LA
MALATTIA
DAL
PENSIERO MAGICO
AL
PENSIERO SCIENTIFICO
di
CLAUDIO
MICHELAZZI
INTRODUZIONE
Se
è vero che l'elaborazione di un saggio, dovrebbe servire anche per
acquisire ulteriori conoscenze su uno o più argomenti e
ristrutturare così il patrimonio conoscitivo , proponendo
eventualmente nuove ed originali connessioni tra gli elementi dati in
un'ottica di integrazione di pratiche e saperi che operi per un
cambiamento di prospettive, ove necessario, all'interno di un
paradigma scientifico oppure nei momenti di rivoluzione tra
paradigmi, allora, chi scrive, può sicuramente affermare che, almeno
per l'autore, questo saggio ed il suo argomento di fondo, sono stati
illuminanti. Forte di una preparazione scientifica di base legata a
quegli aspetti psicofisiologici, neuropsicologici e complessivamente
biologici, che fondano il paradigma, oggi dominante nella comunità
scientifica, delle neuroscienze, ossia il mondo “cervello”,
quindi di una preparazione iniziale inserita in un'epistemologia
prevalentemente riduzionista, deterministica e marcatamente
bio-neuro-centrica,
preparazione scientifica arricchita successivamente da saperi e
pratiche cliniche ed antropologiche di più ampio respiro, a chi
scrive, mancava certamente un cammino di approfondimento, anche in
altre direzioni. Un percorso umano e scientifico altamente formativo
che ha consentito all'autore di conoscere le ipotesi basilari e
quelle più all'avanguardia inerenti l'altra faccia della medaglia,
ossia il mondo “mente”, delle scienze psi, faccia composta da
ipotesi, ricerche, studi e dati, articolati all'interno di percorsi
scientifici legati ai più moderni paradigmi come il paradigma
sistemico, il paradigma della complessità ed il paradigma olistico.
Un grande cambiamento generale di prospettiva e di metodo, dunque,
che ha portato chi scrive ad aprirsi ad altri orizzonti scientifici e
conoscitivi, propri anche di altre culture, considerando utile
l'integrazione di contributi provenienti da esperienze altre e da
diverse letture dei fenomeni, in un'ottica di cammino di crescita che
da un pensiero di matrice “positivistico-scientista” è andato
articolandosi fino ad un più moderno pensiero
“sistemico-relativistico-fenomenologico”. Di grande interesse
l'argomento principale di questo saggio, il concetto di malattia
dalla dimensione religiosa alla dimensione scientifica ed il corso
universitario, inserito nel dottorato magistrale di psicologia
clinica, da cui è scaturito questo argomento, il corso di sanità
pubblica e medicina di comunità. Attraverso l'analisi,
prevalentemente storica ed etno-antropologica, e lo studio della
dimensione culturale del concetto di malattia, l'autore della
presente trattazione, ha voluto poter cogliere il passaggio dalle
conoscenze e competenze strettamente bio-mediche e socio-sanitarie
date da un corso incentrato sulla medicina ad una più ampia gamma di
rimandi e suggestioni che coinvolgessero le scienze umane in toto,
consapevole che, probabilmente, da un punto di vista epistemologico e
complessivo, il metodo scientifico più funzionale e mirato e la
soluzione empirica più proficua oggi, trovino casa nell'integrazione
di conoscenze e competenze e nell'idea di network di saperi e
pratiche. Non possiamo più permetterci, in modo esclusivo ed
autoreferenziale di separare, dividere, ridurre ai minimi termini il
corpo o la mente. All'era delle grandi analisi deve, necessariamente,
collegarsi, oggi, l'era delle grandi sintesi. Anche i processi
bio-molecolari che si scatenano tra un neurone e l'altro
rappresentano, oltre ad un dato biologico e naturalistico di base, un
fenomeno culturale profondo per ogni scienziato che, nello studiare
quei processi, mette in gioco questo fenomeno culturale in un cammino
di interconnessione continua tra dati empirici e dati culturali. La
prassi medica in toto, non è legata solo a fenomeni fisiologici,
biologici e anatomo-patologici, ma, oggi più che mai, anche a
fenomeni psicologici, sociologici, economici e politici, così come
il corpo umano, a parere di chi scrive, non è meramente un organismo
biologico ma, un vero e proprio “organismo
culturale”
dove la parola “organismo” segnala l'insieme degli elementi
biologici e la parola “culturale” l'insieme degli elementi
psico-socio-antropologici. Insiemi strettamente correlati ed
intrecciati. La malattia, dunque, come fil rouge di questo lavoro, la
malattia come momento dove gli aspetti biologici colpiti dalla
patologia, aspetti biologici e fisiologici spesso silenti o
scarsamente percettibili, in stato di salute, richiamano l'attenzione
dell'uomo, la sua mente, la sua riflessione, e questo potente
richiamo produce cultura, religiosa o scientifica, che si diffonde e
permea i popoli, le comunità, le epoche ed i secoli. La malattia
come vasto ponte di collegamento tra bios ed ethnos; la malattia
anche come cura e cultura. La malattia come esperienza di vissuti
umani, vissuti che producono civiltà.
Nel
primo
capitolo della
presente trattazione, verrà presentata una panoramica generale,
epistemologica ed antropologica che, lungi dal voler essere, per
forza di cose, sistematica ed orientata ad una sola teoria, vuole
proporre una riflessione che si arricchisca di svariati contributi
scientifici, indirizzati in più direzioni, questo per consentire una
valutazione complessiva dei contributi di ricerca in materia. Avendo
più linee guida, anche contrastanti, riusciamo ad orientarci meglio,
nell'ottica di una mappa delle conoscenze che ci consenta di poter
esplorare al meglio i territori e le vastità di cui è costituito
l'argomento principale della tesi. Dal punto di vista epistemologico,
delle teorie sulla conoscenza scientifica, fondamentale diviene, a
parere dell'autore, il contributo di Thomas
Kuhn, principalmente come chiave di lettura dei processi di
formazione della scienza in un'ottica di integrazione delle
conoscenze e dei saperi, anche in modo creativo ed intuitivo, da
paradigma a paradigma, di rivoluzione in rivoluzione. Vengono poi
presentati i contributi di Charles Darwin, e del filone di ricerca
che si dipana a partire dalla sua teorizzazione, consapevoli del
fatto che, considerevoli sono stati, e sono, gli influssi culturali
in senso ampio che la teoria naturalistica dell'evoluzione ha
prodotto e produce anche oggi. Per quanto concerne il campo
bio-medico, sono stati proposti, nel momento introduttivo del primo
capitolo, degli interessantissimi contributi inerenti le discipline
umanistico-antropologiche, le Medical Humanities, che si occupano
di supportare e di influenzare, nel senso di un ampliamento di
prospettive non solo riduzionistiche, deterministiche e
“biologistiche” ma anche umanistiche e sociologiche, i processi
di conoscenza e le prassi della medicina occidentale odierna che,
procedendo, spesso, solamente nella dimensione fisiologica ed
anatomo-patologica, tende a “disumanizzare” il corpo dell'uomo,
influenzata ancora dal paradigma dualista di cartesiana memoria. Per
chiudere il primo paragrafo del capitolo, l'autore ha voluto
proporre, come spunto per un orientamento epistemologico, gli enormi
contributi di uno scienziato, Carl Gustav Jung, psichiatra e
psicologo la cui opera, chi scrive, reputa di enorme interesse, che è
riuscito a tracciare dei percorsi di ricerca e di prassi nell'ambito
di una sintesi complessiva tra approccio biologico ed analitico ed
approccio olistico ad antropologico. Ultimo, ma non ultimo, il
contributo di un grande psicologo italiano, Luigi De Marchi,
scienziato dalle enormi capacità riflessive e di sintesi, la cui
interessante ipotesi dello shock
primario
viene, in questa sede, riproposta come considerevole punto di vista
ed ulteriore linea guida.
Nella
seconda parte del primo capitolo, è presentata una carrellata di
riflessioni teoriche articolate dai principali antropologi e da uno
psicologo, a partire dall'Ottocento, sui concetti di malattia, di
magia e di religione. In successione, chi scrive, ha voluto proporre
i contributi scientifici di Lucien Lévy Bruhl, Marcel Mauss,
Bronislaw Malinoswski, Ernesto De Martino, James Frazer e Wilhelm
Reich, sempre avendo ben chiara l'idea di fondo della presente
trattazione, che la varietà di riferimenti proposti, possa servire
come strumento essenziale, come rete di conoscenze utile per
percorrere in modo completo, un territorio vasto e frastagliato come
quello del rapporto salute-malattia.
Nel
secondo
capitolo di
questo saggio, capitolo centrale per quanto riguarda l'analisi e la
riflessione sull'evoluzione del concetto di malattia, dalla
dimensione religiosa alla dimensione scientifica, l'autore propone
una disamina dettagliata degli aspetti storici ed antropologici
legati ai concetti di salute e malattia per come sono andati
articolandosi nella civiltà occidentale, dai primordi alla
contemporaneità. La panoramica presentata è stata articolata
tenendo in considerazione la complessità dei percorsi storici ed
antropologici, dove la concezione del sacro, gli aspetti magici, la
prassi medica, la Rivoluzione scientifica, il metodo sperimentale,
l'osservazione clinica, l'idea di malattia, non possono essere
conosciuti in modo settoriale e disgiunti gli uni dagli altri, ma
come elementi intrecciati in una reciproca influenza, come percorsi
di conoscenza e di definizione dei fenomeni, interagenti, come pietre
e mattoni fondamentali per la costruzione di quell'edificio chiamato
“cultura”.
Ampio
spazio, dunque, è stato dato, nella presente tesi, agli sviluppi
delle idee di salute e malattia nell'ambito della cultura
occidentale, questo perché, in un periodo di consistente
globalizzazione e “rimescolamento” di culture, l'autore ha
ritenuto opportuno, ritornare alla riflessione sulla propria civiltà,
non certo per paura del diverso o per beceri opportunismi politici di
varia natura, ma perché consapevolmente convinto che solo non
rinnegando la propria provenienza, come intenderebbero fare spesso i
promotori di un multiculturalismo di maniera, e presentando all'Altro
la propria cultura e la propria appartenenza, possa esistere il
riconoscimento reciproco. Io posso esistere culturalmente in quanto
uomo occidentale che si confronta con altri uomini che possono
esistere culturalmente in quanto uomini di altre civiltà e culture.
Un territorio è fatto anche di confini, soprattutto psicologici, che
delimitano il proprio essere, non di muri, si badi bene, ma di
reciproci confini-riconoscimenti.
Il
terzo
capitolo
di questa trattazione è dedicato alla presentazione del concetto di
malattia in altre culture, nello specifico in alcune importantissime
culture asiatiche, come quella cinese e quella indiana, e nelle
culture dell'America precolombiana. Per quanto concerne le medicine
asiatiche, si è voluto riflettere sul paradigma olistico che
impregna quasi costantemente le riflessioni e le pratiche sia cinesi
che indiane. Fin dai primordi, nelle grandi civiltà asiatiche,
l'idea di una relazione funzionale tra uomo e cosmo è stata alla
base di ogni teorizzazione e di ogni prassi medica e questo assunto
basilare ha consentito, nel corso dei millenni, di elaborare visioni
e strategie terapeutiche capaci di considerare l'uomo come parte del
tutto ed in stretto contatto con il tutto. Per quanto concerne le
medicine amerindie, l'autore, ha proposto una riflessione,
presentando alcuni aspetti specifici, sulla figura dello sciamano che
grande rilievo ha avuto nelle culture precolombiane. Figura-ponte,
collegamento tra dimensioni, lo sciamano è il detentore del sapere
medico e curativo di una medicina a cavallo tra magia, religione ed
empirismo terapeutico funzionale.
Forte,
dopo l'analisi comparata anche di questi momenti culturali
extra-occidentali, è stata la consapevolezza che lo strumento, il
paradigma più affine per la sensibilità e per la visione di chi
scrive, rimane senza dubbio quello andato articolandosi a partire dal
percorso umano e scientifico di Carl Gustav Jung, negli aspetti
psicologici e psicoterapeutici individuali e negli aspetti
antropologicamente più transpersonali. Interessante, come ipotesi
inerente i vissuti primordiali comuni al genere umano, potrebbe
essere, secondo l'autore, una riflessione complessiva che prenda in
esame, almeno nei loro aspetti più culturali, se non possibile,
ovviamente, negli aspetti scientifici, anche dottrine vitalistiche
come la Naturphilosophie
der Frühromantik
,
la filosofia della natura del primo romanticismo con l'idea di forma
archetipica o Urform,
scalzate
da un o scientismo positivista successivamente imperante e poi
dimenticate o riprese sporadicamente da qualche corrente di pensiero
definita irrazionalista, dottrine che, seppur datate, possono ancora
fornire utili suggestioni e rimandi.
Nel
quarto
capitolo
di questa trattazione, l'autore, facendo riferimento all'interessante
saggio di Giorgio Cosmacini dal titolo “ Le spade di Damocle –
Paure e malattie nella storia”, ha proposto una carrellata fatta di
dati e di elementi storico-antropologici sulle grandi epidemie della
storia, a partire da lebbra e peste fino ad arrivare all' AIDS.
Questa panoramica finale è stata presentata perché chi scrive ha
reputato utile riflettere sul macrocosmo delle grandi patologie della
storia e sui suoi collegamenti bio-medici, sociali, economici,
politici e psicologici, in relazione ai microcosmi legati ad ogni
vissuto individuale di malattia o a quello di ogni piccolo nucleo
comunitario. Come ha reagito l'umanità fatta di diverse classi
sociali, di professionalità svariate, di comunità differenti, di
culture disparate, nel corso della storia, alla morte ed alla
distruzione date dalle patologie? Ecco l'affascinante quesito che,
per chi scrive, resta come leit-motiv del presente lavoro. Il
capitolo si conclude con una riflessione sulla contemporaneità
globalizzata e la sua predisposizione a relegare, a nascondere e
negare morte e malattia. Cammino intrapreso dapprima da culture
avanzate come quella occidentale e poi diffuso in diverse aree del
mondo. Cammino che rischia di portarci sull'orlo di un abisso, fatto
di iper perfezionismo, di desiderio di eterna giovinezza fine a se
stesso e di negazione della fragilità umana e della morte.
CAPITOLO I
PREMESSE EPISTEMOLOGICHE, METODOLOGICHE E PANORAMICA ETNO-ANTROPOLOGICA COMPARATA.
1.1 PREMESSE EPISTEMOLOGICHE E METODOLOGICHE
Nell'accingerci
a presentare l'evoluzione del concetto di malattia, e nello specifico
della prima parte di questo saggio, del concetto di malattia
nell'ambito delle culture occidentali, vogliamo presentare, in prima
battuta, alcune linee guida di natura epistemologica, scientifica ed
antropologica, che potranno fungere da coordinate per la comprensione
e l'articolazione di tutto il percorso di analisi della complessità
che il tema malattia porta alla luce. Premesse necessarie, che in
questa sede non vogliono avere nessuna pretesa di sistematicità, che
possano essere utilizzate come lenti di ingrandimento per
focalizzare l'attenzione su aspetti particolari e tentare di aiutare
la comprensione complessiva del problema trattato. Premesse volte a
sostenere uno sguardo critico ed analitico su un percorso articolato
come quello di malattia che ha toccato, e tocca, svariati aspetti
della complessità dell'uomo, aspetti studiati da discipline come
medicina, biologia, psicologia, antropologia, etnologia e da teorie
della conoscenza e dei processi scientifici. Premesse che, pur in un
contesto di studio comparato tra svariate culture come vuole essere
la presente trattazione, non possono prescindere dalle posizioni
scientifiche, andate articolandosi nel corso dei secoli della storia
occidentale, posizioni che hanno influenzato ed influenzano ogni
formazione ed ogni prassi in ambito scientifico, anche quella di chi
scrive, che essendo vicino ad una formazione e ad una sensibilità
intellettuale di impianto fenomenologico, vuole però sottolineare la
consapevolezza della necessità e della insostituibilità di un
approccio critico, non dogmatico e di una sospensione metodologica
del giudizio a priori.
Primo percorso chiave per una
lettura precisa, incastonata nella contemporaneità del pensiero
epistemologico sul divenire della ricerca scientifica è la
riflessione di Thomas
Kuhn (1922-1996).
Nel
1962, nel suo capolavoro dal titolo The
Structure of Scientific Revolutions,
l'epistemologo
Thomas Kuhn, descrisse le tappe fondamentali del processo che
costituiva la teorizzazione di una innovativa proposta di Scienza.
Secondo
lo scienziato americano, le basi fondanti una nuova e solida
epistemologia erano da ricercare nei concetti di paradigma
e di scienza
normale.
Per
scienza
normale,
Kuhn intende una stabile ricerca costruita su risultati consolidati
da percorsi scientifici del passato, validati da una comunità
scientifica che, per in un determinato periodo di tempo, riconosce
questi risultati come fondamenta della sua prassi ulteriore.
Capisaldi della scienza
normale sono
i trattati prodotti e i principi fondanti che non vengono messi in
discussione e vengono considerati soprattutto in base alla loro
applicabilità e alla applicabilità delle ipotesi prodotte
nell'ottica di una riconferma seriale. Kuhn sostiene che persino gli
strumenti atti alla misurabilità in ambito sperimentale, sono
elaborati nell'ottica dei principi della scienza
normale
,tendendo così a confermare quella rete di concetti costituitasi in
paradigma.
Con
il termine di paradigma, Kuhn, intende indicare conquiste
scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo
periodo, forniscono un modello di problemi e di soluzioni accettabili
a coloro che praticano un certo campo di ricerca1
Ed
è proprio la novità di un paradigma
ad
attrarre nuovi gruppi di scienziati distaccatisi da precedenti
comunità scientifiche per tentare nuove strade nella ricerca.
Tuttavia, lo scienziato americano, scardina la visione “romantica”
della scienza, legata ad aspetti “eroici” e “mitopoietici”,
teorizzando l'opera continua di cesellamento e ripulitura di ipotesi
e teorizzazioni portata avanti dalle comunità scientifiche
nell'ambito di un determinato paradigma.
