò è possibile grazie alla profonda connessione o consustansazione dello sciamano con le forze naturali e animali. L'arte sciamanica, in particolare precolombiana, è ricca di rappresentazioni in cui si integrano e si confondono gli attributi umani e quelli animali, con un'enfasi particolare sulla simbiosi tra il giaguaro e lo sciamano, o il serpente e lo sciamano, immagini che ci parlano delle possibilità sciamaniche dello sdoppiamento, della trasformazione e dell'accesso ad altri piani di realtà.
Il compito sciamanico è sempre di trasformare qualcosa: una malattia in salute, una siccità in pioggia, un segnale in annuncio. Potremmo dire che l'arte sciamanica per eccellenza è l'arte di trasmutare, di unire, di connettere per trasformare. Per questo deve imprescindibilmente attraversare l'esperienza della propria trasformazione personale che in linea generale implica, per prima cosa, la sua auto guarigione. E' attraverso le esperienze limite che lo sciamano apprende l'arte di curare, che in definitiva è sapere come trasformare la malattia, vincere la morte e rigenerare la vita. Le sue facoltà lo dotano della capacità di andare e venire dalla dimensione umana. In questo modo il suo lavoro ruota permanentemente sulla dialettica morte e rinascita, partendo da una visione cosmica in cui la morte non comporta una fine definitiva, ma piuttosto un passaggio a un altro stato di realtà. Uno dei principali poteri sciamanici è quello di riuscire a curare sia malattie fisiche che disturbi dell'anima, tanto che in molte culture, citando un esempio presentato più sopra, tra gli indiani delle praterie nordamericane, il termine che si utilizza come sinonimo di sciamano è “medicine-man” o “medicine woman”, che allude sia alla condizione di essere una persona di potere sia alla conoscenza dei metodi di guarigione. Nell'attuale Perù si chiamano anche curanderos o medico vegetalista, grazie alla profonda conoscenza sulle applicazioni e proprietà delle piante sia medicinali che psicoattive. E' interessante mettere in risalto che in questo stesso contesto culturale le piante psicoattive, considerate anche come piante maestre o di potere, sono genericamente designate come “la medicina”.
Questa qualità terapeutica, che lo sciamano esercita attraverso molti mezzi, è il risultato del suo lungo e doloroso processo di apprendimento e auto-guarigione.
Per quanto concerne le dimensioni di salute e malattia, esistono diverse tipologie di diagnosi e di terapie utilizzate dagli sciamani a seconda dell'origine del problema che devono trattare. I più comuni disturbi sono: l’intrusione di spiriti malefici, aderenze o oggetti magici nel corpo fisico o energetico della persona malata; la perdita dell'anima, di parti di questa o di qualcuna di queste anime, dato che, tra gli indigeni, la persona può essere concepita come dotata di varie anime; la rottura di un tabù o di qualche regola del gruppo, nel qual caso il compito dello sciamano è ristabilire l'ordine che è stato guastato o alterato dalla trasgressione; gli incantesimi o stregonerie si considerano come azioni di un altro sciamano stregone o mago che si dedica a fare del male, a volte per sua iniziativa e altre volte su richiesta di altri che lo incaricano di danneggiare persone.
Di solito le malattie vengono concepite come qualcosa di concreto che affligge la persona e lo sciamano deve intervenire anche praticamente; ma il suo intervento opera sempre su più piani simultaneamente, non solo nel corpo fisico, quanto piuttosto sul piano spirituale, mentale o, come diremmo oggi, energetico.
La cornice concettuale nella quale si concepiscono la salute e la malattia nella visione cosmica sciamanica è multidimensionale e fondamentalmente spirituale. Nonostante possa sussistere un agente esterno, un'aggressione, un trauma o qualsiasi altro evento violento, la radice o causa più profonda dei disturbi sta sempre in uno squilibrio o in una mancata armonia delle forze. La vera causa della malattia è la perdita dell'equilibrio. Per questo la terapia dello sciamano è chiaramente un lavoro energetico, una ricerca costante per restituire equilibrio. Questa è in definitiva l'essenza del lavoro sciamanico: assicurare la comunicazione, il flusso dinamico delle energie, fisiche, mentali, spirituali, attraverso il dialogo e la corrispondenza tra le forze o gli spiriti che operano nei diversi piani o diverse realtà. Lo studioso colombiano Carlos Pinzon, ha sostenuto, in numerosi interventi che “Gli sciamani sono coscienti del fatto che noi siamo energia fin da prima che esistesse la medicina bioenergetica. Sanno che il pensiero è una forma di energia, che ciò che fa muovere i circuiti del cuore e la circolazione sono forme di energia, che l'espressione verbale è una forma di esistenza energetica. Questo lo sapevano molto prima di noi. Gli sciamani sono specialisti in uno dei sistemi più importanti che ha il corpo nella gestione dell'energia, e cioè il sistema immunitario, che è quello che decide cosa deve entrare e cosa no.”
In sintesi, anche nel caso delle culture sciamaniche, a parere di chi scrive, è lampante la correlazione stretta, in relazione a malattia e salute, tra aspetti psicologici ed aspetti somatici ed anche in questo caso, come accennato per le medicine asiatiche, un forte momento di integrazione tra cultura medica occidentale e teorie e prassi terapeutiche di altre culture, si trova, senza ombra di dubbio, nella pratica sperimentale all'avanguardia e nella ricerca scientifica della PNEI.
Per concludere questa carrellata, che non può essere esaustiva in toto a causa della forma che deve assumere una trattazione di laurea, come nello specifico, chi scrive, reputa di estremo interesse proporre uno spunto di riflessione inerente il parallelismo tra culture che presentano a tutt'oggi figure di sciamani ed il mondo occidentale dove, parrebbe, non esistano più figure carismatiche legate alla cura ed al sacro. Tuttavia, un legame stretto, si può certamente ritrovare tra lo sciamano di altre culture e il medium, presente in considerevole modo, in tutti i secoli ed oggi, nella cultura occidentale. Essendo l'autore della presente trattazione un fervente ed appassionato cultore della psicologia del profondo, analitica e del pensiero di Carl Gustav Jung, non è sfuggito lo studio considerevole e documentato, portato avanti dallo psichiatra e psicologo svizzero, fin dalla tesi di laurea in medicina dal titolo “Psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti”, relativo ai processi psichici che oggi potremmo definire transpersonali, processi che possono essere considerati trait d'union tra sciamanesimo e medianità. Come espresso chiaramente più sopra, almeno in linea generale, secondo Mircea Eliade, lo sciamano è colui che, attraverso un percorso iniziatico che prevede, al suo termine, una morte simbolica seguita da una rinascita, ha raggiunto la possibilità di dialogare con una realtà e con esseri sovrumani. Vogliamo ribadire la concezione di Eliade, e nello specifico, riportare soprattutto gli aspetti peculiari del rapporto tra sciamano e realtà sovrannaturale. Lo Sciamano dunque, è un maestro dell'estasi perché può padroneggiare tale stato e servirsene per raggiungere, ogni volta che lo desideri, sia il mondo superiore degli dei, sia quello sotterraneo degli spiriti e degli antenati. Grazie a questo suo peculiare rapporto con le dimensioni ulteriori, e grazie agli insegnamenti che da esse può trarre, egli svolge l'importante compito sociale di guaritore, di consigliere, di indovino e di psicopompo oltre che, spesso, quello di capo spirituale e di custode delle tradizioni della propria comunità. In svariate culture umane, a tutt'oggi sono presenti queste figure carismatiche e terapeutiche e solo nei paesi cosiddetti occidentali esso sembrano scomparse da tempo. Meglio sarebbe dire che in Occidente lo Sciamano si è trasformato, che ha assunto nuove sembianze, un diverso modo di apparire. L'esasperato razionalismo e tecnicismo che caratterizzano la nostra cultura, insieme ad un rapporto della gente sempre più distaccato con la natura, hanno emarginato da tempo quei solitari e molto particolari personaggi che dovrebbero rappresentare il ricordo di un mondo ancestrale nel quale lo sciamanesimo era una costante di vitale importanza. Spesso, la nostra cultura e la nostra civiltà li hanno contrastati, se non eliminati fisicamente. Secondo Bruno Severi, cultore della materia, in Occidente, ma anche altrove, gli spiriti guardiani dello sciamano e degli altri membri della comunità tribale hanno preso le vesti dell'angelo custode. I rapporti con la dimensione trascendente sono stati fatti propri dai sacerdoti delle religione istituzionalizzate, che si sono presi pure l'incarico di svolgere quelle cerimonie, i riti funebri che, prima di loro, gli sciamani svolgevano per accompagnare agli inferi l'anima di chi era appena deceduto. L'iniziazione, che gli sciamani dovevano affrontare solo dopo essere passati attraverso difficili prove culminanti in una morte e in una resurrezione rituali, trova un parallelo nel sacramento del battesimo ( Eliade, 1954; 1984). Anche l'esorcismo, praticato ancor oggi nell'ambito della Chiesa cattolica, vede un preciso equivalente in uno dei compiti più tipici dello sciamano: quello di liberare, in chi ne è posseduto, dagli spiriti maligni. Qua e là per l'Europa assistiamo tuttora alla celebrazione di feste e cerimonie che, pur rivestite di una cornice cristiana, sono di chiare origini pagane e che tradiscono, in molti dei loro aspetti, alcuni caratteri antichi tipici dello sciamanesimo (Eliade, 1954; 1984). Ogni iniziativa personalizzata per raggiungere un'emancipazione spirituale al di fuori dell'ordine ecclesiastico costituito è sempre stata, talora con estrema durezza, osteggiata dai rappresentanti della Chiesa. Specialmente in passato, chi solamente udiva voci, o parlava con esseri invisibili, o dava prova di capacità che al giorno d'oggi definiremmo paranormali, o riteneva, infine, di avere raggiunto, in qualche modo, verità trascendentali non del tutto ortodosse, veniva, con i dovuti modi, ridotto alla ragione o alla pace perpetua. La stessa caccia alle streghe di alcuni secoli fa è stata interpretata come un tentativo fatto dalla Chiesa per eliminare, una volta per tutte, ogni residuo di riti e pratiche arcaiche e pagane che si sovrapponevano e si mescolavano alle ritualità cristiane (Eliade, 1984). Probabilmente, tra questi sciagurati figuravano anche gli eredi di quel mondo sciamanico che ha rappresentato, ed in parte rappresenta tuttora, un modo istintivo e personale di confrontarsi con una realtà che ci trascende. La figura del medium compare anch'essa in tempi molto antichi e raggiunge, ad un certo momento e presso le maggiori civiltà, una funzione sociale molto importante.
Severi, in molti suoi scritti, sostiene che il medium fosse quella persona prescelta dagli spiriti o dagli dei per comunicare agli abitanti di questo mondo i loro messaggi (profani, spirituali e profetici). Questo compito implica che il medium sia letteralmente posseduto da queste entità soprannaturali che, una volta penetrati in lui, usano il suo corpo e la sua voce per far conoscere i loro pensieri o per rispondere alle domande che vengono poste. Il medium è realmente un mezzo, uno strumento e, in quanto tale, è in genere inconsapevole durante la sua trance di ciò che avviene e di ciò che è comunicato (trance di possessione con incoscienza e successiva amnesia spesso totale).
Al contrario, i veri sciamani, dopo avere percorso il loro lungo cammino iniziatico, hanno imparato a produrre ed a controllare la propria trance e ad entrare in nuove dimensioni, a convivere con entità benevole o non, a trattare con forze estranee alla nostra usuale esperienza fenomenica. Essendosi lasciati simbolicamente morire nel corso del loro processo iniziatico, gli sciamani sono
nati ad una nuova vita all’interno della quale sanno padroneggiare con tecniche appropriate i misteri e le forze di questo nuovo mondo e dialogare con essi avendo superato ogni paura. Sono gli intermediari tra questo ed un altro piano esistenziale.
Un altro studioso, interessato al rapporto sciamano-medium-guarigione, Pierangelo Garzia (1993), in accordo con altri ricercatori (Bourguignon, 1979; Eliade, 1974, etc.), ha proposto l'ipotesi che gli sciamani presentino un atteggiamento attivo nei confronti delle loro esperienze, a cui si contrappone un atteggiamento passivo da parte dei medium. Per i primi c'è il conforto di una luce di conoscenza che li guida e li consiglia; per i secondi questo conforto è in genere assente ed essi subiscono passivamente esperienze che li trascendono e li trascinano come foglie al vento. Severi sostiene, inoltre, che i medium sarebbero, in definitiva, strumenti tenuti in mano da forze che albergano in altre dimensioni, anziché essere loro stessi chi sa padroneggiarle.
Tuttavia vi sono anche autorevoli voci, provenienti dalla comunità scientifica, che sostengono che tra le due figure in questione vi si una stretta parentela, come il noto parapsicologo John Beloff (1979), che, parlando di spiritismo, ha affermato: "La sua idea fondamentale, quella della comunicazione con gli spiriti dei defunti, sgorga da una venerabile tradizione occulta: gli sciamani e gli stregoni furono i predecessori dei medium". Lo stesso Mircea Eliade (1974), ci descrive alcune popolazioni presso le quali la vera tradizione sciamanica sembra in buona parte decaduta ed è stata gradatamente sostituita da manifestazioni con caratteri più spiccatamente medianici.
Abbiamo voluto proporre queste analisi finali su cura, sciamanesimo e medianità , oltre che per l'indubbio interesse scientifico, anche perché certi che l'Occidente tecnologico e razionale pur avendo negato o rimosso la propria anima ancestrale, simile a quella di tutte le altre culture umane, abbia visto e veda innervarsi tutt'ora, nelle proprie produzioni scientifiche e culturali, input, idee, suggestioni ed ipotesi, che fanno parte del patrimonio collettivo dell'umanità, dei vissuti sacri ed arcaici, di quello che Carl Gustav Jung chiamerebbe inconscio collettivo, senza ombra di dubbio, capaci di arricchire le proposte culturali e le intuizioni geniali della scienza, medica e non, per come l'abbiamo conosciuta e la conosciamo oggi.


