Il
concetto però più innovativo di Kuhn è legato all' idea di
rivoluzione
scientifica .
Per lo studioso, quando un
determinato paradigma, universalmente accettato, entra in crisi a
causa della falsificazione delle ipotesi costruite su di esso, si
apre il periodo della rivoluzione scientifica, dove percorsi
innovativi di ricerca daranno alla luce ulteriori e diversi nuovi
paradigmi, da accettare o rifiutare da parte delle comunità
scientifiche. Diversamente dal periodo della scienza
normale ,
dove si sviluppano ricerche atte a sostenere il paradigma dominante,
durante una rivoluzione
scientifica ,centro
della ricerca divengono le ipotesi atte a falsificare una teoria. I
nuovi paradigmi nasceranno così sganciati dai risultati della
scienza precedente e fuori da una visione “idealistica”,
“sommativa” e “progressiva” del sapere scientifico, in
stretta connessione, piuttosto, con l'abbandono delle vecchie
ipotesi, senza sminuirne l'importanza, e degli schemi precostituiti
del paradigma dominante.
La nuova comunità di
ricercatori, quindi, si attiverà per trovare dati e risultati
sperimentali alla luce del nuovo paradigma, facendo rientrare la fase
rivoluzionaria sui binari della scienza normale e producendo ipotesi
e manuali a sostegno di un nuovo percorso intrapreso e pronto, dopo
il tempo occorrente ad una nuova falsificazione e ad una nuova
rivoluzione. L'elaborazione epistemologica di Kuhn, ci consente così
di poter osservare, nell'ambito di questa trattazione, la storia e
l'evoluzione della medicina e del concetto di malattia come fasi di
alternanza tra scienza normale e rivoluzioni scientifiche, tra
ricerca per ampliare ipotesi e conoscenze relative ad un determinato
paradigma e la sua successiva falsificazione e disconferma a favore
di nuovi paradigmi. Qualche esempio, i passaggi rivoluzionari tra i
paradigmi, umorale (dalle origini fino al XIV° secolo),
anatomopatologico (dal XIV° al XVII° secolo), organico (XVIII°
secolo), tissutale (XVIII° secolo), cellulare (1858), istologico
(XIX° secolo), microbiologico (1880-1884), biochimico (1905) e
genico (1953).
Un
secondo percorso importante come premessa epistemologica e
metodologica per avere diverse chiavi di lettura inerenti lo sviluppo
del concetto di malattia, è l'orientamento scientifico di ricerca,
da poco concretizzato, ma fondatosi su un paradigma tra i più
potenti mai articolati durante la storia della scienza ossia la
teoria dell'evoluzione di Charles
Darwin (1809-1882),
della medicina evoluzionistica.
Questa
scienza, basata sulla teoria evoluzionistica, si fonda sugli apporti
di diverse discipline come la biologia evolutiva, l'antropologia, la
genetica e la microbiologia e la psicologia darwiniana. Scopo
principale di questo percorso interdisciplinare di ricerca è
principalmente trovare i significati adattivi della vulnerabilità
del corpo umano alla malattia. Diversamente dall'approccio medico
moderno che ricerca soprattutto il come
della
patologia, la medicina evolutiva contemporanea ricerca soprattutto il
perché.
Attraverso l'approccio
scientifico di orientamento evoluzionistico, medicina, psicologia e
psichiatria darwiniane, hanno proposto una chiave di lettura
estremamente interessante inerente i concetti di salute e di
malattia, grazie anche alla incredibile mole di dati e risultati
emersi dalla ricerca, chiave di lettura per noi avvincente anche per
l'importanza riservata alla fondamentale interazione tra corpo e
mondo, con tutte le enormi implicazioni scientifiche che questa
relazione comporta.
Fermi restando, per questo
paradigma di ricerca, i concetti fondamentali di selezione naturale,
adattamento, funzione, causalità remota, meccanismi prossimi,
fitness individuale ed inclusiva, sviluppo, altruismo e comportamento
prosociale, molti sono stati i nuovi risultati e molte le ipotesi
innovative sondate attraverso il metodo sperimentale che, negli
ultimi anni, hanno arricchito il patrimonio di conoscenza della
comunità scientifica.
Partendo
dal presupposto che l'evoluzione biologica non è un processo guidato
verso qualche obiettivo prestabilito, da leggere in chiave
teleologica, ma le risposte adattive ai cambiamenti delle condizioni
di vita, cioè l'acquisizione di modificazioni fenotipiche che
consentono la sopravvivenza a fronte di nuove condizioni ambientali
dipendono dalla variazione genetica disponibile e dai fattori che
agiscono selettivamente (selezione naturale), i teorici e gli
studiosi legati alla medicina evoluzionistica, hanno ipotizzato come
la biologia umana, insieme a quella di qualsiasi organismo vivente,
possa contenere numerose imperfezioni che tendono a manifestarsi
come, o predisporre a, condizioni da cui possano derivare sofferenze
e rischi per la sopravvivenza: le malattie, appunto2.
Grazie
alla teorizzazione dei tratti, ossia fenotipi misurabili o
ipotizzabili, che hanno funzioni specifiche e risultano influenzati
dall'informazione genetica e che possono essere adattivi o
disadattivi, gli studiosi hanno potuto proporre, come importanti
esempi di tratti da definirsi disadattivi che possono trovare una
spiegazione nelle pressioni selettive ambientali del passato, le
numerose variazioni genetiche responsabili di limitazioni funzionali
letali o non letali, queste ultime come forma di protezione contro
specifici agenti infettivi (citiamo a titolo di esempio interessante
le emoglobinopatie che sono entrate nel pool genico delle popolazioni
vissute in ambienti nei quali infieriva la malaria grave, da
Plasmodium
falciparum)3
Attraverso
la teorizzazione di matrice evoluzionistica, gli scienziati hanno
potuto ipotizzare ed articolare un vasto sistema di lettura dei
fenomeni, un sistema integrato e con un ampio raggio di azione che ha
coinvolto e toccato diversi campi di ricerca, dalla microbiologia
fino alle scienze umane. In sostanza, il principio fondamentale di
questo paradigma è legato all'ipotesi inerente l'uomo moderno come
risultato, imperfetto e quindi straordinario, di quattro milioni di
anni di evoluzione4,
evoluzione che è stata possibile grazie alla estrema plasticità
dell'organismo/uomo rimasto in interazione costante con l'ambiente,
in un processo di estrema influenza reciproca.
Un terzo percorso fondamentale
per la comprensione dello sviluppo del concetto di malattia nelle
culture umane, è dato dalle ricerche e dagli studi in ambito
antropologico. Tratteremo in un paragrafo successivo alcuni
contributi dei padri dell'etno-antropologia moderna, in special modo,
le ipotesi sullo sviluppo e sulla diversificazione dei pensieri
magico, religioso e scientifico. Grazie allo strumento operativo
importantissimo dell'etnologia, la comunità scientifica è riuscita
ad articolare prassi di ricerca, ipotesi e teorizzazioni nell'ambito
di una nuova disciplina integrata, l'antropologia medica.
Questa disciplina scientifica,
fortemente impostata sui processi di ridefinizione dei concetti di
salute, malattia, corpo, cura, dolore in rapporto alla variabilità
dei contesti culturali e sociali di riferimento e su metodologie
comparative e ricerca sul campo, si occupa dello studio, sul versante
socio-culturale, dei fenomeni di salute e malattia, in una chiave
integrata biologica e storico-sociale.
Secondo
Vittorio Lanternari
(1918-2010),
l'antropologia medica, così come altre discipline (Etnomedicina,
storia della medicina popolare, etnopsichiatria, psichiatria
transculturale e così via), nascono dalla crisi della scienza e
della pratica medica nelle società occidentali e dal diffuso
malessere sociale nei confronti di una medicina sempre più
distaccata dal paziente5.
Quindi,
secondo Domenico Volpini
(1938), l'antropologia medica ha evidenziato come ogni individuo in
ogni contesto sociale percepisca, interpreti ed affronti la malattia
e la salute con modalità strettamente connesse al vissuto personale
e all'ambiente socio-culturale di cui è parte6.
Grazie
all'elaborazione e all'articolazione di diversi costrutti teorici
nell'ambito dell'antropologia medica (a titolo di esempio citiamo la
teoria medico-ecologica, formulata da A. Alland nel 1970, la teoria
culturale, dovuta ad A.Kleinman e la teoria critica, sviluppatasi
negli ultimi 15 anni), la disciplina antropologica ha messo in luce
le complesse dinamiche che intervengono a livello sociale e culturale
nell'attribuzione di senso alla malattia. I codici culturali dei
sistemi terapeutici, sia in ambito occidentale che in altri ambiti,
possono quindi essere riconosciuti ed interpretati, in modo rigoroso,
all'interno di un discorso socio-culturale più ampio che tenga conto
delle dinamiche relazionali, delle prassi tecnico-scientifiche e dei
contenuti valoriali e normativi del suo specifico contesto sociale7.
Un grande contributo recente
delle scienze umane alla riflessione e alla pratica in ambito
sanitario, è inerente alle Medical Humanities, un insieme di
discipline che analizzano le modalità attraverso cui le scienze
umanistiche (storia, etica, filosofia, sociologia, antropologia e
così via.) possono influenzare l’educazione e la pratica medica.
Grazie al contributo delle
scienze umane e sociali e, in particolare, dell’antropologia
medica, su tematiche quali, ad esempio: i significati simbolici degli
stati di salute e malattia; i rapporti di forza (socio-politici,
culturali ed economici) che intervengono nella relazione
medico-paziente; le prassi e le ideologie terapeutiche dei vari
sistemi di cura le Medical Humanities hanno sviluppato una
consapevole ridiscussione del paradigma biomedico occidentale.
Secondo
Hevans e Greaves, le Medical Humanities hanno consentito di
migliorare le capacità del medico, dell’infermiere, del
farmacista, del dirigente sanitario di comunicare con i pazienti e,
più ingenerale, con gli utenti dei servizi sanitari; penetrare più
in profondità nella narrazione dell’esperienza di disagio o di
malattia del malato; comprendere meglio il vissuto del paziente,
soprattutto nel caso di patologie ad andamento cronico; perfezionare
le capacità di fare diagnosi; ricercare percorsi diversi per
promuovere il benessere e ridurre l’impatto della malattia o della
disabilità sulla qualità di vita del malato; ed infine, evitare
il rischio di una pratica medica troppo prescrittiva, non soltanto
dal punto di vista farmacologico8.
Per finire questa carrellata di
contributi epistemologici, certamente non esaustiva per motivi di
spazio e, di questo, ci scusiamo, presentati quasi come suggestioni e
dispositivi intellettuali, di natura diversa, atti ad aiutare, in
parte, lo studioso nella comprensione di fenomeni complessi inerenti
la salute e la malattia, vogliamo proporre alcune ipotesi nate e
sviluppate nell'ambito delle scienze psichiatriche e psicologiche.
Ipotesi e teorie elaborate da notevoli studiosi e ricercatori, che
hanno dato un contributo interessante alle scienze antropologiche,
studiosi ben consapevoli dell'importanza di interdisciplinarietà e
integrazione di apporti che fanno delle scienze umane un patrimonio
di conoscenza e di sperimentazione tra i più completi nel panorama
scientifico, passato ed attuale.
Tra i primi grandi ricercatori,
provenienti dalla comunità scientifica medico-psicologica, a
sperimentare un approccio integrato tra biologia, psicologia e
produzioni culturali dell'uomo, sicuramente possiamo trovare il
grande psicologo svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961), fondatore
della psicologia analitica i cui assunti e le cui pratiche sono state
parte fondamentale dello sviluppo intellettuale e della formazione
professionale di chi scrive.
Formatosi in ambiente
medico-psichiatrico ed interessatosi presto alle innovative proposte
freudiane inerenti la teoria psicoanalitica, lo psichiatra svizzero
si impose, alla comunità scientifica, come valente sperimentatore,
clinico e teorizzatore. Dopo essersi allontanato dalle proposte
scientifiche di Sigmund Freud (1856-1939) il grande analista di
Zurigo, costruì, grazie ad una prassi clinica e di ricerca,
rigorosa, empirica ed estremamente critica, una teorizzazione
limpida e fortemente articolata, dove, accostando i processi
psicologici innescati da complessi di natura conscia ed inconscia,
appartenenti alla sfera individuale a processi transpersonali
fondamentalmente collettivi ed archetipici, forti risultano le
connessioni tra l'apparato psichico di ogni singolo uomo e le
produzioni culturali, simboliche e mitologiche, patrimonio
dell'umanità.
Ai
fini della nostra trattazione, risulta, però, importante riflettere
sulla visione terapeutica di Carl Gustav Jung, ossia sul concetto
innovativo dell' archetipo del terapeuta come guaritore
ferito, di colui che tiene in sè due poli opposti: il guaritore e il
ferito. E così viene alla luce la figura di Chirone che nella
mitologia era un centauro figlio illegittimo di Crono e Fillira,
immortale. Più saggio e benevolo di tutti i centauri fu grande
esperto dell’arte medica e insegnante perfino di Asclepio, padre
della medicina e di Eracle.
Dopo
una grave ferita, inguaribile,
Chirone impara l’arte della cura e , tenendo sempre presente la
propria sofferenza, capisce come essa può divenire simbolicamente lo
spazio attraverso cui il dolore degli altri può entrare in lui. Come
Chirone, così il terapeuta può comprendere la sofferenza dell’altro
solo riconoscendo e integrando la propria sofferenza, non come
debolezza o fragilità, ma come forza e strumento per poter lasciare
entrare ed entrare in contatto con l’altro. Seguendo questa idea
fondamentale, Carl Gustav Jung, si interessò fortemente a figure di
guaritori proprie del patrimonio antropologico e culturale
dell'umanità e nello specifico della figura dello sciamano.
La
visione sciamanica come primissima forma di contatto con il sacro e
al tempo stesso di cura e di guarigione si allontana dalla nostra
classica visione occidentale. Per diverse culture non occidentali, la
salute è un fatto globale, è una condizione di benessere, uno stare
bene nel corpo e nello spirito, è un giusto equilibrio tra le forze
della natura e le forze dello spirito. Questo equilibrio può essere
soltanto il risultato di uno stretto rapporto con entrambi gli ambiti
della realtà: lo spirito deve armonizzarsi con il corpo, con il
mondo circostante, con la natura, con gli altri e con gli spiriti del
mondo. Una visione che ricorda, per certi aspetti, alcune
teorizzazioni nate in ambito occidentale come la concezione olistica
della natura psicosomatica dell’uomo e quella della cultura
neoplatonica rinascimentale con la sua visione dell’anima mundi,
dell’anima del mondo. Se nella sua trance lo sciamano si reca
nell’aldilà, nei «mondi altri» per strappare l’anima che è
stata rubata all’ammalato, ciò sta a dimostrare la grande
dimensione spirituale che è comune alla salute. Lo sciamano usava
tremila anni fa attraverso le sue «tecniche dell’estasi» quelle
tecniche di gruppo che oggi, nella nostra contemporaneità
occidentale, riscopriamo per esempio con i gruppi Balint. Lo
psicodramma, le terapie di gruppo, l’analisi dei sogni, la
suggestione, l’ipnosi, la catarsi, l’immaginazione guidata e le
terapie psichedeliche facevano già parte del suo bagaglio
terapeutico e dei suoi riti di guarigione9.
Ritorneremo,
nel corso di questa trattazione, più volte sulla figura della
medicina sciamanica. In questa sede ci interessa però capire come,
per Jung, l’arte
e la pratica della psicoterapia siano comparabili alla storia
millenaria dello sciamanismo. Ci sono caverne nel sud della Francia
che contengono dipinti di sciamani in trance di oltre dodicimila anni
fa. Estendendosi non solo nel tempo ma nello spazio, le pratiche
sciamaniche sono state rintracciate in tutto il mondo, dalla
Patagonia alla Siberia. Non dovrebbe quindi sorprenderci che uno
studioso attento al patrimonio antropologico dell'umanità, come Carl
Gustav Jung abbia realizzato, con la sua profonda concezione del
processo di guarigione, delle riflessioni estremamente puntuali sulle
molte forme di terapia e di medicine non convenzionali, sciamanismo
compreso10.
Secondo
lo scienziato svizzero «L’estasi [dello sciamano] è spesso
accompagnata da uno stato [di coscienza] in cui lo sciamano è
“posseduto” dallo spirito dei suoi familiari o di quelli
guardiani. Tramite questa possessione egli acquista gli organi
mistici che in qualche modo costituiscono la sua vera e completa
personalità spirituale. Questo conferma l’inferenza psicologica
che può essere data dal simbolismo sciamanico, che diventa una
proiezione del processo di individuazione.»11.
Estremamente
interessanti, diventano quindi, i contributi junghiani, per lo studio
delle medicine non convenzionali e non occidentali, per la ricerca
etno-antropologica su temi come concetto di salute e malattia nelle
culture del mondo, per lo studio della storia delle religioni e per
la comprensione del simbolico, del mitologico, della creatività e
del rapporto costante tra psiche, soma e cultura.
Tra
le ipotesi e le ricerche più affascinanti, sviluppatesi negli ultimi
anni, nell'ambito della comunità scientifica interessata ai
problemi di psicologia e psichiatria, rilevante sembra, dal punto di
vista antropologico e a parere di chi scrive, il contributo di uno
scienziato italiano, tra i più originali e complessi, Luigi De
Marchi (1927-2010) psicologo e ricercatore.