CAPITOLO IV

GRANDI MALATTIE







1.4 ANTICHITA', MEDIOEVO E RINASCIMENTO






Dopo aver trattato lo sviluppo del concetto di malattia nel mondo occidentale, sviluppo andato articolandosi a partire dalla sfera del sacro e poi giunto alle rivoluzioni scientifiche, al metodo sperimentale e alla medicina dell'evidenza di base, e dopo aver presentato, seppur per sommi capi, l'evoluzione di alcune teorie e di alcune prassi mediche di altre culture, vogliamo, con questo capitolo finale, proporre un excursus storico, medico ed antropologico, sulle grandi patologie epidemiche della storia e sui diversi metodi e diverse concezioni di approccio ai problemi. Chi scrive ha appositamente scelto di voler riflettere, utilizzando come filo conduttore di questo ultimo capitolo il prezioso saggio di Giorgio Cosmacini dal titolo “ Le spade di Damocle – Paure e malattie nella storia.”, sulle grandi emergenze sanitarie legate all'innescarsi di patologie epidemiche di vasta portata, sia in Occidente che in altre culture, perché consapevole che il coinvolgimento di considerevoli gruppi sociali e della trasversalità dell'azione devastatrice delle malattie sicuramente possono dare la giusta misura, e così fungere da lente di ingrandimento, su come, nel corso dei secoli, le comunità umane hanno reagito a morte e sofferenza. Il macro-fenomeno dell'epidemia di una qualche patologia, sincronico e diacronico, amplifica, in ultima analisi, tutti i micro-fenomeni, sincronici e diacronici, culturali e scientifici, che lo compongono, e risulta, così, interessante per lo studio e l'approfondimento antropologico.
Diverse discipline scientifiche e di ricerca si sono orientate verso lo studio dell'innescarsi delle grandi patologie nei secoli, la paleopatologia, che, grazie ai contributi di archeologia ed anatomia patologica, ha consentito di recuperare dati e testimonianze di enorme utilità, l'epidemiologia, disciplina di sintesi, che studia, da un punto di vista biomedico, la distribuzione e la frequenza di eventi patologici in una popolazione, l'antropologia medica, la medicina sociale e di comunità e così via.
Grazie ai contributi, agli studi e alle ricerche di queste discipline, oggi il patrimonio di conoscenze, relativo alle grandi epidemie del passato e a quelle odierne e all'elaborazione scientifica e culturale, sulla malattia e sulla cura, da parte dei gruppi umani, è giunto a livelli veramente imponenti. Tuttavia, il panorama antropologico rimane complesso e di impegnativa lettura.
Tra le prime patologie di forte impatto sociale e sanitario che colpirono le comunità umane all'inizio e nel corso della storia dell'uomo, troviamo la lebbra e la peste.
Già le antiche civiltà sorte intorno al bacino del Mediterraneo e nell'area mediorientale conoscevano una malattia devastante come la lebbra, patologia infettiva a carico del sistema nervoso e dell' apparato cutaneo il cui agente infettivo, il Mycobacterium leprae, fu scoperto solamente nel 1871 da Gerhard Hansen ( 1841-1912). Di origine antichissima, la lebbra, fin da epoche ancestrali veniva assimilata a diverse patologie cutanee. Appariva una malattia misteriosa o sacra – elephas sacer – che nella sua forma classica copriva il corpo di piaghe, attutiva la sensibilità, alterava la fisioniomia, faceva cadere a pezzi le dita delle mani e dei piedi. Una malattia cosiffatta, dove l'anestesia delle parti era tale che il malato poteva bruciarsi un arto senza accorgersene, non poteva non apparire carica di mistero e con origine sovrannaturale70.
Fin dall'antichità, gli studiosi, non solo occidentali, erano a conoscenza del fatto che in ampie aree delle terre allora conosciute, come la Mesopotamia, la Fenicia, l'India e la Cina la patologia era anche di natura endemica e, probabilmente, furono queste le zone del pianeta da cui si diffusero i contagi descritti nelle opere di uomini di scienza dell'antichità classica.
A partire dal VI° secolo, la lebbra era da considerarsi stabilmente insediata nell'Europa occidentale e alla fine del primo millennio dell'era cristiana, il controllo sociale della malattia era affidato ad un complesso di leggi emanate ed aggiustate via via. Da un punto di vista clinico e terapeutico, diverse furono le prescrizioni e le prassi adottate, il tocco delle parti veniva evitato, il contatto era pericoloso, il contagio in agguato. In uso era la prova dell'anestesia che consisteva nell'infiggere un lungo spillone nelle zone di cute maculata o piagata, onde cimentarne la sensibilità che, in caso di lebbra, era ridotta o inesistente71.
A partire dal Medioevo, i malati di lebbra, vennero confinati sempre più in luoghi adibiti alla segregazione istituzionalizzata, i lebbrosari, che divennero vere e proprie comunità che si auto-organizzavano in ogni minimo dettaglio del vivere quotidiano.
Altra consistente patologia infettiva, conosciuta fin dall'antichità e documentata già in diversi libri sacri delle principali religioni, è la peste. Causata dal microrganismo, scoperto alla fine del XIX° secolo dallo scienziato Alexandre Yersin (1863-1943), e chiamato Yersinia pestis, la peste si diffonde nell'organismo, contagiato da organismi parassiti degli animali, attraverso le vie linfonodali ed il sangue, trasmettendosi direttamente da uomo a uomo a causa dell'espettorato dovuto a tosse.
Tra le prime grandi culture antiche, dove vengono descritte epidemie di peste, troviamo, oltre alla civiltà greca e a quella egizia, sicuramente la civiltà ebraica ed è nei testi sacri del popolo eletto che ritornano, in modo consistente, le descrizioni del tremendo flagello, delle morti e della distruzione portata dalla patologia, vissuta come punizione divina.
Numerose sono le descrizioni nell'Antico Testamento, di grandi morie di popolazione a causa di pestilenze interpretate come momenti legati alla collera divina, ed il quadro epidemiologico della peste, caratterizzato da topi, bubboni, terrore e strage, si arricchisce da descrizioni dettagliate di decorsi fulminanti72.
Decisamente famosa, per la comunità di studiosi, rimane però l'epidemia conosciuta come peste di Atene, del 430 a.C., magistralmente descritta da Tucidide ( ca. 460-395 a.C.) e da Lucrezio (98-55 a.C.). Scrive Tucidide: “LA peste cominciò in Etiopia, sopra l'Egitto, poi sorse anche in Egitto ed in Libia. Il corpo malato, a toccarsi esteriormente non era né troppo caldo né pallido, ma rossastro, livido, fiorito di piccole pustole ed ulcere […..] la maggior parte morivano dopo nove o sette giorni per l'ardore interno, ancora in possesso di qualche forza; oppure, se scampavano, con lo scendere della malattia negli intestini e con il prodursi di una forte ulcerazione ed il sopraggiungere di una diarrea violenta, i più morivano in seguito, sfiniti per questa ragione.”73.
Il quadro descritto, però, farebbe pensare più ad altre patologie ionfettive come il tifo esantematico o petecchiale, anche se, pur con le incertezze manifestate, gli scritti di Tucidide rimangono esemplari per l'approfondimento e per la lucida capacità descrittiva.
Le malattie pestilenziali come quella di Atene, venivano importate nell'area mediterranea dai sub-continenti arabo-etiopico, indiano, cinese tramite i porti mediorientali. Un equilibrio microbiotico sensibile veniva periodicamente cimentato e reso precario dagli spostamenti di truppe e dai traffici, scambiatori di merci e di malattie74. Contribuivano all'esplosione delle grandi epidemie dell'antichità, le scarse condizioni igieniche, le consistenti interazioni commerciali e sociali, il clima, le guerre, le carestie. Fin da subito, possiamo dire, che il macro-panorama eziopatogenetico delle varie patologie, nello specifico, delle malattie infettive, si è costruito su una complessità e su una multiformità di elementi interagenti tra loro con correlazioni spesso invisibili ma foriere di morte e distruzione. Nel IV° secolo dopo Cristo, un'ennesima epidemia di peste scoppiò a Costantinopoli, probabilmente un'esacerbazione delle precedenti epidemie, portando con sé morte e devastazione, dall'Asia minore all'Italia, ai paesi limitrofi. Il grande Paolo Diacono, nella sua Hiostoria Longobardorum, traccia una panoramica dettagliata ed approfondita: “ […] cominciavano a nascere negli inguini degli uomini ed in altre parti molto delicate, delle ghiandole grosse come noci o datteri, cui seguiva un ardore febbrile intollerabile, sicché, in tre giorni, l'uomo moriva.”75.
La classe medica, all'epoca, aveva ben pochi rimedi per far fronte al potere devastante della peste, e, salvo sperimentazioni terapeutiche di vario genere e di dubbia utilità, il consiglio principale che poteva dare alla popolazione era il cito, longe, tarde, ossia fuggi, va lontano, torna più tardi che puoi.
L'esempio storico forse più consistente di devastazione e morte, legato ad un'epidemia di peste, rimane però quello della “atra mors”, la peste nera del 1300. Epidemia deflagrata in un'epoca di grandi cambiamenti sociali ed economici, che vedeva l'Europa attraversata da fermenti culturali di svariata natura, quella della peste nera produceva una morte inevitabile, repentina che fulminava gli individui ed ancora una morte collettiva, di massa, che fulminava la società76. Ed è proprio l'enorme numero di vittime, che vennero falcidiate dall'atra mors,a rendere questa epidemia una delle più terribili della storia. La disgrazia collettiva è un crollo demografico, anzitutto italiano. Muore oltre il 30 per cento degli abitanti di Genova, Pisa, Venezia. Poi quasi tutte le zone d'Italia vengono colpite, da nord a sud, ed è proprio dal porto di Messina che inizia a diffondersi il contagio, a causa di navi genovesi che giungono dalla Crimea con a bordo i topi che porteranno il fatale parassita, vettore della patologia infettiva. Dall'Italia la peste inizia a diffondersi in tutta Europa, Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna. La classe medica dell'epoca ancora non è in grado di definire bene cause e terapie per la peste, e non riponeva attenzione al fatto che potesse essere portata da pulci e topi, elementi questi, presenti in continuazione nel metabolismo cittadino in continuo svolgimento tra magazzini e cloache, tra granai e canali di scolo, tra approvvigionamento di cibo e smaltimento di rifuti77.
Tuttavia, tra le innumerevoli teorie mediche dell'epoca, si fece strada sempre più l'idea che causa della pestilenza fosse dovuta al mal aere, ipotesi che si accordava pienamente con l'impostazione ippocratico-galenica dell'epoca.
Un aere corrotto pensato anche come corruttore, propiziato da eclissi e comete, da primavere piovose e da estati nebbiose. Un mal aere sparso dappertutto, come sparsa dappertutto, diffusa ed epidemica era la peste78.
Tuttavia la scienza medica si trova spesso impotente verso una patologia infettiva di una violenza inaudita che colpisce soprattutto ambienti urbani affollati e porti commerciali dove le norme igieniche basilari erano assenti. La peste non discrimina tra ricchi e poveri, tra iponutriti ed ipernutriti, ma si comporta come un puro accidente biologico colpendo la totalità del corpo sociale grazie ad una forma di contagio assoluto che porterà allo sviluppo di una teoria nuova, portavoce della quale sarà il medico veronese Gerolamo Fracastoro esperto de contagione et contagiosis morbis79.
Per il Fracastoro, non più, quindi, l'eziologia della peste sarà da ricercarsi nell'aria insana in toto, ma in ciò che conduce l'aria malata, ossia in un veleno, un virus, conosciuto anche come seme. I fracastoriani semi di pestilenza sono agenti materiali infinitesimi provenienti dalla materia alterata delle parti malate , indirizzati ad un bersaglio80.
Dal Trecento al Seicento si configura il caso dell'Italia come quello di una geografia umana posta al centro di un mare epidemico, il Mediterraneo, favorita dagli scambi dei traffici, dall'andare e venire degli eserciti, dalle penurie e fragilità concomitanti alle guerre. Quella italiana è una società aperta ai commerci, alle invasioni, alla libertà di ammalarsi81. Dopo la peste del 1300, ulteriori epidemie colpiranno, nei secoli, l'Europa, con svariati esiti infausti, e sarà solo nel XVIII° secolo che improvvisamente le epidemie pestilenziali scompariranno dal suolo europeo. Gli studiosi hanno proposto alcune ipotesi molto interessanti legate alla cessazione della peste nel 1700, non da ultima l'idea che l'attenzione agli aspetti igienici di base, divenuta sempre più consistente, abbia portato ad una limitazione drastica del contagio, oppure, altra ipotesi altrettanto interessante, all'evoluzione di difese immunitarie specifiche da parte degli organismi umani nel corso dei secoli che avrebbero consentito un immunizzazione di base contro gli agenti eziologici della tremenda patologia pestilenziale.
In ultima analisi, dopo lebbra e peste, chi scrive, vuole proporre alcune riflessioni su un'altra grande patologia epidemica che investì, in modo considerevole, i paesi europei a partire probabilmente dall'epoca rinascimentale: la sifilide, causata da un batterio, il Treponema pallidum, che si presenta al microscopio come un piccolo filamento a forma di spirale, identificato nel 1905 da Fritz Schaudinn ed Erich Hoffmann.
Verso la fine del 1400, diversi medici documentarono l'apparire di una forma di infezione e di contagio che: “ […] provocava diverse pustole in faccia e su tutto il corpo, le quali cominciavano generalmente fuori o dentro il prepuzio, oppure sopra il glande con prurito al paziente. Talvolta principiava una sola pustola, a mo di vescichetta, non dolente ma pruriginosa; grattavano, onde si formava un'ulcera come per un tarlo rodente e dopo pochi giorni andavano incontro a sofferenze per dolori alle braccia, alle gambe, ai piedi, con diffusa pustolazione.”82.
La patologia, definita fin da subito mal franzese dagli italiani e mal de Naples dai francesi, sconosciuta fino all'epoca, sembrerebbe fosse stata importata grazie alle scoperte geografiche e ai grandi viaggi del finire del XV° secolo , in special modo, gli studiosi ritengono probabile che derivi proprio dai contatti avvenuti tra europei e popolazioni precolombiane.
Fin quasi da subito si comprende come, la sifilide, sia strettamente legata alla sfera della sessualità, e come proprio i rapporti sessuali siano i veicoli del contagio. Un contagio che si diffonde a macchia d'olio in tutte le terre fino allora conosciute, grazie alla mobilità esasperata di marinai, soldati e prostitute.
La nuova malattia, contagiosa e dilagante, conosciuta come patologia venerea (da Venere), è caratterizzata da un esordio acuto (sifiloma genitale con linfoadenite inguinale satellite) e da pustolazione susseguente generalizzata. Il decorso è subacuto, l'esito spesso letale. In seguito, per il mutare dei rapporti fra virulenza aggressiva e difese organiche, il decorso si protrarrà, portando all'emergere di manifestazioni tardive83.
Nuovamente, la medicina dell'epoca, si trova impreparata ad affrontare, dal punto di vista pratico, il diffondersi della malattia venerea. Se da un'angolazione teorica permangono nella comunità scientifica le vetuste teorie di matrice ippocratico-galenica legate all'ipotesi del mal aere, contrapposte alle più innovative ipotesi inerenti l'idea del contagio, a fare da cornice a qualsivoglia spiegazione eziologia e clinica, c'è da dire che la prassi terapeutica, pur con i molti tentativi di sperimentazione in varie direzioni, è talmente variegata e complessa da ottenere meramente effetti lenitivi e non curativi. Dal canto suo, la religione, associando la sifilide agli aspetti più truci del peccato carnale, tentò, operando da un punto di vista morale, di limitare la diffusione del male, portando avanti una sorta di prevenzione ante-litteram.