Uomo
di scienza, psicologo clinico e sociale, vicino alle idee del Partito
Radicale Italiano, De Marchi si è costantemente impegnato, fin dagli
anni cinquanta del Novecento, e per tutto l'arco della sua carriera,
anche in battaglie per i diritti civili, per lo studio e la corretta
informazione su tematiche inerenti aspetti della sessualità come
l'assistenza anticoncezionale e l'educazione demografica, nell'ottica
della sua ipotesi in relazione alla tremenda pericolosità
dell'esplosione demografica e del suo aumento esponenziale nel corso
della storia dell'uomo, crescita demografica letta dallo studioso
come fenomeno collegato a guerre, fame, genocidi, migrazioni
disperate, crisi energetiche mondiali. Aspetti del problema di cui
oggi siamo a ben triste conoscenza. Luigi De Marchi è stato,
inoltre, l'introduttore, nella comunità scientifica italiana che si
occupa di ricerca in psicologia e psichiatria, delle ipotesi e delle
teorie proposte dalle scuole psicoterapeutiche di studiosi come
Wilhelm
Reich (1897-1957), Alexander Lowen (1910-2008) e Carl
Rogers (1902-1987). Negli anni ottanta del Novecento, lo scienziato
ha proposto, nell'ambito delle scienze umane, una affascinante teoria
della cultura che reputiamo, in questa sede, di interesse per un
ulteriore approfondimento. Nel saggio “Lo shock primario”, Luigi
De Marchi, espone, con lucidità e ricchezza di fonti autorevoli e di
prove documentate, l'ipotesi che la nascita della cultura e quindi lo
sviluppo e l'evoluzione dell'uomo, siano da derivare dalla nascita
della consapevolezza, nei nostri antenati ancestrali, della morte e
della malattia.
“Per
shock esistenziale”, scrive lo scienziato italiano, “intendo il
trauma, primario e ricorrente, che la scimmia umana ha subito quando
ha preso coscienza del proprio destino di morte e le sue particolari
capacità intellettive ed affettive hanno moltiplicato in lei
l'angoscia di morte e la sofferenza per la morte dei suoi simili.”12.
A
sostegno delle sue ipotesi, De Marchi, facendo riferimento ad un'idea
di cultura
vicina
agli assunti dell'antropologia culturale di Edwar
Taylor
(1832-1917) e dell'antropologia americana in toto, propone un
affascinante correlazione tra le sepolture di defunti, documenti di
storia umana tra i più antichi a noi giunti, e l'angoscia di morte.
Lo
psicologo italiano scrive “Il più antico documento di cultura
umana (ossia di attività umane espressive di credenza) finora
conosciuto, sono le sepolture neandertaliane del paleolitico medio,
cioè documenti inequivocabili di una formazione reattiva
all'angoscia di morte.”13,
sottolineando come questa ancestrale attività di sepoltura possa
costituire una primordiale tipologia relazione con la malattia, la
sofferenza, la morte dei propri simili, arrivando ad una elaborazione
superiore della negazione della morte. Secondo De Marchi, il dato
relativo all'atto della sepoltura dei propri simili come atto
culturale con tutto ciò che ne consegue, è stato spesso
sottovalutato dagli antropologi ed è stato un sociologo come Lewis
Munford (1895-1990)
a fornire un ulteriore contributo che reputiamo di interesse: “Ogni
volta che troviamo traccia dell'uomo nel più antico accampamento o
nell'utensile di pietra scheggiata, troviamo anche una testimonianza
di interesse e di angosce che non hanno riscontro tra gli animali: in
particolare un rispetto per i morti che vengono deliberatamente
seppelliti, unito a segni sempre più evidenti di apprensione e di
terrore di carattere religioso (….) il rispetto per i defunti (…..)
contribuì, forse più delle necessità pratiche, a far cercare
all'uomo una sede stabile (…...). La città dei morti è
antecedente a quella dei vivi. La precorre e ne costituisce il
nucleo.”14.
Terminiamo
questa carrellata di spunti epistemologici con una considerazione
finale inerente le proposte fatte. Crediamo importante segnalare come
il filo conduttore dei riferimenti presentati possa essere ritrovato
nella natura intrinseca della ricerca scientifica, occidentale e di
altre culture, e di come essa si sia evoluta nel corso degli ultimi
anni. Rispetto alle necessarie misure di dogmaticità e chiusura
proprie di ogni disciplina scientifica all'atto della fondazione,
dimensioni che sole, probabilmente possono aiutare la ricerca e la
produzione di ipotesi e teorie all'inizio di ogni rivoluzione
scientifica, oggi viviamo in un interessantissimo momento di forte
interdisciplinarietà tra modelli e di feconda integrazione di
contributi e di risultati tra le comunità scientifiche, approcci
questi, che hanno dato forma e vita al paradigma della complessità
bio-psico-sociale, con i suoi svariati modelli di lettura, che
attraversa tutte le scienze contemporanee della civiltà occidentale.
Nell'ottica della complessità e dell'integrazione, pertanto, sono
stati presentati, come premesse epistemologiche al presente lavoro,
alcuni approcci proposti e studiati dalle scienze biologiche, dalle
scienze antropologiche e dalle scienze psicologiche, discipline
strettamente legate ad una nuova concezione di uomo e umanità come
centri propulsori della ricerca e come motori da cui derivare lo
studio della concreta esperienza, che sembra, a chi scrive, aprire
interessanti scenari di ricerca, sperimentale ed empirica,
nell'ambito di un possibile nuovo umanesimo delle scienze.
2.1 UNA PANORAMICA ETNO-ANTROPOLOGICA
SUI
CONCETTI DI MAGIA E RELIGIONE
Per
iniziare un'attenta disamina dello sviluppo del concetto di malattia
nella civiltà occidentale e nelle altre culture del mondo, è nostra
intenzione approfondire, in questa sede, alcuni elementi fondamentali
e fondanti, comuni a tutte le civiltà, che, nell'ambito di una
visione comparata sulle culture umane, possano essere visti come
ponte tra mondi che hanno avuto sviluppi diversificati. Questi
elementi comuni, che vanno a costituire i nodi di una rete di saperi
condivisi dalle culture mondiali fin dalle origini, possono essere
rintracciati nella magia e nella religione. Pur consapevoli di
operare per una riflessione che possa essere metodologicamente legata
principalmente all'analisi dei fenomeni per come si presentano ad
un'osservazione, fenomenologicamente orientata, il più possibile
scevra da giudizi a priori, non possiamo non dirci influenzati,
comunque, dalla nostra cultura scientifica di provenienza. Questo
anche nell'ottica di una visione comparata e complessiva che si dica
critica ed analitica ma che non rinunci ai propri capisaldi teorici e
all'evoluzione dei propri paradigmi di riferimento, di qualsiasi
natura. Tutti gli sguardi sono diversi ed hanno pari dignità ed
importanza scientifica, ma il non voler guardare, perché si reputi
il proprio guardare troppo soggettivo a causa della cultura di
provenienza oppure si pretenda di volere ad ogni costo guardare
esclusivamente con gli occhi di un altro, nell'ottica di un
relativismo culturale di maniera, comporta, a nostro parere, una
mancanza di base, pur sopperita con altri strumenti, ma sempre una
mancanza. Pur nel rispetto totale di altre culture e nell'interesse
scientifico verso lo studio della complessità umana, posizioni
,queste, derivate, nell'ottica di chi scrive, dallo sviluppo del
pensiero occidentale e dei suoi fondamenti morali ed etici, non
possiamo non dirci
amanti
della
libertà data dalla nostra scienza (in senso lato), laica,
individualista, borghese, empirica, illuminista e razionale,
manifestando, sempre nel pensiero di chi scrive, la contrarietà
verso l'ottundimento dogmatico, mistico, manicheo, escatologico e
teocratico di altri orizzonti culturali dominati da religioni e
credenze che governano ogni sfera della vita collettiva ed
individuale dell'essere umano senza lasciare agli uomini nessuna via
di scampo.
Da
diverso tempo, le scienze antropologiche ed etnologiche si
interrogano e approfondiscono due dimensioni del pensiero e
dell'agire umani che, presenti fin dallo sviluppo dell'umanità,
hanno influenzato in modo trasversale tutta la storia delle culture
mondiali fin dalle origini, il pensiero magico e la prassi magica ed
il pensiero religioso e la prassi religiosa. Grazie ad importanti
contributi di ricerca, le comunità scientifiche hanno potuto
osservare, in relazione alla magia, come, da sempre, molti popoli
hanno fatto uso e fanno tuttora uso di riti magici. Con lo sviluppo
delle principali dottrine religiose, la ritualità ancestrale
collegata alla magia è stata integrata, in modo velato oppure
palese, come dimostrano, a titolo di esempio, i movimenti
spiritistici di Buenos Aires, il rito brasiliano del Candomblè, vera
e propria religione che adora divinità naturali come gli Orixàs ed
i riti africani del Senegal e della Costa d'Avorio.
Passeremo
in rassegna, ora, la riflessione teorica di alcuni autori, tra i
maggiori esperti e studiosi delle tematiche a noi di interesse,
ricercatori ed antropologi che hanno proposto alla comunità
scientifica, un percorso di studio e di analisi inerenti magia e
religione.
Vorremmo
presentare autori come Lucien Lévy Bruhl (1857-1939), Marcel Mauss
(1872-1950), Bronislaw Malinoswski (1884-1942) ed Ernesto De Martino
(1908-1965), lasciando ampio spazio, in ultima battuta ad un
antropologo come James Frazer (1854-1941) che, forte di una corposa
erudizione e di una capacità unica di narrare lo sviluppo di culture
umane, partendo da un approccio comparativo mirato, sentiamo
personalmente e scientificamente più vicino alle origini delle
attuali posizioni intellettuali predominanti nella comunità
scientifica, poiché formatosi in un ambiente positivista,
darwiniano, ebbe una chiara propensione all'analisi scientifica di
stampo razionalista vicina ad un empirismo humeano, scettico ed
anti-dogmatico , ponendo le basi dello sviluppo successivo di
un'antropologia evoluzionista che influenzerà la visione dell'uomo
come animale altamente evoluto, pur nelle sue infinite fragilità, e
facente parte, incontestabilmente, della natura. Approccio lontano da
ogni possibile accusa di riduzionismo, l'approccio evoluzionista, è,
a parere di chi scrive, probabilmente vicino a propensioni olistiche
sostanzialmente naturalistiche che, pur venate di determinismo, e pur
concependo il concetto di “Spirito”, “Psychè”, come
acquisito e non dato, fisico e non metafisico, rimane ancora oggi
come paradigma fondante della biologia e delle scienze della vita. A
parere di chi scrive, in relazione al campo scientifico di studi
scelto, la psicologia clinica, un nome, più di tutti, può essere
citato come esempio di scienziato dalle ampie convinzioni
globalmente materialistiche ed evoluzionistiche tuttavia lontane da
un riduzionismo meccanicista, al contrario, venate di una coloritura
naturalistica ed olistica e di una lettura dell'essere umano come
dato biologico stabile pur nella varietà assunta durante il percorso
evolutivo. Lo scienziato in questione è Wilhelm Reich (1897-1957),
medico, psichiatra e psicoanalista, che reputò fondamentale proporre
una ricerca in cui psiche e soma, biologia e psicologia, antropologia
culturale ed antropologia naturalistica, fossero integrate in un
funzionalismo complesso, altamente connesso con una visione
energetica di flusso, fortemente olistica e collegata con il sistema
cosmo. La prassi terapeutica, il modello teorico e le concezioni
scientifiche, filosofiche ed intellettuali di Wilhelm Reich fanno
profondamente parte anche del pensiero e degli approcci complessivi
della moderna psicologia e degli sviluppi più fecondi della scienza
psicoterapeutica.
Lucien
Lévy Bruhl, filosofo, antropologo e sociologo francese fu uno dei
primi ricercatori a sostenere che, per poter studiare i fenomeni
sociali nel loro manifestarsi elementare, fosse necessario osservare
le società primitive in contesto ecologico. Secondo l'antropologo
francese, la scienza occidentale avrebbe dovuto considerare la
diversità di appartenenza, nella pratica osservazionale, e capire, a
priori, come la cultura maturata in seno all'Occidente, fosse da
considerarsi estremamente diversa rispetto alle altre culture del
mondo.
Lévy
Bruhl, nel corso delle sue elaborazioni teoriche, articolò la teoria
del
prelogismo
che
sosteneva la completa diversità del pensiero delle culture primitive
rispetto alla cultura Occidentale. Il pensiero primitivo sarebbe così
caratterizzato da una forma mentis mistica e prelogica, influenzata
in modo complesso da irrazionalismo e inesistenza della
contraddizione.
L'antropologo
francese era fermamente convito che utilizzare le categorie di
pensiero della nostra cultura per osservare ed interpretare universi
culturali così diversi da noi, fosse un errore metodologico
sostanziale, soprattutto in funzione della riflessione sulle
diversità degli approcci a soggettività versus mondo e naturale
versus sovrannaturale. Questo errore metodologico, quindi, era
dovuto, a parere dello studioso, alla propensione eurocentrica della
scienza occidentale che tendeva a leggere altri pensieri ed altre
culture, ed in special modo le culture primitive, come forme arcaiche
e rudimentali di pensiero, poste in categorie primordiali rispetto a
quelle europee, situate molto più avanti rispetto ad una linea di
sviluppo verso il progresso, tipica concezione, questa,
dell'Occidente positivista.
Lévy
Bruhl era fermamente convinto che nelle culture primitive, forti
fossero le rappresentazioni collettive dominate dalle dimensioni di
fluidità e labilità sostenute da quella che lo scienziato francese
chiamerà legge
di partecipazione relativa
alla capacità del pensiero primitivo di elaborare una consistente
intensità di emozioni tale da indurre una partecipazione “mistica”
con l'universo. I primitivi, quindi, sentirebbero, grazie ad una
participation
mystique,
uno stretto legame con il mondo che li circonda e con un universo
attraversato da forze fluide di natura fisica e psichica che
consentono una sovrapposizione tra mondo sacro e mondo profano dove
forze soprannaturali riescono a penetrare nelle menti e nelle anime
degli uomini lasciando uno spazio alla prassi magica come tentativo
di moderazione trasversale. Analizzando in modo comparato le culture
primitive e la cultura occidentale, Lévy Bruhl, noterà come
all'interno del mondo Occidentale in molti elementi culturali si
possano rintracciare residui primordiali di natura prelogica e,
partendo da questa constatazione, l'antropologo francese ipotizzerà
che le due modalità di approccio alla riflessione, quella magica e
quella scientifica, sostanzialmente sono due modelli equivalenti di
sperimentazione della realtà e di lettura dei fatti. Le culture
primitive per Lévy Bruhl, inoltre, avrebbero la caratteristica di
correlare la riflessione sugli oggetti con una forte produzione
simbolica, operando così sul simbolo e contattando in questo modo le
potenze invisibili del cosmo producendo complesse pratiche di
stregoneria. In ultima analisi, il contributo sostanziale dato dallo
studioso francese alle discipline etno-antropologiche, e allo studio
della cultura, è stato quello di scardinare gli approcci
eurocentrici ai problemi, presentando, attraverso esempi concreti e
articolazioni complesse, percorsi comparati di confronto tra mondo
occidentale ed altre culture.
Lo
scienziato che ha influenzato più di tutti lo sviluppo
dell'antropologia francese contemporanea è senza dubbio Marcel
Mauss. Antropologo, sociologo e storico delle religioni, Mauss, che
fu scienziato metodico e scrupoloso, rifiutò categoricamente le
comparazioni generalizzate e le sistematizzazioni generiche.
Lo
studioso francese, grazie alla sua elaborazione scientifica
originalissima, propose una visione concreta della molteplicità e
della complessità delle culture mondiali, da osservarsi
principalmente nel contesto di origine, viste come sistemi integrati
in continua relazione per cui non esistono leggi generali se non in
ultima analisi. Interessante l'ipotesi di Mauss concernente gli
elementi distintivi del pensiero e della prassi magica da ricercarsi
nel luogo, negli agenti, nell'opposizione alla religiosità e
nell'irregolarità. La magia comprenderebbe così elementi come i
maghi,
dalle caratteristiche virtù magiche descritte in miti e tradizioni,
gli
atti,
pratiche magiche contraddistinte da spazio, tempo e luogo, da
strumenti e da oralità e/o manualità, e le
rappresentazioni magiche
costituite da idee e credenze. Per Marcel Mauss la magia è oggetto
di credenza “a priori”, perché costituita da induzioni
utilizzate dal gruppo mentre la scienza sarebbe costituita da
credenze “a posteriori” quindi continuamente sottoposte al
controllo sperimentale e razionale. Interessato all'analisi degli
elementi che compongono il sistema magico, Mauss, sarà tra i primi a
riflettere sul termine “Mana”, che tanto interesserà scienziati
e studiosi di scienze umane e della vita, termine che designa il
potere dello stregone, la qualità, l'essere e l'agire magici, tanto
da costituire una vera e propria potenza capace di mutare le cose.
Per l'antropologo francese la magia ha un forte impatto sociale e può
essere comparata a tecnica, scienza e religione. Questa succinta
panoramica sul pensiero di Marcel Mauss ha cercato di definire le
linee guida fondamentali del suo contributo scientifico, immenso
contributo che ha portato le scienze antropologiche alla modernità e
alla ricerca di continue integrazioni e di un'analisi metodica dei
sistemi complessi senza tuttavia perdere di vista ogni singolo anello
della concatenzaione causa-effetto.
Altro
grandissimo studioso e ricercatore, la cui influenza culturale e
scientifica ha coinvolto moltissime discipline, è l'antropologo
britannico di origine polacca, Bronislaw Malinowski, i cui studi,
incentrati sull'idea che le istituzioni umana vadano analizzate
all'interno del contesto che le ha prodotte, lo porteranno a fondare
l'antropologia funzionalista. Innovatore considerevole, Malinowski,
propone alla comunità scientifica una rivoluzione metodologica che
sarà conosciuta come osservazione
partecipante,
metodo etnografico legato alla ricerca intensiva sul campo.