Diversi medici del tempo, inoltre, osservarono che la patologia venerea era più complessa e variegata di quanto si pensasse e che, insieme alla sifilide emergevano ulteriori malattie di natura sessuale, come la gonorrea ed altre ulcerazioni disparate. Con il modificarsi nel tempo dei rapporti tra la virulenza del morbo e le resistenze degli organismi, la malattia, inoltre, tende oltreché a definirsi, a presentarsi endemica, anziché epidemica, e a decorrere cronica, anziché acuta e spesso rapidamente mortale84.
Tuttavia, poco per volta, i medici e la comunità scientifica dell'epoca, riuscirono, grazie all'osservazione accurata e a primi interessanti tentativi di sistematizzazione dei dati e sperimentazione mirata, prassi che sfoceranno poi nella Rivoluzione scientifica, a definire e diagnosticare in modo accurato la patologia. Nel lento mutare del quadro biologico, epidemiologico e clinico di riferimento, la scienza medica incomincia a guardare all'ulcerazione dura dei genitali esterni come alla manifestazione primaria di un processo morboso evolutivo a tre stadi, del quale la pustolazione cutanea rappresenta la fase secondaria e le tuberosità dure e gommose, la fase terziaria85.
Sarà Fracastoro, medico innovatore e fervente ricercatore, ad imporre il nome di sifilide e a descrivere in modo dettagliato la patologia ed il suo progredire. Per molto tempo la terapia del male venereo consisterà in forti somministrazioni di mercurio e guaiaco e sarà solo in tempi molto vicini a noi che, con la rivoluzione farmacologica della scienza moderna, si troveranno le soluzioni per curare questa ed altre gravose malattie.
Per concludere questa breve panoramica su tre importanti e dilaganti patologie infettive che, nel corso dei secoli fecero strage di milioni di vite umane e misero a dura prova la scienza medica e la prassi terapeutica, vogliamo spendere una riflessione sull'impatto sociale e psicologico degli eventi devastanti causati dalle epidemie. Le tre grandi malattie trattate, lebbra, peste e sifilide, sono state evenienze naturali e sociali di grande rilevanza – biologica, psicologica, demografica, economica – e rappresentano tre modelli fobico-genetici, o ad alto tasso ansiogeno anche a causa della loro forte imprevedibilità86.
Alle patologie epidemiche sono state associate diverse paure come la paura dell'isolamento dagli altri membri della comunità in luoghi chiusi, inaccessibili, dove la contenzione era l'unica proposta terapeutica valida, la paura della morte fisica, con il carico di sofferenza somatica e psicologica che si trascinava, la paura della morte morale, associata all'idea religiosa di peccato e alle immagini dell'inferno.
Come si può notare allora, in ultima analisi, i macro-fenomeni delle grandi epidemie, risultano complessi e interrelati, ed una lettura antropologica e scientifica nell'ottica dei paradigmi sistemico, della complessità ed olistico, risulta d'obbligo per tentare di capire ed interpretare la pluridimensionalità fortemente dinamica degli eventi patologici, che si sono dimostrati eventi causali e causanti, dal sistema biologico al sistema psicologico, dal sistema comunitario al sistema sociale, dal sistema politico al sistema economico.




2.4 ETA' MODERNA E CONTEMPORANEA





Dopo aver affrontato, per sommi capi, le grandi epidemie, dall'età antica al Rinascimento, ci avviamo a presentare alcune patologie che hanno colpito in maniera consistente, le comunità umane nell'età moderna. A tutt'oggi vi sono molti esempi di malattie infettive che, ciclicamente, producono morte e distruzione e che incidono in modo importante su svariati piani, sanitario, psicologico, economico e sociale, coinvolgendo, come visto in precedenza, diversi sistemi e sottosistemi che compongono la rete di relazioni umane di cui è fatta la vita.
Il termine peste era andato, nel corso dei secoli, denotando una vasto insieme di patologie accomunate dagli esiti infausti, ma che, all'attenta osservazione clinica si differenziavano per segni e sintomi. Se peste era ogni epidemia ad alto tasso di mortalità, peste bubbonica era quella con i bubboni, peste catarrale o polmonare era quella con catarro e con sputi sanguigni, peste nervosa quella con perdita di conoscenza e convulsioni, peste anginosa quella con fauci infiammate e piagate, peste degli ardenti, quella detta anche ignis sacer87.
Spesso anche il tifo petecchiale, patologia il cui agente causale è la Rickettsia prowazekii che causa macchie cutanee dette petecchie, è stato inserito a pieno titolo nelle pestilenze della storia. A differenza della peste vera e propria, causata da pulci, il tifo petecchiale è causato da pidocchi, organismi legati strettamente a scarsa igiene personale ed ambientale. Così gli ambienti dove maggiormente si innescavano le epidemie di tifo, erano gli ambienti militari, i porti, le città, dove le elementari norme igieniche preventive erano completamente disattese. La fame, inoltre, con il suo corteo di denutrizione ed impoverimento delle difese organiche, era propizia quanto la pessima igiene all'insorgenza del tifo88.
Assieme al tifo, altre malattie, cosiddette esantematiche, dalla parola esantema che significa “efflorescenza”, nel corso dei secoli, provocarono morte e sofferenza come morbillo, rosolia e scarlattina, soprattutto in età infantile.
Patologie infettive che, grazie ai consistenti traffici e alle grandi scoperte geografiche dell'età moderna, si diffondevano da una sponda all'altra dell'Oceano in un batter d'occhio.
La comunità medica, con il passare dei secoli, influenzata dalla Rivoluzione scientifica, dal metodo sperimentale e dalle innumerevoli possibilità date da osservazione, clinica e prassi terapeutica, si prodigò in più direzioni per il progresso medico, non da ultime, ampliando le ipotesi teoriche ed anatomo-cliniche. Venne a cadere quasi del tutto l'ipotesi dell'influenza astrale e del mal aere e causa di malattia sono ormai “gruppi pestilenziali” o agglomerati “semi di pestilenza”, “applicati dalla natura con artificio chimico” e “condensati da forze di ordine fisico”89. Insieme alle evoluzioni teoriche generali della scienza medica, presero campo anche la sensibilità marcata sulle condizioni socio-economiche delle popolazioni, e, soprattutto, la sensibilità legata agli aspetti igienici che divennero, poco alla volta, sempre più importanti nell'ottica della prevenzione e della cura.
Nel corso del XVII°secolo e del XVIII° secolo, un'altra grande epidemia scosse le comunità umane, soprattutto in area europea, causata dalla malattia del vaiolo.
Patologia esantematica innescata dal virus Orthopoxvirus, da sempre esistita e documentata anche nell'antichità, come scrive dettagliatamente il medico islamico Rhazes già nel X° secolo: “L'eruzione del vaiolo è preceduta da una febbre continua, dolori alla schiena, pizzicare al naso e delirio nel sonno. Si esacerba poi un prurito che il malato accusa in tutto il corpo e un violento rossore investe le guance, mentre gli occhi sono iniettati di sangue ed infiammati [...] Quando si vedono erompere le pustole bisogna sorvegliare attentamente gli occhi […] Tali pustole sono molto piccole e di colore biancastro, contigue l'una all'altra, di conseguenza dure.”90.
Sarà il medico inglese Sydenham, diversi secoli dopo, ad interessarsi in modo specialistico alla patologia, proponendo una terapia mirata, soprattutto per l'infanzia, fascia d'età più colpita. La prassi terapeutica di Sydenham utilizzava l'abbassamento della temperatura corporea e la reidratazione ed all'epoca, ottenne più successi terapeutici di altri medici che procedevano in modo contrario con innalzamento della temperatura. Il flagello universalmente distruttivo e degradante uccideva e deturpava di cicatrici il volto. Se colpiva le palpebre e la congiuntiva, rendeva ciechi91.
Come qualsiasi epidemia di grande portata, anche il vaiolo, colpiva indiscriminatamente ricchi e poveri, classi agiate e classi meno abbienti, e sarà solo durante il periodo illuminista che la comunità scientifica ed il mondo politico si attiveranno per prevenire e curare malattie devastanti, anche sotto l'aspetto igienico-sociale ed economico, e sarà a partire dal XVIII° secolo che, grazie alle intuizioni e alle sperimentazioni di medici e ricercatori, si opererà sempre più verso trattamenti preventivi come le vaccinazioni.
Nel più recente passato l'eliminazione dal pianeta del virus del vaiolo, identificato al microscopio elettronico negli anni Trenta del Novecento, è stata ottenuta grazie alla diffusione mondiale della vaccinazione e nel maggio del 1980, l' Organizzazione mondiale della sanità, ha dichiarato ufficialmente che il vaiolo risulta globalmente eradicato92.
Con l'utilizzo della prassi della immunizzazione da vaccinazione fatta dal medico britannico Edward Jenner (1749-1823), che sperimentò sul vaiolo la sua importante e fondamentale scoperta, enormi passi avanti furono fatti dalla comunità medica nello sviluppo di prevenzione e terapia. Tuttavia, nel corso del XIX° secolo, un'ennesima devastante epidemia colpì l'Occidente, questa volta a causa del colera. L'agente causale di questa patologia fortemente debilitante è il bacillo conosciuto come Vibrio cholerae che provoca nell'ammalato la necrotizzazione della mucosa intestinale producendo una disidratazione consistente ed una debilitazione letale per tutto l'organismo. Approfondite e dettagliate furono le prime descrizioni della patologia epidemica da parte di medici e studiosi: il quadro del morbo è sempre impressionante, in pieno benessere, l'individuo “viene assalito subitamente da prostrazione di forze, vertigini e brividi.”. “Seguono quasi immediatamente il vomito e la diarrea.”, la considerevole disidratazione produce ispessimento del sangue e collasso cardiaco. Sul volto è stampata la facies cholerica, la maschera della morte93.
Diffusosi in Occidente a partire dalle aree asiatiche, il colera colpirà dapprima le periferie ed i quartieri malfamati delle grandi città europee, fino a diffondersi a macchia d'olio. Dal Meridione al Settentrione il tasso di letalità si impennò nei quartieri urbani intersecati da strade disselciate, percorse da rigagnoli maleodoranti, sulle quali si riversavano le immondizie e si ammonticchiavano i cumuli di letame94.
A partire dai pozzi d'acqua, da cui si approvvigionavano quartieri interi di grosse città, la patologia colerica si diffonderà a causa della scarsissima igiene e dell'inquinamento organico urbano.
Le classi più abbienti e colte riuscivano, in qualche maniera, a fare fronte all'epidemia, avendo, nel corso dei secoli, acquisito culturalmente alcune regole preventive di base, mentre le classi più povere, emarginate e prive di strumenti verranno duramente colpite dal diffondersi della malattia. Anche questo divario darà manforte ad idee di rivalsa in campo economico-sociale, intrecciando sempre più i già forti legami tra salute individuale e condizioni globali di vita.
Per quasi tutto il XIX° secolo, l'idea dell'igiene e della sanità pubblica, saranno portate avanti da alcuni pionieri in ambito sanitario. In Germania Max von Pettenkofer (1818-1901), nel 1872 fondatore a Monaco di Baviera del primo Istituto di igiene sperimentale in Europa, fortemente convinto che fosse l'ambiente malsano la principale causa di ammorbamento della “salute delle città”, vedeva il colera come una malattia causata dalla commistione nel suolo urbano tra le acque luride e le acque potabili e non credeva ancora all'importanza dei microrganismi portatori del contagio. Ma Robert Koch (1843-1910), nell'Istituto superiore di sanità da lui diretto a Berlino, identificò nel 1882, al microscopio il bacillo del colera. Fu l'inizio della rivoluzione batteriologica95.
Tuttavia, almeno durante le prime fasi della grande epidemia europea di colera, saranno le idee legate al complessivo miglioramento igienico a prevalere rispetto alle ipotesi microbiologiche, dando nuovi impulsi di cambiamento sociale, economico e politico. Estinto in Europa dal 1923, per il generale miglioramento delle condizioni economico-sanitarie, il colera ha fatto inaspettatamente ritorno in Italia nel 197396.
Come abbiamo visto, a grandi linee, a partire dalle rivoluzioni culturali proposte dall'Illuminismo nel XVIII° secolo, sempre più l'attenzione di scienziati e medici si è rivolta anche alle cause economico-sociali, se non come fattori scatenanti in senso specifico di svariate patologie, come fattori almeno predisponenti. Miseria, carestie, carenze igieniche, scarso livello di istruzione e fame sono entrati a far parte, dal lato sociale, insieme a virus, batteri ed altri microrganismi, dal lato biologico, e a prostrazione, senso di sconfitta, demotivazione, dal lato psicologico, nel corposo panorama proposto da una lettura eziologica che ha fatto della complessità e dell'ottica sistemica dei paradigmi di riferimento.
Così stante le cose, ulteriori patologie sono state lette grazie alla complessità che fonda il vivere, patologie carenziali, come la pellagra, causata da carenza sostanziale di vitamine dovuta a fame cronica, trasformata ben presto da denutrizione in malnutrizione97, l'astenia cronica e il rachitismo, malattie che colpivano considerevolmente le popolazioni povere e malnutrite anche e soprattutto nell'Italia postunitaria.
Anche la malaria, causata dal Plasmodium falciparum, microrganismo parassita delle zanzare anopheles, patologia che provoca febbri e prostrazione, a lungo fu considerata malattia dei poveri. Patologia antichissima, fu l'Italia a detenere il triste primato di morti e contagio nel bacino del Mediterraneo tanto da essere considerata “malattia italiana”98.
Per secoli, la sola ipotesi eziologica inerente lo scatenarsi della malaria, fu quella ambientalista che proponeva le insalubri pianure italiane come causa della patologia e solo nel 1881 lo scienziato Charles-Louis Laveran (1845-1922) scoprì nei globuli rossi dei soggetti malarici il parassita che causava la malattia.
Grazie ad un consistente sforzo dell'Italia post-unitaria, importanti risultati sanitari si ebbero, oltre che con la riorganizzazione del sistema sanitario e con la bonificazione delle aree insalubri, anche con l'introduzione e l'utilizzo del chinino che, dal 1901, verrà distribuito gratuitamente ai malarici poveri, diventando il moderno progenitore dei moderni ed attuali antimalarici, efficaci contro la malattia dal punto di vista sia terapeutico che profilattico99.