Diversamente dalla scuola evoluzionista (Frazer) che leggeva i
fenomeni magia, religione e scienza come eventi razionali in continuo
sviluppo e dalla scuola sociologica (Mauss) interessata all'impatto
sociale e gruppale delle prassi magico-religiose, Malinowski propone
una netta separazione tra magia, religione e scienza, distinzione
dovuta a funzioni ed origini diversificate. In relazione alla
religione, l'antropologo britannico, propone una lettura chiara e
definita delle funzioni e dei compiti del pensiero e dalle prassi
religiose, viste come mezzi utili per elaborare i momenti di crisi
nello sviluppo dell'esistenza umana, grazie a principi fondanti di
natura metafisica e spirituale. La religione, quindi, per Malinowski,
aiuta l'uomo ad elaborare e superare, attraverso la ritualità, paure
e bisogni legati all'esistenza e a produrre una normatiovità morale
in seno al gruppo di appartenenza. La riflessione sulla magia del
grande scienziato di origine polacca, lo portò a concepire anche la
prassi magica come un tentativo degli esseri umani di trovare
soluzioni ai problemi, pratici e spirituali, posti dall'esistenza,
attraverso saperi e pratiche tramandate da tradizioni culturali. Il
sapere magico, la credenza nella magia, deriverebbero dalle
esperienze particolari sperimentate, durante il proprio cammino
iniziatico, dal mago, questi saperi sarebbero vere e proprie
rivelazioni.
Date
queste premesse, Malinowski, rifuta categoricamente l'idea della
magia come forma primordiale di conoscenza scientifica, secondo
l'antropologo britannico, l'obiettivo principale di magia e scienza è
rispondere ai bisogni primari dell'uomo. Entrambe le discipline,
nella visione malinowskiana, posseggono teorie e principi che
governano le modalità di azione, di ricerca e di sperimentazione e
la differenza sostanziale concerne il fatto che la scienza si basa su
esperienze quotidiane che vengono osservate e catalogate
razionalmente. Magia, scienza e religione diventano così, nel
pensiero di Malinowski, processi di conoscenza diversificati e
correlati a modalità di pensiero che possono coesistere. Ognuna
delle tre sfere di riflessione e di applicazione, quindi, può
occupare una struttura precisa delle culture umane: il sacro, il
profano, la tecnica, le arti e così via. In ultima analisi, per lo
scienziato britannico, magia, religione e scienza svolgono una
funzione importantissima nelle culture umane, funzione diversificata
per ciascun campo, dal più quotidiano e materiale a quello più
spirituale e sovrannaturale, interagendo continuamente per consentire
lo sviluppo della cultura.
Il
massimo studioso italiano di tematiche relative al rapporto tra magia
e religione, è senza dubbio l'etnologo ed antropologo Ernesto De
Martino. Rappresentante indiscusso di quel momento culturale di
passaggio, tipicamente italico, prevalentemente fatto di ombre, tra
il ventennio fascista, che vide il De Martino protagonista
intellettuale di rilievo nel panorama accademico molto vicino al
regime, e il secondo dopoguerra, che orientò più di un
intellettuale verso le convenienti sponde del comunismo
filo-stalinista del PCI, prova questa, probabilmente, delle
predisposizioni “machiavelliche” intrinseche ad una parte
considerevole della cultura del popolo italiano che, sia concesso
anche per un distinguo etnico , dato il tentativo complessivo del
presente lavoro di analizzare variabili culturali, e per la nostra
provenienza legata al mondo ladino dolomitico ,vicino all'area
geografica del Tirolo storico, mondo che forse ben poco a di che
spartire con l'evoluzione della cultura italica nella sua storia più
o meno recente, non fanno parte del panorama intellettuale ed umano
di chi scrive.
Sia
perdonata questa digressione che probabilmente si allontana da uno
sguardo che vuole essere il più scientifico ed oggettivo possibile e
dal tracciato su cui si muove l'argomento della presente trattazione
ma che manifesta l'orgoglio, per chi scrive, di appartenere ad una
minoranza etnica di confine come quella ladina che proprio per
essere attigua ed affine a ben altre realtà culturali e storiche,
vorrebbe distinguersi sostanzialmente da un'italianità che non le
appartiene se non per imposizione storica e quotidiana, italianità
la cui natura intrinseca ed estrinseca è fin troppo tristemente
conosciuta, soprattutto nei suoi aspetti politici, economici e
sociali.
Ernesto
De Martino, dunque, considerato esponente di spicco dell'antropologia
culturale italiana ed allievo di Benedetto Croce, propose una lettura
decisamente critica dello sviluppo dell'antropologia e
dell'etnografia, sostenendo fermamente l'irriducibilità
dell'esperienza umana ad un'indagine di tipo scientifico, relegata
alle scienze come conoscenze effimere inerenti approcci
utilitaristici ed applicativi. Per l'antropologo napoletano,
sostenitore convinto dello storicismo crociano, solo la storia può
rendere l'uomo sempre più consapevole, criticando ,così, aspramente
gli approcci scientifici francesi e britannici, colpevoli, a suo
parere, di incapacità di vedere la dimensione storica delle culture
primitive.
Lo
studioso italiano si propose di considerare l'universo magico nelle
sue pratiche e nelle sue credenze come legato, in modo importante, al
concetto di presenza
intesa come “esserci nel mondo”, dimensione elaborata dall'uomo
per far fronte alla tremenda paura del “non-esserci”, e, a
riprova della sua tesi, presentò alla comunità scientifica una
vasta gamma di esempi etnografici inerenti l'emersione delle culture
magiche come proiezione sul mondo del desiderio umano di manifestare
la propria esistenza. Con categorie di pensiero come “il dramma
storico del mondo magico”, De Martino, ipotizzò che vi fosse, alla
base della magia, una continua evoluzione riflessiva relativa ad
un'esistenza in continuo divenire, incerta e mai con sicurezza
definibile, relegando lo stregone, il mago, l'uomo con poteri
sovranaturali ad essere testimone per la comunità, di una realtà
sovrasensibile, più certa della vita reale, con cui interagire per
il bene della comunità. Per lo studioso italiano divenne così
fondamentale una prassi etnografica che obbligasse lo scienziato ad
un confronto serrato con il contesto naturale di ricerca, e per De
Martino, questa ricerca sul campo, avvenne nel Mezzogiorno d'Italia,
raccogliendo e catalogando una seria corposa di documentazione
concernente gli aspetti magico-religiosi del territorio. Da questa
ricerca e dall'analisi del materiale raccolto, l'antropologo
napoletano, riuscì a delineare una lettura culturale e sociale dai
toni critici e dalla messa in luce di meccanismi antropologici legati
ad una situazione di grande miseria complessiva dovuta, per lo
studioso, all'arretratezza ed all'isolamento in cui era stato tenuto
per secoli il Meridione. Grazie alla forte propensione del De Martino
per la ricerca sul campo, si sviluppò in lui una coscienza critica
che lo spinse a riflettere in modo approfondito sulla tendenza della
comunità di studiosi di etnologia per un' interpretazione
prevalentemente
etnocentrica costituita
da griglie intellettuali fatte di pregiudizi culturali. Per ovviare
al problema, lo studioso meridionale propose,e un approccio
etnocentrico critico che potesse utilizzare dispositivi e strumenti
conoscitivi autocritici e consapevoli che indirizzassero la comunità
scientifica occidentale verso un umanesimo
etnografico
che consentisse un' ampia storicizzazione ed un approfondito
confronto storico-culturale tra etnie.
Ernesto
De Martino divenne così uno studioso dai forti impulsi
interdisciplinari, coniugando l'approccio etnografico ed
antropologico a ricerca in campo psicologico e parapsicologico, che
lo spinsero alla raccolta di svariato materiale sulla fenomenologia
magica, su eventi fuori dall'ordinario, come chiaroveggenza,
telecinesi e telepatia, rimasti ai margini del pensiero scientifico
Occidentale classico e sui fenomeni di trance propri della ritualità
sciamanica delle culture primitive, fenomeni ai confini della
coscienza, ricchi di spunti comparativi con i processi psicotici di
scissione dell'io e di forte interesse per campi di studio come la
psicologia transpersonale.
Ultimo
grande scienziato che vogliamo presentare in questa carrellata, non
esaustiva per motivi di spazio, è il britannico James Frazer.
Abbiamo ritenuto opportuno dedicare lo spazio finale di questo
paragrafo ad un grande ricercatore che, pur cronologicamente e
scientificamente posizionato prima degli studiosi fin qui presentati,
a nostro parere, rappresenta un filone della ricerca, andato
articolandosi alla fine del XIX° secolo, dalle solide fondamenta
costruite su basi scientifiche ed epistemologiche vicine al paradigma
evoluzionistico di estrazionre darwiniana, da un lato, e
all'approccio biologico empirico-positivista, metodologicamente
rigoroso, dall'altro. Visioni e metodi che hanno fortemente
influenzato la cultura scientifica occidentale che, anche se
corposamente criticati, rimangono come contributo epistemologico
indiscusso, se non altro, per i decisivi sviluppi della ricerca
successiva. James Frazer, pur rimanendo legato alla concezione
antropologica ottocentesca, propose alla comunità scientifica
europea, grazie ad un corpus documentario considerevole, la
conoscenza approfondita di culture, tradizioni e folklore di
molteplici parti del mondo. La concezione dell'antropologo
britannico, relativa alla storia ed allo sviluppo delle culture
umane, era legata profondamente ad una visione evolutiva della
conoscenza umana, il cui articolarsi si dipanava dalla magia alla
religione, fino ad arrivare alla scienza moderna, unico approdo che
consentuiva una panoramica dettagliata ed approfondita sul mondo.
Frazer vedeva la magia come una pseudoscienza, propria delle
popolazioni primitive, dominata da figure carismatiche che,
attraverso pratiche stereotipate, volevano dominare gli eventi
naturali e sovrannaturali. Tuttavia, per l'antropologo britannico, la
magia, al pari della scienza, utilizzava una determinata regolarità
nell'osservare e trattare i fenomeni, una forma arcaica di controllo
sui dati oggettivi non sostenuta da alcun metodo sperimentale, ma
fondata su correlazioni illusorie e credenze. L'aver posto la magia a
fondamento dello sviluppo culturale umano, in un' ottica evolutiva
dei saperi e della conoscenza, su un percorso di natura lineare e non
circolare, per Frazer, non ha significato, comunque, una sua
svalutazione intellettuale e scientifica, anzi, il grande studioso
britannico, ha più volte sottolineato l'importanza della coerenza
logica interna al discorso magico, indicandone sempre la funzionalità
specifica nel contesto di origine e di utilizzo.
Come
per la magia, quindi, anche per la religione, diviene fondamentale,
secondo Frazer, riuscire ad orientare, con prassi e credenze, gli
accadimenti naturali, con la differenza sostanziale, però, che
mentre nel mondo magico governare gli spiriti e le energie
sovrasensibili era prerogativa dello sciamano, nella religione,
subentrano figure divine, da invocare con preghiere e riti, la cui
volontà è, nella maggior parte dei casi, imperscrutabile ed
ingovernabile. All'apice del percorso evolutivo della cultura umana,
Frazer, pone la scienza, con le sue correlazioni effettive e la sua
stringente logica legata a causalità, riproducibilità, validità,
e generalizzabilità, dando risalto alla perfettibilità del pensiero
umano, dote che ha consentito quindi, lo sviluppo della conoscenza
dalla magia alla religione, fino alla scienza.
L'opera
scientifica di James Frazer ebbe il suo sviluppo e la sua
articolazione, in modo consistente, nel lavoro di ampliamento, di
rimaneggiamento e di rimodellamento del suo monumentale saggio dal
titolo “The Golden Bough”, il Ramo d'oro, studio sulla magia e la
religione.
Fin
dal titolo del suo capolavoro, Frazer, intende procedere ad una
comparazione sistematica di miti, tradizioni e culture, alla ricerca
di elementi condivisi e di differenze e, partendo dal mito di Enea,
consigliato dalla Sibilla, in relazione ad un ramo d'oro da portare
con se per discendere verso l'Ade, analizzato in parallelo ad un
evento protostorico come il rito della soppressione del re del bosco
di Nemi, l'antropologo britannico propone un excursus, corposo e
dettagliato, nel mondo della magia, della religione, degli usi, dei
costumi e dei riti di moltissime culture. Nello sviluppo dell'opera,
James Frazer, pur seguendo il filo conduttore datogli dalla sua
propensione evoluzionista e darwiniana, riesce magistralmente a
divagare per infiniti sentieri trasversali, arricchendo la sua
riflessione di contributi legati a tematiche come la struttura della
magia, del culto, della natura, degli alberi, della costruzione dei
tabù, della morte e della rinascita.
Interessanti
sono le riflessionio critiche sui riti sacrificali ed espiatori,
evolutisi come prassi esorcizzanti ed apotropaiche.
Per
concludere questo breve percorso di presentazione delle principali
teorie etno-antropologiche sulle origini della riflessione
esistenziale dell'uomo, del suo rapporto con l'ambiente e del suo
bisogno di sviluppare cultura , vogliamo sottolineare come, a parere
di chi scrive, nella varietà di ipotesi e di correnti di pensiero,
alcune sostenute da contributi scientifici di natura empirica, altre
legate a riflessioni principalmente speculative, si possano trovare
dei tratti condivisi, che consentono di pensare, a guisa di
denominatore comune, al bisogno dei primi aggregati umani di narrare,
attraverso una grande molteplicità di strumenti, materiali ed
immateriali, legati alla magia, alla religione, alla mitopoiesi o
alla quotidianità, la propria esistenza complessivamente
bio-psichica ed energetica, situata nel mondo, i propri vissuti e le
proprie paure all'Altro, a differenza di qualsiasi altra specie
vivente, ed è probabilmente questo bisogno estremo di narrazione
coinvolgente le dimensioni di corpo, tempo, mondo ed
intersoggettività quindi di riconoscimento, il tratto comune di ogni
cultura che, in ultima analisi, è stato collante fondamentale nei
processi paralleli di emersione di produzione culturale, contesto,
sviluppo evolutivo biologico, sviluppo della coscienza e del pensiero
umano.
CAPITOLO II
EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI MALATTIA DALLA DIMENSIONE MAGICO-RELIGIOSA ALLA DIMENSIONE SCIENTIFICA NELLA CULTURA OCCIDENTALE.
1.2 LA MALATTIA NELLA PREISTORIA E NELL'ANTICHITA'
Molti
sono i dibattiti ancora aperti nelle comunità scientifiche, inerenti
le ipotesi legate allo sviluppo del concetto di malattia fin dalla
comparsa dei primi uomini.
Tuttavia
risulta unanime l'idea di come. fin quasi da subito, l'uomo si sia
occupato nella riflessione su salute e malattia. Le origini di
concettualizzazione della malattia coincidono verosimilmente con le
origini stesse della cultura umana ed è possibile che l'evoluzione
della religiosità abbia avuto luogo anche sotto le pressioni
selettive delle sofferenze umane patite a causa delle malattie che
colpivano i nostri antenati cacciatori-raccoglitori15.
Da
un punto di vista antropologico, seguendo la tradizione
storico-culturale, il pensiero umano sarebbe passato da un'originaria
fase magica,
tipica dei gruppi legati alla caccia e alla raccolta, a una fase
animistica,
caratteristica di popolazioni sedentarie, e, infine, ad una fase
personalistica,
propria di economie più sviluppate, dedite al commercio16.
Come
preziosa testimonianza dello sviluppo della riflessione dell'uomo su
salute e malattia, possiamo trovare i dipinti sulle pareti delle
caverne eseguiti dai primi gruppi evoluti di Uomo di Cro-Magnon e le
sepolture rituali che, con la presenza di più o meno ricchi corredi
funerari, stanno a dimostrare che la morte e la causa - o le cause –
che l'avevano provocata meritavano un rito che permettesse di vincere
l'angoscia generata dal dolore e dalla consapevolezza del distacco e
del non ritorno. La nascita della medicina non può che collocarsi in
questo punto ed essere concepita come sforzo per prolungare i termini
dell'esistenza17.
Per
quanto riguarda la civiltà occidentale già a partire dallo studio
sulle lingue indoeuropee è notevole l'assenza di un termine unico,
comune, inerente la malattia e, in tale varietà semantica, possiamo
definire diverse aree di significato come quella relativa al concetto
di malattia come debolezza, perdita di forze, incapacità al lavoro
fisico, o quella relativa a difformità e variabilità rispetto a
canoni di bellezza prestabiliti dalle comunità di appartenenza.
Ulteriori campi di differenziazioni semantiche si possono trovare in
relazione ai concetti di malattia come disturbo e malessere o
sofferenza e dolore. Risulta chiaro, in prima analisi, come in queste
arcaiche suddivisioni concettuali legate alla formazione di un
linguaggio, quindi di un pensiero, si possono trovare due ampie
macro-aree di significato: una soggettiva e concernente sensazioni
fisiche e sofferenza individuale ed una relativa all'incapacità di
partecipare al lavoro fisico per la sussistenza e alla devianza
rispetto alle proporzioni fisiche inerenti un canone di bellezza
condiviso dai gruppi sociali, queste ultime categorie, probabilmente
legate, grazie ad ampie coloriture morali ed estetiche, a
stigmatizzazioni e tentativi di isolamento sociale, dando peso, fin
da subito, ad una correlazione illusoria concernente la relazione tra
il bello ed il buono. Si sviluppa dunque, già in epoca ancestrale,
la differenza tra essere
malato, avere una malattia ed essere riconosciuto da un gruppo come
malato ossia
una dimensione dell'essere estremamente complessa, di natura
integrata tra aspetti biologici, psicologici e sociali, che, grazie
all'attuale modello di lettura scientifica del paradigma
bio-psico-sociale, riusciamo a comprendere, probabilmente, nella sua
globalità. Gli studiosi appartenenti al mondo anglosassone, per
distinguere le tre dimensioni dell'essere malato, hanno analizzato
tre termini della loro lingua che esprimono i diversi approcci al
problema: illness,
ossia l'esperienza, il vissuto del malato, desease,
relativo agli aspetti biologici e fisiologici della malattia e
sickness,
termine dai connotati fortemente sociali quindi come la malattia
venga percepita dal gruppo di appartenenza. Questa interessante
analisi apre, allo studio, un insieme di prospettive e di chiavi di
lettura anche in relazione alla dicotomia, sempre presente nella
cultura occidentale inerente salute e malattia, cultura occidentale
fondata apparentemente sul bisogno intrinseco dell'essere umano di
costruire relazioni duali contrastanti e confuse: bello-brutto,
buono-cattivo, mente-corpo, sano-malato e così via.
Già
a partire dai termini in uso di malattia,
dai risvolti meramente biologistici, oppure di malattie,
di più ampio respiro, la nostra cultura e le svariate comunità di
studiosi che hanno proposto riflessioni sul problema all'alba della
nascente civiltà occidentale ed in special modo nella civiltà
greca, si sono sempre chieste se corretta una possibile lettura
delle malattie come entità oppure come processi, come realtà
oggettive misurabili oppure come mere denominazioni di fenomeni
all'osservazione però non quantificabili e fluttuanti, dividendo le
prime teorizzazioni tra possibili letture dinamiche e nominalistiche
oppure ontologiche e realistiche.
All'interno
di una lettura ontologica ancestrale, la malattia viene riconosciuta
come prodotto di un oggetto materiale privo di anima e penetrato
nell'organismo, processo che verrà denominato dagli studiosi come
teoria corpuscolare o Fremdkorpertheorie,
oppure prodotto di una contaminazione causata da un essere materiale
vivente definito come parassita (teoria parassitaria) o da un essere
immateriale vero e proprio (teoria demoniaca).
In
questa primitiva ricerca inerente le cause principali di uno stato di
malessere possiamo ben notare una commistione tra eventi naturali ed
eventi sovrannaturali con una vera e propria correlazione tra agente
infettivo e personificazione del maligno, quasi una trasposizione sul
piano etico e morale del disagio e della sofferenza psico-fisica.
In
relazione a questa ancestrale lettura del patologico, costruita su
basi magico-religiose, è lecito pensare che, sul fronte della cura,
individui con caratteristiche particolari, disponibili cioè ad
aiutare le persone sofferenti e capaci di conquistarne la fiducia
dichiarandosi in grado di comunicare con un mondo invisibile,
soprannaturale, siano stati vantaggiosi per la sopravvivenza del
gruppo18.
Nelle
medicine arcaiche diventa fondamentale il perché
di uno stato di malattia, connesso quasi sempre a dimensioni
culturali magico-religiose come la vendetta di uno stregone o la
punizione da parte di divinità adirate legata alla trasgressione di
un tabù. Le malattie sono sempre presenti nelle narrazioni che
esprimono la causalità come colpa, che la diagnosi trascendentale di
uno stregone, di uno sciamano o di un sacerdote identifica quale
origine di una situazione disastrosa o di una catastrofe naturale19.
Il
concetto di causa
si
colloca quindi all'esordio stesso della pratica medica, come il
fattore determinante di ogni direzione dell'agire20.
Con
l'evolversi dei gruppi umani , nel passaggio tra la prassi della
caccia e della raccolta e l'instaurarsi di una più adattiva
sedentarietà, alcuni fenomeni di ampio impatto evolutivo vennero
alla luce: una consistente crescita demografica, una rapida
urbanizzazione e una stratificazione gerarchica delle prime società
con individui liberi e proprietari di risorse ed individui resi
schiavi, poveri e privi di risorse. Nelle antiche civiltà che si
andarono formando tra il bacino del Mediterraneo e l'Asia Minore,
questi fenomeni portarono allo sviluppo di conflitti tra gruppi, di
carestie, di invasioni, di deforestazioni, di incessante fabbisogno
di risorse e di evoluzione di nuove malattie carenziali e di epidemie
che produrranno una crescita esponenziale di stati patologici dovuti
ad agenti infettivi, malattie che colpiranno il genere umano per
tutti i secoli della sua storia, fino ad oggi.
Tra
le più antiche civiltà umane, formatesi a cavallo tra preistoria e
storia, troviamo quelle mesopotamiche, sviluppatesi nei territori tra
i fiumi Tigri ed Eufrate per almeno quattromila anni. Queste civiltà
hanno probabilmente introdotto, in relazione al concetto di malattia,
letto ancora in chiave religiosa e mitopoietica, un primo ed arcaico
sistema nosologico, basato sull'associazione tra configurazioni di
sintomi localizzati a livello di diversi organi ed i nomi degli dei
responsabili di provocarli, ed una modalità di pronosticare
l'evoluzione della malattia presagendo la sorte del paziente sulla
base di segni divinatori ma anche dell'esperienza21.
A
dimostrazione del livello evolutivo raggiunto da queste civiltà,
possiamo trovare i più antichi testi medici e le prime farmacopee
risalenti alle dinastie di Ur (ca. 2563-2387 a.C) e Lagash (ca. 2494
– 2342 a.C.).
Un'altra
grande civiltà, sorta sulle sponde del fiume Nilo, che pervenne a
concezioni molto sofisticate di malattia e salute, è sicuramente
quella egizia. In modo consistente, fin dai primordi, in questa
civiltà, si sviluppò l'idea di una vita dopo la morte, idea
concepita intorno al concetto di rinascita e ciclicità
dell'esistenza e di un ordine sociale incentrato sulla figura del
regnante, il faraone. Tuttavia, diversamente dai babilonesi che
accettavano le sofferenze come meritate punizioni divine dei peccati,
gli egizi non consideravano la malattia come castigo conseguente ad
una trasgressione22,
elaborando la condizione patologica come estremamente intrinseca ad
una condizione esistenziale di natura ciclica, proponendo un pensiero
che diverrà comune a molte culture orientali e a molte frange
settarie di orientamento mistico, rimaste spesso ai margini nella
cultura occidentale, pensiero
ricco di concetti esoterici come la reincarnazione o metempsicosi, la
trasmigrazione delle anime, la purificazione rituale da ottenersi
attraverso prassi iniziatiche.
Nell'elaborazione
culturale della civiltà egizia la malattia non trova quindi origine
in un dramma personale, quanto in un dramma cosmico. La patologia si
introduceva dall'esterno come un agente, animato o inanimato, spesso
una sorta di verme parassita che si insidiava nella carne e nelle
ossa23.
Diverse
ricerche contemporanee, hanno dimostrato che nel mondo egizio, la
figura del medico-guaritore, concernente la prassi sciamanica, era
socialmente riconosciuta e faceva leva su notevoli competenze
tecniche, bilanciate da conoscenze tradizionali e da prassi rituali
fortemente emozionali.
Anche
le conoscenze anatomiche possono dirsi sviluppate presso gli antichi
egizi, prova ne sia la originale e complessa prassi della
mummificazione dei cadaveri, conoscenze che però avevano alla base
ipotesi fondanti sostanzialmente diverse da quelle di altre culture
in merito alla funzionalità dei vari organi.
Ulteriore
ed interessante civiltà, nata e sviluppatasi nell'area geografica a
cavallo tra il Mediterraneo e l'Asia minore, è la civiltà ebraica.
Raro e forse unico esempio, di arcaica cultura monoteistica presente
tra le antiche civiltà, il mondo ebraico, ha una visione della
malattia fortemente influenzata dalla credenza religiosa prevalente e
dal corpus dottrinario composto dalle sacre sacritture, testimonianza
incredibile della storia e dei costumi del popolo
eletto.
Per la cultura ebraica, ogni uomo nasce con il peccato originale,
diventa così inutile cercare la causa di un possibile stato
patologico e sarà proprio la devozione al Dio venerato, sostenuta da
stati d'animo predisposti al sacrificio e alla espiazione, a
consentire o meno il superamento della malattia-prova imposta da
Jahvè. Il ricorso al sapere umano, anche ad un sapere terapeutico,
per gli ebrei, era probabilmente visto come una mancanza di fede
verso il Dio unico ed un tentativo sacrilego di modificare quanto
deciso dall'onnipotenza del nume. Tuttavia, nei testi sacri ebraici,
si possono trovare, anche a fronte di carenza di conoscenze
anatomo-fisiologiche specifiche, interessantissime informazioni di
interesse clinico-patologico e prescrizioni interpretabili come vere
e proprie regole igienico-preventive, anticipazione di un'autentica
medicina preventiva24.
Nel
corso dello sviluppo delle culture antiche, come abbiamo potuto
vedere, pur con ampie differenziazioni concettuali e metodologiche,
sostanziale rimane intatta l'eredità ancestrale inerente la
concezione magico-religiosa delle medicine arcaiche.
Sarà
così anche per la civiltà greca dei primordi, civiltà che, più di
ogni altra, influenzerà direttamente ed indirettamente ed in ogni
suo aspetto, la cultura occidentale per come oggi la conosciamo.
Numerosi storici delle religioni hanno riconosciuto, però, quale
novità fondamentale delle religioni ariane rispetto, ad esempio,
alle culture semitiche il fatto che mentre queste ultime vedevano nei
fenomeni naturali l'espressione di forze divine, la religione dei
greci (ma anche l'induismo) antropomorfizzavano nelle divinità le
forze della natura, dando alle rispettive divinità una forte
impronta naturalistica25.
Ulteriore
prova della visione complessivamente magica ed estremamente connessa
ai bisogni religiosi dell'uomo la possiamo trovare in molte
letterature antiche, giunte a noi grazie allo sviluppo della
scrittura e, per quanto concerne la civiltà greca dei primordi,
nell'opera omerica dove appare chiaro come la malattia sia letta in
qualità di deperimento cronico dovuto a potenze misteriose prive di
elementi mortali propri dell'umanità.
Per
Omero
diventa significativa la descrizione di malattia come stato
complessivo di infermità misteriosa, come trauma, come morte
improvvisa, come confusione mentale ed intossicazione, stati
patologici dovuti a punizione divina.
Mettendo
a confronto, però, le prime produzioni narrative della civiltà
greca ed in special modo l'epopea omerica con autori di poco
successivi, si possono notare già delle discrepanze tra una
primitiva ipotesi eziopatogenetica di natura magico-religiosa, come
nell'elaborazione omerica, ed un'idea più laica e di forte
connotazione naturalistica come quelle proposta nel mito dell'età
dell'oro di Esiodo
(VIII secolo a.C.- VII secolo a.C.) che,
descrivendo le vicende del famoso vaso di Pandora, manifesta un
pensiero meno connesso con il divino in relazione alle malattie.
Contrariamente ad Omero che legge
la malattia
come stato d'essere complessivo, uguale per ogni tipologia di
sofferenza, Esiodo propone il concetto di malattie,
tentando di scardinare la monoliticità di un aggregato patologico
sovrannaturale e presentando svariate cause per la sofferenza umana,
cause legate ad una visione naturalistica. Nella lettura fatta da
Esiodo si costruisce un primo ed arcaico tentativo di nosologia
scardinata dal pensiero magico dove le malattie potranno essere viste
come parte della natura alla stregua dell'essere umano.
Con
lo sviluppo della civiltà greca e della sua raffinatissima cultura
filosofica, intorno al VI° secolo e al V° secolo a. c. , pensatori
e studiosi di arte medica, si fecero interpreti di una visione
dinamica della malattia che si metteva in contrapposizione alla
lettura ontologica delle origini.
Risale
ad un pensatore e studioso greco originario di Mileto, in Asia
Minore, Senofane di Colofone (ca 560-500 a.C.), il primo tentativo di
sganciare la prassi della conoscenza dagli aspetti religiosi e
dall'influenza magica di re e sacerdoti, quasi un tentativo di
ribellione da gerarchie sociali precostituite legate a monarchie
autoritarie.
Non
è la rivelazione magica e misteriosa la fonte della conoscenza per
Senofane che propone invece una ricerca faticosa intorno alla natura
delle cose e getta le basi per un'indagine sulla realtà che utilizzi
gli strumenti propri della logica e del ragionamento, confrontandoli
con l'esperienza acquisita26.
Ulteriori
idee utili ad una concettualizzazione naturalistica della malattia e
della salute, nell'ambito delle culture occidentali, sono state
sviluppate all'interno della scuola pitagorica, la cui insistenza
sull'armonia e sulla quantificazione come presupposti conoscitivi
influenzerà la scuola ippocratica27.
Risulta
essere anche di Alcmeone
di Crotone (ca. V secolo a.C.)
una delle prime definizioni di malattia naturale ritrovata dagli
studiosi del campo. Intorno al 500 a. C., il medico e filosofo che
operava nella Magna
Grecia, tentò di elaborare una posizione scientifica lontana da
aspetti magici e religiosi, una posizione teorica, dal forte impianto
naturalistico, che contemplava la salute come equilibrio, o isonomia,
di qualità inerenti a umido, secco, caldo, amaro e dolce e la
malattia come il predominio, o monarchia, di una di queste qualità.
In epoca di poco successiva, con
l'evolversi di conoscenze, teorie ed ipotesi inerenti salute e
malattia e grazie al fecondo contributo delle prime figure di
filosofi e pensatori ellenici, si ampliò la prassi legata alla
costituzione di scuole dove possibile una formazione, uno scambio di
saperi tra maestri e discepoli, una condivisione di prassi e di
metodi che riuscirono ad arricchire, anche per la medicina, un sapere
dai forti connotati empirici in grado di consentire approfonditi
studi sul campo in relazione anche alla possibile riproducibilità
della diagnosi e della cura. Colui che viene considerato il padre
della medicina occidentale, Ippocrate di Kos (ca 460-370 a.C), pose
le basi per la costruzione di una feconda scuola medica e predicò il
rifiuto dell'esercizio della medicina come pratica magica, mettendo
per sempre al centro dell'attività del medico un uomo che utilizza
la ragione e l'esperienza per comprendere la malattia28.
I discepoli di Ippocrate,
concepiranno, secondo i dettami del maestro, la malattia come
sofferenza del corpo, pur con l'idea della certezza della capacità
di auto-guarigione dell'organismo secondo il principio della vis
medicatrix naturae,
concezione di malattia causata dalla mescolanza e dal disequilibrio
degli umori fondamentali e dalla perdita della simmetria tra caldo e
secco e freddo ed umido. La malattia sarà causata da
discrasia,
ossia perdita della giusta proporzione mentre la salute sarà frutto
di eucrasia,
quindi di equilibrio e simmetria. La patologia umorale classica, che
presuppone questa eziologia inerente equilibrio/disequilibrio,
rimarrà legata in modo consistente al pensiero medico di Ippocrate
per il quale il corpo dell'uomo contiene sangue, flegma, bile gialla
e bile nera o atrabile e, secondo la scuola ippocratica, il passaggio
da salute a malattia non avviene in modo brusco ma attraverso
innumerevoli stadi intermedi.
Grande
risulta il contributo del pensiero ippocratico in relazione alla
concezione di malattia, che veniva letta, probabilmente per la prima
volta, non come evento primario, ma come perturbazione di una
condizione naturale, cioè la salute29.
Tuttavia, ampie discussioni
critiche nella comunità di studiosi, hanno innescato l'assenza, nel
metodo ippocratico, di veri e propri criteri anatomici, assenza
percepibile nell'impossibilità inerente una localizzazione precisa
di fenomeni patologici data da un riferimento costante a parti
fluide.
Sarà in epoca ellenistica, e
precisamente presso le scuole di Antiochia e di Alessandria, che
ampie ricerche anatomiche condotte sul campo, porteranno a chiavi di
lettura del patologico molto approfondite e dettagliate, producendo
una contrapposizione tra idea di malattia legata alla discrasia
degli umori ed idea di malattia come lesione di parti solide.
Figure
di medici come Erofilo (ca. 335-280 a.C.), Erasistrato di Ceo (ca.
310-250 a.C.) e Prossagora di Coo (fine IV secolo a.C.), appartenenti
alla scuola conosciuta come dogmatica, affiancarono all'osservazione
del malato una ricerca intesa ad ampliare le conoscenze di base
attraverso osservazioni anatomiche (dissezioni) e studi fisiologici30
Alcuni
medici che si formeranno alla scuola alessandrina, ipotizzeranno,
portando all'estremo la contrapposizione con la medicina ippocratica,
in relazione alla patologia, un' eziopatogenesi di natura quasi
esclusivamente meccanica dalle forti componenti idrodinamiche, idea
che avrà il suo epigono in Asclepiade
di Bitinia (129 a.C.-140 a.C.), operante in Roma.
Ulteriori
contributi allo sviluppo e alla ricerca concernente i concetti di
salute e malattia, giunsero dalla tradizione della scuola empirica
(ca. III° secolo a.C.) e dagli studiosi che ad essa facevano
riferimento e dalla scuola conosciuta come metodica
che utilizzava un approccio essenziale e pragmatico alla malattia.
L'ultima
grande civiltà antica, la cui forte influenza sulla cultura
occidentale è unanimemente riconosciuta, che vogliamo presentare in
relazione a questa trattazione, è quella di Roma. La medicina romana
non ebbe mai un particolare interesse per le dispute ideologiche o
dogmatiche31.
Tra le primitive concezioni di
epoca romana legate alla patologia, troviamo l'idea che il miglior
modo per guarire fosse relativo ad un processo spontaneo di cura
obbedendo al proprio corpo, un pensiero naturalistico proposto anche
da uomini di cultura come Catone il vecchio (ca. 234-149 a.C.).
Una
delle principali fonti per conoscere il concetto di malattia e cura
nella civiltà romana, rimane il De
re medica
di Aulo Cornelio Celso (ca. 14 a.C. - 37 d.C.), che sostanzialmente
rimene legato alla concezione ippocratica, fornendo descrizioni
dettagliate di patologie acute e croniche.
Anche
a Roma, si svilupparono diverse scuole mediche, tra cui una scuola
metodica, dove si insegnava come la medicina fosse un sapere in
evoluzione. Per i metodici le malattie avevano una realtà ontologica
ed una sede elettiva da cui traevano origine e da cui prendevano il
nome32.
Il
più importante medico dell'antichità, insieme ad Ippocrate, verrà
riconosciuto in Galeno
(129 d.C - ca. 199 d.C.).
Nato a Pergamo e trasferitosi nella Roma imperiale, il suo pensiero,
la qualità e l'imponente produzione quasi enciclopedica relativa ai
suoi arditi studi di anatomia e di fisiologia rimarranno indiscussi
per quasi quattordici secoli. La sua fama divenne rapidamente
considerevole tanto da essere nominato medico personale
dell'imperatore Marco
Aurelio (121 d.C. - 180 d.C.) nel 161 d.C.
Influenzato
dal pensiero aristotelico, Galeno criticò in modo aspro la medicina
del suo tempo sostenendo come essa rischiava di perdere una visione
razionale del processo di conoscenza scientifica, perdita da
rintracciarsi soprattutto nell'abbandono del rigore metodologico ed
etico che avrebbero dovuto accompagnare sempre il medico nella
professione33.