Veniamo ora ad una patologia che, forse più di tutte quelle fin'ora descritte, è entrata a far parte di un patrimonio di elaborazioni culturali ed intellettuali poiché è assurta, nel corso dei secoli, a simbolo, soprattutto in età romantica e decadente, di nobiltà, arte, poesia, drammaticità del vivere e solitudine creativa, la tubercolosi. A parere di chi scrive risulta di grande interesse, dal punto di vista antropologico e culturale, anche l'elaborazione intellettuale costruita intorno alla patologia e, soprattutto, alla cura, in epoca tardo ottocentesca e primo novecentesca; esempio sommo e insuperabile, la descrizione dettagliatissima fatta da Thomas Mann nel suo capolavoro “La montagna incantata”. Di notevole interesse, crediamo, sia il forte legame intravisto dalle élite culturali, tra una patologia somatica devastante, una predisposizione psicologica all'introspezione e al nichilismo decadente, un percorso di cura che tendeva ad isolare in piccole comunità ad in ambienti particolarmente legati ad un immagine superomistica e la profonda crisi della soggettività di impianto idealistico che, avendo permeato il Romanticismo, stava transitando verso una rivoluzione complessiva, ontologica, estetica ed etica a cavallo tra XIX° secolo e XX° secolo.
Chi scrive non nega che, in un percorso di ricerca e in un saggio che intenderà produrre successivamente, sarebbe interessato a proporre una riflessione sulla patologia tubercolare e sulla cura, anche in relazione al proprio ambiente di provenienza, la montagna dolomitica, che rimase per moltissimi anni, sede di sanatori e preventori, nell'ottica della cura di alta montagna, unico rimedio, fino alle scoperte più recenti, per la prevenzione e la terapia.
La tubercolosi, dunque, il cui agente causale è il Mycobacterium tubercolosis o bacillo di Koch dal nome del suo scopritore nel 1882, è stata ed è a tutt'oggi una patologia le cui conseguenze sono devastanti e legate ad una forma di consunzione in relazione alle aree somatiche coinvolte come, a titolo di esempio, l'apparato respiratorio oppure l'apparato scheletrico.
La tubercolosi, conosciuta anche come tisi o tabe, è malattia le cui prime tracce storiche si perdono nella notte dei tempi e nei testi medici delle più antiche civiltà – cinese, indiana, mesopotamica – compare il riferimento a malattie destruenti, consumatrici di uomini100. Sicuramente già gli antichi avevano letto l'innescarsi della malattia come legato anche a situazioni ambientali e lavorative precarie, soprattutto, in quelle classi di lavoratori che venivano a contatto con agenti tossici da inalazione. La storia sociale della malattia vide la tubercolosi trasformarsi nel corso dei secoli e, nell'Ottocento, diventare il “mal sottile” a lungo idealizzato come esperienza di vita romantica entrando in letteratura e musica, esempi sommi sono la Dame aux camèlias di Alexandre Dumas figlio o la Bohème di Giacomo Puccini101.
Tuttavia la malattia non colpiva solo esteti, nobili o poeti, ma era una vera e propria piaga sociale per tutte le classi ed importanti medici e scienziati dedicarono la loro ricerca e la loro opera alla patologia tubercolare, come Xavier Bichat (1771-1802), che fermamente sosteneva che la caverna scavata per consunzione nel tessuto polmonare appariva come un processo bio-tanatologico di necro-biosi102. Solo nel 1882, il medico Robert Koch, scoprirà il microrganismo responsabile della malattia e la comunità scientifica si adoperò, da allora, nella ricerca di possibili cure per eradicare definitivamente la patologia, ma sarà nella seconda metà del Novecento, però, che si troverà una soluzione grazie alla scoperta di farmaci antibiotici come la streptomicina.
Ad oggi, l' Organizzazione mondiale della sanità stima in oltre 7,5 milioni i casi di tubercolosi nel mondo, di cui 4,9 milioni tra il Sud-Est asiatico e l'Ovest del Pacifico e di cui più di un milione in Africa103.
Il Novecento, insieme alla tubercolosi, ha visto numerose altre patologie diffondersi e tuttavia, grazie all'affinamento di notevoli tecniche preventive e terapeutiche ed al miglioramento complessivo, almeno per il mondo Occidentale, della qualità della vita, vari sono stati i traguardi raggiunti nella cura di malattie di varia natura come poliomielite, malattie cardiocircolatorie, cancro e così via. Risulta interessante notare come negli anni a noi vicini, grazie all'innalzamento dell'età media e ai cambiamenti nella qualità di vita, è emersa una tendenza alla cronicizzazione, quindi ad una progressione nel lifetime, di varie patologie rispetto a forme in acuto, più gravi e debilitanti ma meno protratte nel tempo, ed è risultata prevalente la comparsa di patologie da ipernutrizione e da stress, patologie che risultano, oggi più che mai, fortemente correlate con gli aspetti ambientali e psico-sociali.
Per chiudere questa panoramica sulle grandi patologie che hanno colpito le comunità umane nel corso della storia, vogliamo ricordare una vera e propria epidemia che ha devastato l'umanità nel corso degli ultimi anni del XX° secolo e che ancora oggi non risulta estinta.
Intendiamo parlare dell' AIDS, o sindrome da immunodeficienza acquisita, causata da un virus, l' HIV, contratto per vie sessuali o per altre vie, che distrugge le difese immunitarie, esponendo l'organismo all'attacco di ulteriori organismi patogeni di varia natura.
Secondo gli scienziati, esiste una protostoria della patologia che, dal Nordamerica, dove sono emersi i primi casi, rimanda all'Africa, dove il virus infettante esiste praticamente da sempre. Virus antico per malattia moderna, figlia del nostro tempo, determinata dalla trasformazione odierna dei modi di vivere, una trasformazione selettiva che diventa una scelta obbligata degli agenti patogeni e degli eventi morbosi conseguenti104.
Anche la Sindrome da immunodeficienza acquisita, come tutte le grandi epidemie della storia, non sfugge alle forti interazioni tra biologia, psicologia e società. Il sangue e lo sperma sono i vettori biologici del virus, ma il pluralismo sessuale, con il corollario della prostituzione e l'uso della droga, con la correlata pratica del bucarsi, sono i fattori sociali della malattia, come dimostra il prevalere di questa nel sottoproletariato urbano dei super-sviluppati paesi nord-occidentali e nelle moltitudini africane tragicamente migranti, sospinte dalla siccità e dalla fame. Le malattie non sono mai fenomeni solo naturali: anche l' AIDS non sfugge alla regola105.
Dopo l'esplosione epidemica degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, apparentemente sembrerebbe che al giorno d'oggi vi sia punto o poco traccia dell'AIDS, secondo un pericolosissimo gioco, a parere di chi scrive, del “meno se ne parla attraverso i media, meglio è” legato ai bisogni di iperefficienza e salute ad ogni costo propri della società attuale. Tuttavia ecco alcuni dati odierni: nonostante il recente miglioramento all'accesso al trattamento antiretrovirale, in molte regioni del mondo, la pandemia di AIDS ha coinvolto circa 2,1 milioni (range tra gli 1.900.000 e i 2.400.000) di persone nel 2007, di cui circa 330.000 erano bambini sotto i 15 anni. A livello globale, si stima che 33,2 milioni di persone vivevano con l'HIV nel 2007, di cui 2,5 milioni di bambini. Si stima che circa 2,5 milioni (range tra gli 1.800.000 e i 4.100.000) di persone siano state contagiate nel 2007, tra cui 420.000 bambini. Numeri impegnativi con cui vogliamo chiudere questa carrellata, per sottolineare che prevenzione, diffusione del sapere, attenzione verso la salute, investimenti nella sanità pubblica non devono assolutamente essere mai ignorati, nascosti o dimenticati. Scientificamente, socialmente, politicamente, economicamente, ma soprattutto eticamente.




3.4 CONCLUSIONI







Per terminare questo saggio, il cui tema principale è stata la disamina degli sviluppi del concetto di malattia, tra dimensione magica, religiosa e sacra e dimensione scientifica, nell'ambito della cultura occidentale e nell'ambito di altre culture del mondo, l'autore intende proporre una riflessione che voglia presentare un punto di vista sulla contemporaneità. Abbiamo potuto osservare come, a partire da epoche primordiali, l' elaborazione dei concetti di malattia e salute, comune a tutta l'umanità sia transitata da una lettura legata alla sfera del sacro e della magia fino a giungere, almeno nel mondo occidentale, ad una lettura scientifica e iper-razionale. La tendenza all'interpretazione magico-religiosa dei fenomeni e alla correlazione che la scienza moderna definisce illusoria, tra dati immediatamente disponibili alla coscienza, sono, probabilmente, connaturati all'immediatezza della percezione, comune a tutti gli esseri umani anche oggi, esempio lampante di queste dinamiche, è, a nostro avviso, l'idea immediata che sorge alla domanda se la terra gira attorno al sole o viceversa. Subito, il primo pensiero che emerge è legato ai dati inerenti la realtà dei fenomeni immediatamente percettibili, ossia che il sole gira intorno alla terra, ed è necessario uno sforzo riflessivo e razionale, fatto di conoscenze acquisite, per dare la corretta risposta. Questo un piccolo esempio di natura aneddotica che chi scrive ha voluto presentare per sottolineare come, nel corso della sua evoluzione, l'uomo ha maturato, probabilmente, due capacità di visione cosmica, una immediata, fatta di intuizioni percettive e di sintesi olistica, andata sacralizzandosi, e l'altra, mediata dalla conoscenza ed elaborata scientificamente, fatta di ricerca, studio ed analisi dei fenomeni. Entrambe queste visioni rappresentano il vero esclusivamente in relazione ai vissuti di ogni singolo individuo e all'impatto che i fenomeni ed i dati immediati o mediati della conoscenza possono avere sulla vita degli individui. Fedeli al pensiero di Carl Gustav Jung ed ai suoi studi sull'alchimia e sulla fisica quantistica, vogliamo, ancora una volta, pensare che ogni prodotto della cultura, ogni filone della ricerca scientifica ed ogni interpretazione dei dati emersi dalla ricerca, rappresentino, in larga parte, proiezioni psicologiche provenienti dall'io o dall'inconscio, individuale o collettivo, e queste dinamiche sono di estremo interesse in quanto capaci di ricollegare saperi e pratiche alle culture, agli individui, all'umanità intera e alla sua storia evolutiva fatta di filogenesi e di ontogenesi. Tuttavia, chi scrive, è fermamente convito che, nel mondo occidentale prima, e poi diffusamente anche in altre culture, anche a causa del fenomeno della globalizzazione, l'iper-razionalizzazione e l'iper-semplificazione, figlie del cosiddetto progresso delle scienze e della cultura contemporanea, oggi predominanti, come chiavi per la lettura dei fenomeni complessi, abbiano prodotto scarsissimi risultati dal punto di vista delle conoscenze e degli sviluppi culturali. Questa iper-razionalizzazione e questa iper-semplificazione dei fenomeni si possono osservare chiaramente, secondo l'autore della presente trattazione, nell'elaborazione contemporanea della morte e della malattia. Come abbiamo visto, nel corso di tutta l'evoluzione delle culture umane, la malattia, la sofferenza e la morte, non sono mai state negate, nascoste, rimosse dalla coscienza collettiva, ma eventualmente, lette con lenti disparate, sempre vissute con rispetto e con interesse. Chi scrive, proveniente da una etnia e da una cultura tradizionale come quella ladina dolomitica, fortemente legata alla civiltà contadina, ricorda ancora, per averlo vissuto in prima persona, come nei piccoli paesi di montagna, l'esposizione di bambini e giovani alla visione dei morti, vecchi o giovani che fossero, era prassi comune. I morti, da un punto di vista psicologico ed affettivo poi, rimanevano costantemente accanto ai vivi, nel ricordo e nell'esposizione domestica di oggetti appartenuti ad essi e di fotografie o ritratti che rappresentavano i defunti. Con i morti si parlava e si chiedeva loro consiglio, in un gesto di estremo rispetto e di forte volontà di legame. Oggi, la morte e le malattie, vengono negate, nascoste quasi fossero il male assoluto in relazione all'eterna giovinezza e all' iper-efficientismo richiesti dalla cultura di massa ,globalizzata, contemporanea. Oggi i corpi devono essere sani, perfetti, rinvigoriti da una cultura del corpo che, lontana anni luce dalla cultura del corpo dell'antichità classica, è divenuta cultura del corpo-macchina, che non deve invecchiare, non deve ammalarsi e non deve morire, pena l'esclusione dalla società. Anche la scienza moderna ha contribuito, in parte, alla costruzione di questa visione, concentrandosi, a parere di chi scrive, sulla dimensione riduzionista e determinista di un corpo biologico i cui singoli pezzi possono essere sostituiti a piacimento se disfunzionali, con l'idea, seppur degna di lode in determinati momenti, di prolungare la vita, quasi in un'eterna giovinezza dei singoli pezzi di un corpo. Quindi, la scienza ha prolungato un'esistenza che, se rinvigorita e falsamente giovane, viene accettata ma quando invecchia e si ammala, anche cronicamente, la società nega, nasconde, esclude. Ecco probabilmente, il grande conflitto di oggi, la grande crisi paradossale della società contemporanea, che corre tra la negazione della sofferenza e della morte nel quotidiano e la continua tambureggiante esposizione mediatica di guerre, sofferenza e morte, tanto negate e lontane quanto più filtrate dai media e dai social network. Conflitto, in ultima analisi, fondamentalmente psicologico, conflitto tra l'accettazione e la non accettazione della finitezza umana, tra una giovinezza ed un immaturità psicofisiche volontariamente mantenute ad ogni costo, ed un invecchiamento legato ai ritmi vitali e naturali, fatto di saggezza e consapevolezza. Conflitto tra la volontà di possedere una perenne adolescenza del corpo e della psiche e la evidente finitezza dell'essere umano. Per concludere, è probabilmente questo distacco della cultura contemporanea dagli elementi spirituali e trascendenti dell'essere in funzione di una dimensione neo-scientista bio-neuro-centrica più facilmente controllabile ed assoggettabile, questo distacco dal naturale e vitale fluire del tempo, dell'esistenza scandita anche da malattie, da sofferenze e da morte, la causa, in parte, dello smarrimento complessivo che personalmente leggiamo nella civiltà odierna. Probabilmente, un ritorno alla riflessione sulla morte e sulla malattia, sull'insita spiritualità e trascendenza proprie dell'uomo oltre che sulla vita, sul tempo e sulle stagioni dell'esistenza, potrebbero riportare un po' di luce in questa contemporanea oscurità fatta di superficialità, semplificazione, razionalità a senso unico e negazione, in ultima analisi, dei confini psicologici, sulla mappa dell'uomo, costituiti dai territori chiamati Io ed Altro.








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