Il
medico di Pergamo, pur conoscendo approfonditamente il metodo
ippocratico, però, rinunciò alla prudenza di Ippocrate e,
nonostante le spesso incerte conoscenze di anatomia, gli errori della
sua fisiologia e la scarsa efficacia delle sue prescrizioni
terapeutiche, concepì un'idea di malattia piuttosto moderna34.
Galeno, intendeva la patologia
come sintomo di una lesione ad un determinato organo, dando al suo
pensiero clinico una forte connotazione localizzazionista dalle
implicazioni fortemente meccanicistiche e teleologiche.
Architravi
di tutto il pensiero galenico sono, così, lo sviluppo del concetto
aristotelico di causa finale e l'idea che, nel corpo umano, ogni
organo rivesta una sua specifica funzione che trova una
giustificazione ontologica nel rapporto con l'insieme di tutto
l'organismo umano che risulta un'entità complessa capace di
autoregolarsi e finalizzata ad un mantenimento essenzialmente statico
del suo equilibrio, reso precario nella patologia35
Tuttavia, Galeno, non
abbandonerà mai del tutto la concezione classica ippocratica della
malattia anzi, sarà in grado di integrare, in una visione complessa,
la ricerca anatomo-patologica di natura solidista con la teoria
umorale e con influssi inerenti la teoria pneumatica, visione
d'insieme che giustificherà la meritata fama del medico imperiale
nel corso dei secoli.
2.2
LA MALATTIA NEL MEDIOEVO E NEL RINASCIMENTO
La civiltà romana, forte di uno
sviluppo politico e culturale di notissimo rilievo, ebbe una durata
secolare e un'espansione territoriale, con annessi influssi culturali
tali da impregnare in modo consistente tutta la storia della civiltà
occidentale fino ai nostri giorni, con pochissimi precedenti nella
storia antica.
Tuttavia, complici svariati
motivi di ordine economico, politico e sociale, l'influente potere
degli imperatori di Roma, cedette il passo ad equilibri e sviluppi di
natura sostanzialmente nuova, nel panorama della cultura occidentale,
dando, di fatto, inizio a quel periodo che verrà chiamato dagli
esperti, Evo di mezzo o Medioevo.
Negli ultimi secoli di vita
dell'impero romano, incessante divenne, come non mai, la tendenza,
quasi sempre presente nella storia di Roma, ad un'integrazione
culturale e politica tra popolo conquistatore e popoli conquistati,
fino a giungere, però, ad un momento di notevole crisi globale che
diventerà consistente e foriera di cambiamenti sostanziali. Nuove
popolazioni, definite barbare da coloro che volevano rimarcare una
diversità di usi e di costumi rispetto alla cultura greco-romana,
che da diverso tempo vivevano ai confini dell'impero, si spostarono
in massa e più volte entrarono in contatto con un mondo che stava
per tramontare, portando nuove istanze culturali e rivoluzionando gli
assetti complessivi del mondo antico. Un nuovo potere, di natura
religiosa, però, si era inserito nel contesto occidentale, prima
combattuto e poi accettato da Roma: il potere temporale e religioso
della Chiesa cattolica. E sarà in seno alle istituzioni
ecclesiastiche che, nei momenti più difficili della convivenza tra
cultura barbara e cultura romana, che si elaboreranno gli imput
culturali della nuova Europa e che si difenderanno, se non tutti,
almeno in parte, i contributi del mondo antico, facendo anche
un'opera di trascrizione e di diffusione del sapere che non aveva mai
avuto eguali. Importanti furono, in seno alla chiesa, i contributi
filosofici e gli apporti alla riflessione sulla scienza dati da quei
maestri pensatori riconosciuti come padri della chiesa che produssero
una importante riflessione anche sulla figura di Cristo come
portatore di salute perché fattosi carico dei peccati e delle
sofferenze dell'umanità; riflessione che si allontanava dal concetto
positivo di salute proprio della cultura greco-romana e ribadiva
l'idea che malattia e morte fossero strumenti positivi di salvezza.
Personaggi come S. Agostino
(354-430 d.C.), S. Isidoro di Siviglia (570-630 d.C.), medico e
vescovo e S. Ambrogio (339-397 d.C.), arricchirono di temi
interessantissimi inerenti le modalità della conoscenza e di
costruzioni dottrinarie complesse il sapere della nuova umanità
emersa dal mondo antico. Da un punto di vista medico, il concetto di
malattia del periodo, si basava sostanzialmente sui testi galenici e
prevaleva un'idea di salute come giusta integrità del corpo ed
equilibrata mescolanza della natura umana rispetto a caldo ed umido.
Sarà lo stesso Isidoro di Siviglia, dotto maestro dalle notevoli
competenze mediche, a propugnare concetti relativi all'idea di
malattia come stato di sofferenza del corpo causato dal potere della
morte. La medicina precedente quello che sarà lo sviluppo della
scuola salernitana nei secoli successivi, elaborerà dunque le
proprie dottrine all'interno di un ragionamento che produrrà una
commistione tra pensiero galenico, pensiero aristotelico e una prassi
dove rimarranno presenti compiutamente gli elementi magico-religiosi
della tradizione.
Per
diversi secoli dell'età medioevale convissero tre idee principali di
malattia, un concetto spirituale/miracolistico
per cui la malattia era mandata da Dio e i rimedi a cui ricorrere
erano preghiere, esorcismi e culto dei santi e delle reliquie; un
concetto medico/naturalistico
in cui la malattia è intesa come un fenomeno naturale da spiegarsi
sulla base della dottrina umorale; un concetto magico/superstizioso
per
cui la malattia era causata da un intervento demoniaco che solo
pratiche occulte ed esorcistiche potevano sconfiggere36.
La
dottrina cristiana si occupò di elaborare, in relazione allo stato
di malattia, concetti come infirmitas,
vero e proprio stato mancanza, debolezza e privazione, dalla forte
valenza sociale negativa, a cui fece seguito l'idea di caritas
come
assistenza morale e pragmatica agli infermi.
Tuttavia, ai margini dell'Europa
medioevale che si stava formando, un pensiero ed una pratica medica
andavano strutturandosi in una cultura, lontana dal mondo occidentale
ma che, nel corso dei secoli avrebbe influenzato, e si sarebbe fatta
influenzare, costantemente dalla cultura europea, la civiltà
arabo-islamica.
Vogliamo inserire in questo
momento di analisi relativo alla cultura occidentale anche il mondo
arabo-islamico, consapevoli del fatto che, pur essendo universi
fondati su basi culturali prevalentemente dissimili, da sempre forti
sono stati i contatti reciproci tra le due culture, con diversi
momenti, pacifici o meno, di integrazione e di tentativi di
conoscenza e comprensione reciproci e ben visti sono, a parere di chi
scrive, in questi odierni momenti di forte tensione politica e
sociale tra le parti, tutti i tentativi di approfondimento e di
studio comparato tra le due culture, volendo rimarcare però anche le
consistenti differenze culturali, partendo da quei principi etici e
morali non negoziabili, sviluppatisi a partire dall'Illuminismo
europeo in poi, che riguardano i diritti fondamentali della persona e
che da più parti nel mondo islamico ,oggi, ci sembrano venire
calpestati.
La
medicina araba comprende tre diverse realtà legate alla concezione
medica araba-beduina,
di tipo popolare praticata nella penisola arabica prima dello
sviluppo dell'Islam, alla medicina
del Profeta,
vicina a scritti e detti di Maometto e la medicina
araba
propriamente detta che fa riferimento alle teorie mediche presente
nei libri scritti in arabo e vicina alla tradizione
ippocratico-galenica37.
Fin dalle origini dell'Islam,
che dette un'ulteriore impronta religiosa alle chiavi di lettura
tradizionali della malattia nel mondo arabo, nel testo fondamentale
degli islamici, il Corano, consistenti furono le precauzioni ed i
dettami inerenti gli aspetti igienico-sanitari, correlate alla
credenza della malattia come prova cui Dio sottopone il proprio
popolo, idee ,queste, vicine anche al mondo religioso ebraico e
ulteriore prova, probabilmente, di uno stretto legame culturale alle
origini delle due civiltà.
La
civiltà arabo-islamica, più volte, venne a contatto con altre
culture del bacino del Mediterraneo e, se è vero che la medicina
araba non si distacca dalla teoria umorale di Galeno, i protocolli di
osservazione clinica furono però portati a elevati gradi di
perfezione38.
La
medicina araba fu essenzialmente una medicina di tipo pratico, con
connotazioni empiriche di singolare modernità, valga per tutte le
considerazioni l'introduzione della detersione chirurgica delle
ferite purulente che, in Occidente, non era di solito effettuata39.
Tra i più famosi medici arabi,
troviamo Ibn Zakariyyah ar-Razi, conosciuto come Razhes e Ibn Sina,
conosciuto come Avicenna (980-1037), dotto studioso di anatomia e
igiene e di farmacopea che propose importanti riflessioni, di matrice
platonica, su salute e malattia, quest'ultima, concepita come
espressione di influenza negativa del mondo materiale di natura
plurale ed antagonistica. Per Avicenna, l'anima, che aspira alla
riunificazione con il Creatore, è legata al corpo a causa dei
piaceri dei sensi e lo stato naturale degli uomini è quindi la
salute, relegando le malattie a momenti di passaggio.
Altra figura importante per le
scienze arabe, operante a Cordova, fu Ibn Rushd conosciuto come
Averroè ( 1126-1198), importante studioso di orientamento
aristotelico.
Nell'Europa
medioevale, dopo i secoli critici del crollo dell'impero romano e
delle invasioni barbariche, intorno all'anno mille, superata la paura
per l'avvento del nuovo millennio che aveva scosso gli animi
religiosi e popolari dell'Occidente, vi furono una ripresa economica
e politica e uno sviluppo sociale importante che fecero nascere nelle
comunità un ottimismo per i tempi nuovi. La medicina di questi primi
secoli del nuovo millennio, era relegata ancora principalmente, alla
sfera magico-religiosa, era una medicina prevalentemente tradizionale
popolare fatta di ricette e basata su di un empirismo non privo di
una relativa efficacia lungamente testata40.
Tuttavia, in importanti centri
monastici, gli studiosi, che pur provenivano dall'ambiente religioso,
si mostrarono interessati ad un approccio alla malattia e alla salute
di tipo razionale e scientifico.
La più importante scuola medica
del periodo fu quella di Salerno dove, nei primi secoli del secondo
millennio fiorirono i tentativi di ampliare le conoscenze mediche,
integrando la tradizione ippocratico-galenica con il pensiero medico
arabo ed ebraico. I medici di Salerno, contrariamente al pensiero
della tradizione cristiana, non accettavano passivamente la malattia,
e, tentando di curarla e prevenirla, elaborarono un corpus di
precetti igienico-sanitari che prendevano in considerazione
l'alimentazione, l'ambiente, i comportamenti salutari.
Alla
base delle dottrine della scuola di Salerno vi erano riflessioni e
studi sull'anatomia del corpo umano, sull'importanza dell'armonia
psicofisica e sul valore di una dieta corretta ed equilibrata:
principi che oggi sono ripresi dalla cosiddetta medicina
psicosomatica e dalla scienza dell'alimentazione41
Sulla
scia della fama raggiunta dalla scuola salernitana, altre città si
proposero, nella prima metà del XII° secolo, come centri
specialistici di produzione e diffusione del sapere medico e nacquero
così i primi corsi universitari di medicina a Parigi (1110) e a
Bologna (1158). Autorizzata dalla Chiesa, la prima dissezione
documentata di un cadavere umano venne effettuata pubblicamente a
Bologna, intorno al 1315 dal medico Mondino de' Liuzzi (ca.
1270-1326)42.
Due furono gli orientamenti
principali di medici e pensatori medioevali in relazione al concetto
di malattia. Da un lato il forte contributo del pensiero di Galeno
rimaneva ben impresso e andò ad influenzare, insieme ad un approccio
realista, l'idea di quei medici e studiosi che vedevano nella
patologia un epifenomeno la cui diatesi era da ricercarsi nella
meccanica fisiologica che sola veniva aggredita dalla malattia,
ponendo così le basi ad una prima dicotomia tra organismo e persona,
dall'altro lato, filosofi e uomini di Chiesa, decisero di procedere
nell'alveo di un pensiero religioso per cui la malattia era
fortemente correlata al peccato ed il malato doveva vivere la
sofferenza come dono di Dio.
Nell'ambito
dell'elaborazione dottrinaria in seno alla Chiesa, si sviluppò
quella corrente di pensiero che verrà conosciuta come scolastica.
Molti i nomi di filosofi, religiosi e studiosi che diedero ampi
contributi anche dal punto di vista della articolazione dei concetti
di salute e di malattia. Citiamo, per indirizzare i lettori
interessati ad ulteriori approfondimenti i contributi di Sigieri di
Brabante (1235-1282), Tommaso d'Aquino (1225-1274) e Arnaldo da
Villanova (1240-1311). Tuttavia, i contributi teorici complessivi
degli studiosi medioevali, pur fondamentali ed articolati su processi
di ragionamento rigorosi, nel corso del XIV° secolo saranno messi a
dura prova e quotidianamente confrontati con la prassi medica vera e
propria, dal flagello della Peste e dalla consunzione dovuta alle
carestie e alle guerre. Tratteremo in altro capitolo e nel dettaglio,
gli aspetti più concreti e rilevanti per la nostra discussione, in
relazione a patologie epidemiche e carenziali e sviluppo delle prassi
terapeutiche anche in epoca medioevale. Per ora ci basti sapere, per
avere un'idea dell'impatto della peste sull'Europa medioevale, che la
mortalità complessiva nella popolazione europea della seconda metà
del Trecento fu pari ad oltre un terzo del totale dei viventi e che
la medicina ufficiale, quella che si basava sull'armamentario
teorico-pratico di Ippocrate e di Galeno, si dimostrò totalmente
inadeguata ad affrontare il problema43.
Con il dilagare della morte nera, l'Atra
mors,
come veniva definita la Peste, con la crisi politico-sociale che
metteva a dura prova il sistema feudale, con guerre e carestie, per
l'Occidente, alle soglie del XV° secolo, si aprì il periodo
conosciuto come autunno del medioevo, un momento di forti
rivolgimenti culturali e politici, di consistenti tensioni tra
comunità e livelli gerarchici della società, di conflitti tra
arcaici mondi delle campagne rurali ed antiquate ed appariscenti
contesti cittadini, dove, grazie anche a individualità ed
imprenditorialità commerciali, più forte si faceva largo il
contrasto tra sistemi vecchi e nuovi. E sarà proprio in contesti di
borghi cittadini che si svilupperà ulteriormente e notevolmente, sul
finire del medioevo, una classe sociale di uomini liberi, industriosi
e creativi, che, pur non essendo aristocratici, daranno un peso
fondamentale a commerci e conoscenza: la borghesia. Sarà questa
classe sociale a operare per ampliare lo sviluppo di saperi e
pratiche in ogni settore dando un valore considerevole agli approcci
laici, non dogmatici, razionali e libertari e sarà da questa classe
sociale che usciranno i maggiori intelletti, donne e uomini di
scienza, di arte , di pensiero, di politica e di economia che, grazie
ai loro contributi, in epoche successive, daranno vita a quella che
sarà conosciuta come la Rivoluzione Scientifica del XVII° secolo,
anticipatrice di tutte le altre rivoluzioni culturali, economiche,
politiche e sociali che porteranno il mondo occidentale alla
modernità.
Con
la fine del medioevo, proprio grazie anche ai contributi del mondo
laico di estrazione borghese, nuove proposte culturali si
integreranno nel contesto europeo in una vera e propria rinascita
complessiva prodotta dalla rinnovata riflessione sul mondo antico.
All'aristotelismo dominante nel pensiero del medioevo, alla
verticalità dell'esperienza umana medioevale improntata alla
concezione dell'uomo come creatura sofferente e peccatrice che doveva
tendere costantemente al divino in una dimensione escatologica e
penitenziale, intervennero, come modelli culturali innovativi, il
neoplatonismo mutuato dal pensiero antico, la concezione dell'uomo
come struttura fondante dell'esistenza, il canone estetico del bello
come misura prima dell'etica e la forma classica come presupposto di
un'orizzontalità di interessi proiettati verso la vastità del
sapere e del mondo. Il nuovo e complesso momento culturale verrà
conosciuto come Umanesimo, a cui seguirà il Rinascimento, vera e
propria rinascita culturale, artistica, filosofica. Il pensiero
neoplatonico, nelle scienze, approdava così in Europa, grazie anche
alla migrazione degli studiosi greci e bizantini che abbandonavano
Costantinopoli, caduta nelle mani dei turchi nel 1453, invitando a
comprendere la realtà fisica con gli strumenti dell'astrazione
matematica ed incrinando il dogmatismo aristotelico della cultura
universitaria44.
Per quanto concerna l'idea di
malattia, il pensiero di Galeno è ancora dominante, integrato
tuttavia con i contributi della passata epoca medioevale e con le
nuove elaborazioni teoriche che prenderanno più vie. Molte le
domande, stimolate da nuove ed emergenti riflessioni intorno alla
patologia e da una prassi della dissezione sempre più consistente,
domande che cercheranno risposte inerenti la ormai assodata
diversificazione di approcci, tra elementi umorali ed elementi
organici, risposte legate alle funzioni delle strutture solide
nell'eziologia delle patologie e nelle manifestazioni cliniche. Molte
le discipline della conoscenza, oltre alla Medicina in senso stretto,
che si occuperanno di salute e di malattia. Tra le più antiche,
dobbiamo dare qui spazio anche all'Alchimia, che vede nell'
Umanesimo e nel Rinascimento i suoi secoli aurei, anche per i fecondi
contributi culturali che andranno a stimolare, grazie ad un approccio
investigativo sulla natura, quelle che saranno le ricerche della
scienza nuova che verrà.
L'Alchimia,
vero e proprio percorso teorico, pratico ed iniziatico alla
conoscenza, consentirà di fondare su un primitivo empirismo,
arricchito da un linguaggio esoterico altamente simbolico, una
rudimentale prassi sperimentale fondata sull'osservazione. L'artefice
alchemico si poneva in un rapporto con la natura basato sullo studio
dei fenomeni percepibili e sulla modifica degli eventi che li
provocavano45.
Anche il corpo umano risultava così destinatario della ricerca
alchemica, attraverso la sperimentazione di elementi che lo
rendessero incorruttibile e quindi ritardassero od allontanassero a
tempo indeterminato la morte46.
Sarà, nel Novecento, Carl Gustav Jung, ad approfondire con studi e
ricerche la notevole complessità del fenomeno alchemico, visto, in
ottica Junghiana anche come proiezione psicologica su elementi fisici
dei modelli archetipici dell'inconscio collettivo.
In ultima analisi, e a modesto
parere di chi scrive, l'Alchimia, pur conservando consistenti
elementi di natura magico-esoterica circondati da un alone di
misticismo, riuscirà ad intuire, con le proprie prassi e con le
proprie ricerche sperimentali, il percorso che, successivamente,
condurrà alle porte del metodo sperimentale e della scienza moderna.
Per questo, chi scrive, non sarebbe propenso a definire la pratica
alchemica come pseudoscienza ma, come un vero e proprio approccio
scientifico arcaico, un modello protoscientifico empirico e
profondamente incardinato nello sviluppo per paradigmi e rivoluzioni
della scienza occidentale.
Dal pensiero alchemico si
svilupperà, prevalentemente in nord Europa, quella tradizione medica
che verrà chiamata iatrochimica e lo studioso che più di tutti si
occuperà di trovare un'integrazione tra prassi medica classica,
consolidata, e sperimentazioni empiriche di tipo alchemico, sarà
Theoprastus Bombastus von Hohenheim, conosciuto ai più come
Paracelso (1493-1542).
Nell'ottica
di un superamento delle concezioni di stampo ippocratico-galenico,
per Paracelso le malattie sono entità dotate di struttura propria
che vivono in qualche modo da parassiti a spese dell'organismo
umano47.
Per
lo studioso svizzero, la teoria degli umori non era più sufficiente
per spiegare, nella sua complessità, l'emergere delle malattie, che
divenivano, ad un attenta analisi clinica, delle vere e proprie
specie differenziate la cui eziologia poteva ricadere nell'orbita di
influenze astrali o climatiche oppure essere correlata a veri e
propri avvelenamenti ambientali. Per Paracelso, diventava
fondamentale la reazione chimico-dinamica del corpo agli agenti
patologici, reazione che avveniva per simpatia
grazie
ad un profondo legame tra fisiologia umana e universo, tra corpo ed
astri, minerali o piante.
Tuttavia,
l'originalità della visione epistemologica e scientifica di
Paracelso, risiede principalmente nella sua intuizione della
scomposizione della materia in elementi curativi primari, di origine
chimica e minerale, destinati a creare una nuova farmacologia48.
Paracelso, grazie alla sua
grande abilità di medico, scienziato e divulgatore, grazie ai suo
viaggi e alla sua capacità di creare legami tra scuole ed accademie,
diede vita e corpo alla scuola iatrochimica le cui tesi saranno
riprese, in periodi successivi, da altri studiosi e ricercatori come
Jean Baptiste van Helmont (1579-1644), per il quale la malattia che
aggrediva il corpo dall'esterno o dall'interno, era una modalità
estremamente attiva e dinamica, Franciscus Sylvius (1614-1672) e
Thomas Willis (1621-1675).
La
grande eredità lasciata alla cultura occidentale dalla scuola
iatrochimica è il concetto di malattia come fenomeno dovuto ad un
parassita e l'idea che un principio chimico/spirituale e la
fermentazione fossero alla base delle funzioni vitali normali e
patologiche, caratteristici della iatrochimica, in qualche modo
prefigurarono le tesi biopatologiche della microbiologia e della
biochimica moderne49.
Con lo sviluppo di innovative
correnti teoriche e di prassi mediche sempre più complesse ed
articolate, il Rinascimento vide un incremento considerevole di
ricerche e dibattiti intorno al concetto di malattia e allo studio
dell'eziopatogenesi delle principali patologie che colpivano il
genere umano.
Fondamentale diventerà così il
dibattito nelle comunità scientifiche, intorno alla natura
dell'innescarsi della malattia e medici come Girolamo Fracastoro
(1478-1553) insistettero molto sull'idea che le malattie fossero
prodotte, in larga parte, da agenti esterni. Sarà proprio
Fracastoro a teorizzare l'esistenza di piccoli germi capaci di
moltiplicarsi nel corpo dell'ospite, germi che si sarebbero diffusi,
da un portatore ad un contagiato attraverso oggetti sporchi, per
contatto diretto o attraverso la respirazione.
Una tradizione
medico-scientifica, nata e sviluppatasi quasi contemporaneamente
all'approccio iatrochimico, conosciuta come iatrofisica, verrà
trattata nel prossimo paragrafo, dedicato alla Rivoluzione
scientifica. Tale tradizione, a parere di chi scrive, rappresenta un
sentiero che, pur sviluppatosi a partire dalle riflessioni del tardo
rinascimento, si può ben percorrere grazie agli strumenti
epistemologici di natura meccanicista che vennero pensati ed
ipotizzati nell'ottica del rinnovamento scientifico che aprirà le
porte alle concezioni di ricerca e sperimentali moderne e chiuderà
il grande capitolo della scienza rinascimentale. A conclusione di
questa ampia panoramica sulla ricerca medica e sul concetto di
malattia di Medioevo e Rinascimento, non possiamo non notare come la
patologia e la terapia, dopo un iniziale appannaggio della sfera
religiosa, siano passate, grazie allo sviluppo della concezione
dell'uomo come centro dell'universo, propria dell'Umanesimo, alla
quasi totale proprietà della ricerca empirica, laica, accademica e
scientifica. Il corpo dell'uomo del Rinascimento, non è più scisso
dall'anima e mortificato in funzione espiatoria e purificatrice, ma
diventa centro di interesse per lo sviluppo delle potenzialità
estetiche, etiche e fisiologiche insite nell'essere umano. Il corpo
rinascimentale, nei suoi aspetti fisici e spirituali diverrà bello,
in senso classico, prove ne siano gli ampi studi anatomici riportati
nelle opere dei grandissimi artisti e disegnatori del periodo. Mentre
nel Medioevo, la religiosità presente in modo sostanziale nella vita
delle comunità, vedrà una diffusione notevole del corpo dei santi
e dei suoi pezzi, venerati uno ad uno, idolatrati come reliquie
frammentarie quasi a voler sottolineare, attraverso un nichilismo
materialista, l'importanza esclusiva dello spirituale e del
metafisico, a partire dal Rinascimento, Il corpo fisico non sarà
più tabù e rappresenterà quell'unità, olistica, serena e
classicamente bella, da studiare ed ammirare.
Dopo la Rivoluzione scientifica
e gli sviluppi del pensiero cartesiano, pur scindendo nuovamente il
corpo dall'anima, il pensiero occidentale volgerà il proprio
sguardo, contrariamente al Medioevo, prevalentemente alla dimensione
scientifica, ben consapevole dell'importanza di sperimentazione,
osservazione e traduzione in termini teorici, nello studio del corpo
come oggetto. Questo approccio che verrà conosciuto come
meccanicismo, consentirà di approfondire moltissimi aspetti
funzionali e strutturali della fisiologia umana, e, così, si
raffineranno e si renderanno sempre più ottimali, gli strumenti ed i
traguardi della scienza medica nel suo complesso.
3.2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA E L'ETA' MODERNA
Nello sviluppo della cultura
occidentale, il '500, è considerato un secolo chiave per comprendere
come si sia evoluta la società europea e, nello specifico, come sia
stato possibile l'articolazione della Rivoluzione scientifica, che
tanto contribuirà all'emergere della scienza moderna. A cavallo tra
'400, '500 e '600, la civiltà occidentale conobbe, in svariati
campi, una serie di innovazioni tecnologiche e filosofiche e scoperte
scientifiche che mutarono radicalmente gli assetti culturali europei.
Grazie all'invenzione della stampa a caratteri mobili ad opera di
Johannes Gutemberg (1399 ca-1468), la divulgazione scientifica in
senso ampio e la comunicazione divennero fondamenta di un modo nuovo
di intendere la conoscenza ed i contatti umani. Forti furono gli
impulsi, politici, economici e sociali che spinsero le potenze
europee del periodo a finanziare grandi viaggi di navigazione e
scoperta che portarono ad un'espansione, senza precedenti nella
storia, della civiltà e della cultura occidentali, spesso correlata
ad invasioni non pacifiche e a sfruttamento indiscriminato delle
nuove terre scoperte. Il 12 ottobre del 1492, il navigatore genovese
Cristoforo Colombo (1451-1506) approdò su terre nuove che vennero
successivamente ribattezzate americhe.
Nel 1517, sulle porte della
cattedrale di Wittemberg, un teologo e monaco agostiniano, Martin
Lutero (1483-1546), espose le proprie tesi teologiche che attaccavano
duramente il potere temporale della Chiesa di Roma ed alcuni dogmi
fondamentali del pensiero religioso cattolico, dando così inizio ad
una considerevole rivoluzione teologica, politica e filosofica, la
Riforma Protestante che, grazie anche al contributo di innumerevoli
teologi e filosofi entusiasti quasi da subito del pensiero
protestante, come Giovanni Calvino (1509-1564), pur dividendo
l'Europa in due grandi assetti culturali di cui ancora oggi sentiamo
il peso specifico, portò alla ribalta temi di valenza enorme per
l'umanità, come la responsabilità individuale, l'immediatezza del
rapporto con il divino, e l'importanza dell'agire pubblico come
sviluppo etico, economico e politico, correlato ad istanze morali da
cui non prescindere. Anche la Scienza ebbe sviluppi, fino allora
impensabili grazie anche alle riflessioni epistemologiche di grandi
studiosi come Francis Bacon (1561-1626 ), uomo politico e pensatore
d'eccezione che, fornito di un sottile pragmatismo tipico della
cultura anglosassone, rivoluzionò il mondo della ricerca scientifica
ed il modo stesso di intendere ed utilizzare la scienza, criticando e
demolendo il monumento della logica aristotelica, quell'antico e
scricchiolante edificio con cui ogni intellettuale del tempo doveva
ancora confrontarsi50.
Per Bacon diviene fondamentale produrre una prassi scientifica di
natura fortemente empirica, capace di organizzare i molti dati
sensibili raccolti e di pervenire, attraverso l'induzione, ad un
ampliamento della conoscenza. Altro grande scienziato e filosofo, il
cui nome sarà legato in prima persona a quella che verrà conosciuta
come Rivoluzione scientifica, è Galileo Galilei (1564-1642), che
partendo da una consistente base empirica, cercherà in tutti i modi
di coniugare l'osservazione, la sperimentazione e la misurazione dei
dati creando l'approccio sperimentale che lo scienziato definirà
metodo.
Galileo, interessato a problemi astronomici, comprese, inoltre, come
l'ipotesi copernicana di un sole al centro del Creato,con la Terra e
tutti gli altri corpi celesti ad orbitare intorno a questa stella,
fosse il modello cosmologico più attendibile51.
Questa ipotesi, insieme alla proposta del metodo sperimentale, andò
a rivoluzionare, in svariati settori, il pensiero e la cultura
occidentale fino allora dominante, capovolgendo la concezione di uomo
come centro della conoscenza e spostando l'attenzione sulla natura e
sui fenomeni fisici connessi. Il metodo sperimentale di Galileo,
composto da ipotesi, osservazione, verifica, misurazione e
teorizzazione, diventerà ,così, paradigmatico per la comunità
scientifica e forte sarà sempre più l'esigenza di raccogliere dati,
operazionalizzarli e sistematizzare le ipotesi in teorie.
Un altro grande scienziato e
pensatore, la cui opera sarà fondamentale per lo sviluppo del
pensiero scientifico moderno, fu René Descartes, meglio conosciuto
come Cartesio (1596-1650), teorizzatore del metodo scientifico
moderno. Secondo Cartesio, per comporendere ed impadronisrsi di una
conoscenza veritiera, occorre dotarsi di un Metodo, cioè di un
procedimento efficace e coerente con cui raggiungere la certezza
della propria meta conoscitiva. Vero ed evidente è ciò che si
presenta chiaramente alla percezione umana, evidente è quindi ciò
che può essere compreso secondo le leggi della matematica52.
Nodi fondamentali del Metodo saranno l'evidenza, l'analisi, la
sintesi e l'enumerazione completa dei problemi. Secondo Cartesio, per
giungere ad una prassi scientifica corretta, il processo doveva
essere sostenuto dal dubbio metodico, una visione fortemente critica
ed analitica di ipotesi e teorie. Il pensiero di Cartesio influenzerà
in modo consistente la scienza medica il cui sviluppo sarà possibile
grazie alla concezione del filosofo francese legata alla separazione
complessiva dell'idea di corpo dall'idea di anima che sarà
conosciuta come dualismo cartesiano. Questa visione dualistica,
consentirà di concepire il corpo come una macchina da poter studiare
fino nei più intimi dettagli, dando un forte impulso agli studi e
alle ricerca nel campo medico, come mai accaduto prima di allora.
A partire dal 1500, grazie al
forte sviluppo dell'interesse per le scienze fisiche, prenderà
campo, in ottica medica, l'orientamento che verrà conosciuto come
iatromeccanica
che influenzerà la comunità scientifica, parallelamente
all'approccio iatrochimico. Con la rivoluzione metodologica
galileiana, che puntava alla matematizzazione dei fenomeni naturali e
all'uso di modelli meccanici, consistente fu la creazione di
situazioni sperimentali e questo rese possibile dimostrare, per
esempio, la circolazione del sangue. Gli esperimenti di William
Harvey (1578-1657) confutavano la dottrina galenica, dimostrando che
la quantità di sangue che passa attraverso l'aorta in un giorno è
tale che non può essere prodotta dal fegato a partire dagli
alimenti53.
Harvey, forte anche di un'eredità di studio inerente l'anatomia che,
dopo l'avvento di Andrea Vesalio e dei grandi anatomisti delle
università di Padova e di Bologna, era ormai scienza sperimentale
raffinata54,
nella sua prassi sperimentale, utilizzò un approccio matematico che
fino ad allora non veniva preso in considerazione. Tale approccio
stimolò la misurazione sistematica dei fenomeni anche in medicina e
l'affinamento delle prassi sperimentali. Lo sperimentalismo e la
diffusione del microscopio determinarono l'abbandono della filosofia
aristotelica, in favore di una concezione meccanicistica, e all'idea
di una finalità funzionale delle attività vitali si sostituirono le
forme ed i movimenti di particelle materiali, ovvero le forze che si
esercitano tra esse. La nuova concezione meccanicistica puntava in
pratica a spiegare i fenomeni vitali sulla base degli stessi principi
del mondo fisico inanimato55.
Importanti medici e scienziati come Alfonso Borelli (1608-1679) e
Giorgio Baglivi (1668-1706) proposero ipotesi e sperimentazioni
indirizzate ad un approfondimento in senso meccanicistico
dell'osservazione dei fenomeni naturali. Baglivi era fermamente
convinto che le malattie derivavano dall'azione dei solidi,
nome con cui definiva le strutture solide dell'organismo, in
particolare da difetti di funzionamento delle fibre elementari di cui
sono composti56.
La prassi sperimentale ed il
metodo scientifico, dopo i primi enormi contributi epistemologici di
uomini di scienza come Galilei e Cartesio, andò affinandosi sempre
più in direzione di un empirismo, a tratti radicale, grazie ai
contributi di studiosi, scienziati e filosofi come John Locke
(1632-1704), Isaac Newton (1642-1727) e David Hume (1711-1776), che
inaugureranno la spiccata passione dei filosofi e scienziati di
cultura anglosassone per il dibattito epistemologico e per la
dfottrina della scienza.
Con l'avvento della Rivoluzione
scientifica e l'innovazione metodologica data da prassi osservativa e
sperimentale di natura empirica, anche il dibattito sull'eziologia
delle patologie, tra infezione e contagio, che già precedentemente
aveva preso campo, ottenne un notevole impulso, grazie alle ipotesi e
alla sperimentazione di diversi scienziati che, abbandonando in parte
le vecchie teorie umoraliste di matrice ippocratico-galenica,
ottennero fecondi risultati dal punto di vista clinico ed
epistemologico. Un medico come Thomas Sydenham (1624-1689), pur
impostando un neoippocraticismo di fondo alle basi della propria
dottrina, propose il concetto di “costituzione epidemica” dando
ampio risalto, in un'ottica di contagio, alle cause esterne di natura
patogena. Il dibattito acceso intorno all'eziologia delle patologie,
tra sostenitori del contagio e quelli dell'infezione, si protrarrà
per diversi secoli e molti saranno i medici, ricchi sempre più di
conoscenze e competenze fisiologiche e fisiopatologiche, che si
opporranno alle dottrine che facevano del contagio la causa primaria
di malattia. Francois Magendie (1783-1855), padre della medicina
sperimentale francese, fu acerrimo nemico dell'ipotesi relativa al
contagio, insieme ad un altro medico francese, Francois Brussens
(1772-1838), propenso a delineare nell'infiammazione la causa
onnicomprensiva delle malattie. La teoria del contagio, però,
superati gli scogli che la legavano ad una vetusta impostazione
ippocratico-galenica, trovò nuova linfa nell'ipotesi
dell'aggressione da parte di microrganismi elaborata dallo scienziato
Pierre Bretonneau (1778-1862).
A partire dai contributi
fondamentali di scienziati, medici e filosofi che avevano proposto e
prodotto la Rivoluzione scientifica, anche grazie alle influenze
culturali, scientifiche e sperimentali che avevano fatto da premessa
al grande rivolgimento metodologico ed epistemologico del XVII°
Secolo, la scienza dell'Europa moderna, acquisì, nei secoli
successivi, maggiore ampiezza di orizzonti e strumenti sempre più
raffinati, elementi che consentirono, da un punto di vista
pragmatico, la cura e la cancellazione di patologie, le più
svariate, che, nel corso della storia, avevano colpito e cancellato
dalla faccia della Terra, milioni di esseri umani.
Il
XVIII° secolo, il secolo in cui si produssero, nell'ambito della
cultura occidentale ulteriori rivoluzioni culturali e sociali,
dall'articolazione della metodologia critica e dell'etica
dell'Illuminismo, alle rivoluzioni politiche ed economiche della fine
del Settecento, vide un considerevole affinamento delle teorie e
delle pratiche mediche. I tre sistemi medici comunemente ritenuti più
emblematici dello spirito del secolo, furono quelli di Stahl,
Hoffmann e di Boerhaave. Tutti e tre questi medici-filosofi
concepirono una teoria dell'organismo, sano e malato, ovvero una
fisiologia ed una patologia, da cui ricavarono indicazioni
terapeutiche57.
Georg
Ernst Stahl (1660-1734), intendeva la scienza medica lontana dalla
fisica e più interessata ai fenomeni vitali guidati dall'anima. Il
corpo, per Stahl, è formato da fibre solide e fluidi, ma l'origine
dei movimenti e delle funzioni risiede nell'anima immateriale58
e la causa principale della malattia risiederebbe nella
disregolazione del controllo dell'anima sui processi vitali. Al
contrario di Stahl, Friederich Hofmann (1660-1742) concepì la
medicina nell'ottica del sistema meccanicista e il medico come uno
scienziato con solide competenze nell'ambito delle scienze esatte. Le
malattie, per Hofmann, deriverebbero da disturbi dei movimenti,
aumentati o diminuiti, o da modificazioni delle quantità e qualità
degli umori, i trattamenti dovrebbero mirare a diminuire il tono o ad
aumentarlo, a evacuare gli umori o a modificare la crasi59.
Anche Hermann Boerhaave
(1668-1738), terzo grande medico e scienziato del periodo, rimase
ancorato ad una spiegazione meccanicista della fisiopatologia,
concependo il corpo umano come macchina fisica sottostante alle leggi
della materia, alle forze ed all'idraulica, articolando una teoria
corpuscolare della materia che prevedeva la salute come equilibrio
dei fluidi corporei e la malattia come disequilibrio complessivo
degli aspetti idraulici dell'organismo.
Boerhaave
pensava che per ogni malattia fosse possibile identificare segni
distintivi che non si trovano mai in altre e perciò detti
“patognomonici” e che il modo corretto di procedere consisteva
nell'esaminare il malato, valutare la malattia e quindi elaborare una
teoria60.
Dalla seconda metà del Seicento
in poi, divenne considerevole la proposta teorica ed applicativa
inerente le varie forme di tassonomie nosologiche, che consentivano
di raggruppare segni e sintomi in base alle diverse patologie
riscontrate e di procedere ad una descrizione che si voleva il più
scientifica ed oggettiva possibile, descrizione che avrebbe
consentito una maggiore conoscenza ed una maggiore generalizzazione
in funzione della cura.
Anche
il metodo anatomo-clinico, con le sue iniziali propensioni
localizzazionistiche, ebbe forti impulsi in questo periodo. Medici
come l'italiano Giovanni Battista Morgagni (1682-1771), descrissero
in modo sistematico le alterazioni prodotte sui corpi dalle malattie,
dimostrando che le patologie sono localizzate in organi specifici,
che i sintomi seguono le lesioni anatomiche e che questi cambiamenti
morbosi dell'organismo sono responsabili della malattia61.
Morgagni riuscì a sganciare la
concezione medica di malattia allora predominante, legata a teorie ed
ipotesi di natura prevalentemente metafisica ed ontologica, e a
correlarla ad una più concreta dimensione di osservazione clinica ed
anatomica dai forti risvolti somatici e fisiologici.
Medici come Gaspard-Laurant
Bayle (1774-1816), René-Theophile-Hyacinthe Laennec (1781-1826) e
Jean-Nicolas Corvisart (1755-1821), successivamente vollero
approfondire il metodo anatomo-clinico, collegando la concezione di
patologia all'osservazione dei tessuti e degli organi colpiti,
localizzando gli attacchi delle malattie che divennero così forme
cliniche ben descritte e strutturate.
Grazie
al contributo puntuale e mirato dei medici legati al metodo
anatomo-clinico, furono inventati apparecchi per esplorare le cavità
del corpo, accessibili attraverso canali anatomici naturali come il
retto, lo stomaco e la vescica urinaria e innovativa divenne
l'introduzione del microscopio nella diagnostica62.
Il XIX° secolo ed il XX°
secolo, si apriranno così ad una forte carica innovativa,
sperimentale e clinica, nata e sviluppatasi grazie ai contribuiti
scientifici ed alle proposte teoriche andate articolandosi nei secoli
della Rivoluzione scientifica. L'epoca della nostra contemporaneità,
non potrà più esimersi, così, dal pensare alle patologie come a
processi di modificazione, locale o complessiva, di un organismo che
verrà conosciuto sempre più nel dettaglio grazie ai contributi di
analisi ed osservazione clinica e diagnostica, portando, in
determinati momenti, anche all'estremo, le concezioni deterministiche
e meccanicistiche, sostenute da uno scientismo di matrice
positivista, che, in diversi casi, ha consentito il progresso
scientifico necessario per avanzare nella conoscenza e nella cura, in
altri casi, ha corso il rischio di sostituire epistemologicamente la
religione classica alla religione della venerazione incondizionata
della scienza.
4.2 LA MALATTIA NELLA CONTEMPORANEITA'
Durante
il 1700, forti furono le impostazioni culturali e, più nello
specifico, epistemologiche legate ai concetti di razionalismo
illuministico e di determinismo empirista. Queste concezioni
influirono anche sul progresso della dimensione scientifica,
contribuendo ad una prassi categorizzante della scienza, vicina ad
una classificazione perentoria dei fenomeni osservabili atta a
consentire, dal punto di vista sperimentale, saperi e pratiche il più
rigorose ed oggettive possibili. Con le battaglie complessive di
laicizzazione delle coscienze, anche gli ultimi residui
dell'influenza del pensiero religioso sulle pratiche mediche,
abbandonarono il campo. Tuttavia, probabilmente come reazione ad un
pensiero epistemologico dominante e a senso unico, con l'avvento
della nascente sensibilità romantica del primo ottocento, si impose,
nelle scienze, un pensiero principalmente legato alla dimensione
olistica e naturalistica dell'esistenza umana, conosciuto come
vitalismo, forte di contributi scientifici e di ricerca che volevano
riportare l'uomo all'interno della natura, dopo tanto, forse troppo,
meccanicismo deterministico, che, al suo apice, aveva previsto una
lettura complessiva dell'organismo vicina all'idea di macchina, di
meccanismo, di struttura alienata dalla natura. Gli scienziati vicini
al vitalismo, intendevano reinserire i processi organici nel flusso
dei processi vitali e naturali, leggendo, in chiave romantica, la
natura come elemento pervasivo del cosmo. Questa parentesi sarà di
breve durata poiché nel corso del XIX° secolo, si imporranno nel
mondo occidentale, nuovamente correnti di pensiero che sposteranno
l'attenzione culturale e scientifica verso chiavi di lettura
scientiste e positivistiche, che consentiranno, anche grazie ai
progressi tecnologici delle rivoluzioni industriali, una analisi
dettagliata dei processi fisiologici e patologici fin nelle
dimensioni microbiologiche e biochimiche. Queste concezioni,
fortemente riduzionistiche, se da un lato favoriranno il
raggiungimento di importanti traguardi in campo medico e scientifico,
dall'altro saranno scalzate, in special modo nelle scienze umane,
dall'esigenza, soprattutto a partire dalla fine Ottocento e nel
Novecento, di rivedere l'uomo come sistema complesso e non riducibile
alla sola somma dei singoli elementi che lo compongono, ma totalità
in continua evoluzione ed interazione con il proprio interno ed il
proprio esterno, totalità complessa che, a livello psicologico,
elabora continuamente elementi consci ed inconsci, consapevoli ed
automatici.
Con
questa notevole evoluzione scientifica, tra Ottocento e Novecento,
degli studi, delle ricerche, delle prassi cliniche e terapeutiche in
campo medico, molte malattie debilitanti e anche le numerose
patologie a carattere epidemico ed infettivo, saranno in parte
debellate. Basti pensare, a titolo di esempio, al cammino di ricerca
e di cura inerente una patologia altamente pervasiva e di
antichissima presenza come la Tubercolosi. Anche le prassi sanitarie
di igiene ambientale e di prevenzione delle malattie, avranno un
considerevole peso a partire dal XX° secolo.
Da
metà Ottocento in poi si affermeranno, dunque, i concetti
sperimentali della microbiologia medica e parallelamente, anche in
assenza di una approfondita consapevolezza diffusa del rapporto
causale diretto tra microrganismi ed epidemie/pandemie, comincerà a
ridursi l'impatto delle malattie infettive nei paesi sviluppati,
fenomeno, questo, che incrementerà l'aumento di malattie
cronico-degenerative, dovute a stili di vita inerenti l'aumento dei
livelli di benessere e dall'incremento di popolazione anziana63.
Il
metodo sperimentale, andato articolandosi fin dall'epoca della
Rivoluzione scientifica e divenendo il simbolo più forte del
processo di evoluzione delle prassi scientificamente fondate, nel
corso dell'Ottocento e nel Novecento, diverrà processo costituente
di ogni ricerca e di ogni studio preliminare alla teorizzazione e
alla prassi clinica. L'osservazione sperimentale costituirà così la
chiave di volta di percorsi scientifici volti a sostenere i costrutti
teorici che la comunità scientifica impiegherà per dare risposte
plausibili all'accadere dei fenomeni. L'epoca romantica, dopo una
prima, dubbiosa, presa di distanze dal metodo sperimentale avvenuta
nella medicina vitalistica, si appassionò nuovamente agli aspetti
della fisiologia, soprattutto in relazione ai contributi scientifici
del medico francese Francois Magendie (1783-1855). L'approccio
sperimentale nel campo della fisiologia, verrà sostenuto con
convinzione da altri medici dell'epoca come Claude Bernard
(1813-1878) e Carl Ludwig (1816-1895) che orienteranno la ricerca
nella direzione di un ferreo determinismo, causa-effetto, nella
lettura dei fenomeni. Insieme allo studio e alla ricerca in campo
fisiologico, intorno alla metà dell'Ottocento, diverranno importanti
anche gli esperimenti e le teorizzazioni in campo istologico ed
istopatologico. Bernard teorizzava un determinismo chimico-fisico
assoluto dei fenomeni vitali, normali e patologici e assumeva il
fatto che la fisiologia animale può essere considerata analoga a
quella dell'uomo64.
Forte dell'affermazione del concetto nominalistico in medicina, per
cui le malattie non sono entità, Bernard, così, impose una lettura
che voleva contrastare le ipotesi nosologiche, avvicinando le
patologie a dimensioni naturali coinvolgenti l'intero organismo.
Con
l'introduzione di una tecnologia di ricerca sempre più
specializzata, diversi scienziati e medici come Jacob Schleiden
(1804-1881) e Theodor Schwann (1810-1882) daranno inizio agli studi
sulle componenti microbiologiche degli organismi, sulle unità di
base di tutti i sistemi viventi che saranno conosciute come cellule.
In campo strettamente medico, Rudolf Virchow (1821-1902), lanciava il
programma della patologia cellulare con l'obiettivo di rifondare la
medicina sulla fisiopatologia cellulare e sul metodo sperimentale e
localizzando a livello cellulare la sede di tutte le malattie65.
Per Virchow, la patologia e la sua predisposizione erano ben
rappresentate da deviazioni del normale funzionamento della
fisiologia cellulare, nello specifico dalla reazione abnorme della
cellula e del suo interno a situazioni aggressive o anormali.
Con
il progredire delle ricerche e l'affinarsi di metodi e strumenti,
venne alla luce e si impose la batteriologia, che puntò sullo studio
e sulla clinica delle cause eziologiche precedenti il palesarsi della
patologia. A partire da Jacob Henle (1809-1885), preminente in
medicina, divenne la dimostrazione dell'eziologia microbica di
diverse malattie infettive e la possibilità di correlare, in alcuni
casi, sia descrittivamente, sia sperimentalmente, la specificità
clinica della malattia con i cicli di vita dei parassiti, approccio
che trasformò il concetto microbico della malattia in un paradigma
della patologia sperimentale66.
Immenso
divenne così, in questo frangente, il contributo di scienziati e
ricercatori come Louis Pasteur (1822-1896) che inaugurò,
ufficialmente, la batteriologia medica. Altro grande scienziato che
operò nella direzione della ricerca microbiologica, fu Robert Koch
(1843-1910) che, postulando tre principi generali che
all'osservazione consentivano di stabilire con sicurezza l'eziologia
di una patologia in ambito microbico, dette ulteriore impulso alla
definizione eziopatogenetica e agli studi in ambito clinico e
terapeutico. Tuttavia i postulati di Koch furono concepiti lavorando
con malattie infettive causate da batteri e di conseguenza non si
applicavano alle malattie virali, fino a quando, nel 1931, non furono
realizzate le culture cellulari che consentirono di coltivare i
virus67.
Oltre
alla riflessione otto-novecentesca sulle patologie di origine
microbica e virale, consistenti furono gli studi paralleli sulle
malattie carenziali ed immunitarie. In relazione alle patologie da
carenza, venne posta attenzione alle condizioni igienico-sanitarie e
socio-ambientali in cui versava la maggioranza della popolazione,
applicando nella prassi clinica le scoperte e le ricerca che
mettevano in luce come l'organismo di un soggetto avesse potuto
incorrere in deficit disfunzionali che presto divenivano cronici e
debilitanti.
Da
un punto di vista immunitario, invece, fondamentale fu la scoperta,
con la correlata nascita di una disciplina scientifica come
l'endocrinologia, che le ghiandole sono organi che producono
secrezioni interne. Una scoperta scaturita dalla dimostrazione che
l'asportazione della tiroide causava mixedema, una condizione che
poteva essere trattata efficacemente somministrando estratti di
tiroide, dimostrazione che legava fortemente il concetto di deficit
endocrino sl concetto più generale di malattia da carenza68.
Con
lo sviluppo dell'immunologia e gli studi ad essa correlati, la
medicina ottenne risultati sempre più consistenti, influenzando le
pratiche cliniche anche nella contemporaneità, in special modo nella
ricerca immunopatologica, indirizzata anche alla sperimentazione ed
all'osservazione dei processi di iperattività immunitaria, ossia di
quelle funzioni fisiologiche che diventavano patologiche ed
aggredivano il corpo stesso. Il concetto di autoimmunità, a partire
dagli anni sessanta del novecento, è divenuto capitolo centrale
della ricerca biomedica ed un numero sempre maggiore di patologie
cronico-degenerative è stato associato ad un'eziologia autoimmune69.
Anche
la chirurgia, nel corso dell'Ottocento e del Novecento fece passi da
gigante, riuscendo a smarcarsi dalla semplice attività artigianale a
cui sempre era stata associata. Forte dei contributi di una ricerca
anatomica sempre più consistente e dettagliata, la disciplina si
specializzerà in prassi specialistiche all'avanguardia anche da un
punto di vista dello sviluppo di tecniche di sedazione , di anestesia
e di sterilizzazione complessiva di strumenti ed operatori, il tutto
a favore di un'ottimale riuscita della prassi di cura e di intervento
su acuzie e cronicità patologiche.
Per
quanto concerne, invece, la malattia mentale, quelle discipline che,
nel corso dei secoli si erano impegnate nella ricerca e nel
trattamento terapeutico delle patologie psichiatriche, videro
profondi rivolgimenti, e di impostazione complessiva, e di
osservazione mirata su svariati aspetti, a partire dalla fine del
XVIII° secolo e per tutto il XIX° secolo e il XX° secolo.
Sganciata dalla lettura religiosa, la patologia mentale, venne
studiata principalmente su due fronti, quello della terapia, della
cura, in acuzie ed in cronicità, e quello della ricerca, anche
nosologica e nosografica, per una categorizzazione di segni e
sintomi. Per tutto l'Ottocento, i medici che si impegnarono in questo
determinato settore della scienza, optarono per trattamenti
terapeutici che, in base al paradigma di riferimento, cercavano di
fare luce sui processi e sull'eziologia dei disturbi mentali. I
principali paradigmi scientifici di riferimento gravitarono intorno
agli approcci organicisti e agli approcci più strettamente
psicologici. Nel Novecento, entrambe queste strade saranno percorse
fino a portare alla grande rivoluzione delle neuroscienze
contemporanee, della psicofarmacologia e delle terapie della parola o
psicoterapie. L'evoluzione delle idee dominanti in psichiatria, in
relazione alla malattia mentale, sarà, prima relegata agli aspetti
biologici e neurologici. In seconda battuta, importanti saranno le
teorizzazioni sugli aspetti psicologici, in ambito psicodinamico o
cognitivo-comportamentale. Recentemente, grazie allo sviluppo e
all'affinamento di tecniche di osservazione dal vivo con strumenti
altamente raffinati, consistente è stata la convergenza, in
un'ottica che si riferisce al paradigma della complessità, tra
analisi degli aspetti biologici e neuroscientifici e approfondimento
tecnico-metodologico delle terapie psicologiche, divenute sempre più
importanti e funzionali alla cura e all'ascolto del paziente.
Complessivamente,
la medicina di oggi, nella nostra cultura occidentale, ha fatto
propri i contributi del percorso di sviluppo e di ricerca che, dalla
Rivoluzione scientifica in poi (senza dimenticare quanto avvenuto nei
secoli precedenti), ha prodotto evidenti risultati positivi, in più
direzioni. Se è vero che, a causa di molteplici fattori, la medicina
odierna spesso, può manifestarsi come una prassi difensiva che tende
a voler mantenere uno status quo globale protettivo nei confronti
degli operatori ma, limitato nei confronti dei pazienti, è pur vero
anche che la medicina è una scienza, ad oggi, vivace, in fermento ed
in continua evoluzione, tecnologica, metodologica e terapeutica. Uno
dei principali filoni di ricerca, oggi, risulta essere quello della
EBM, la medicina delle evidenze di base, che, agendo nella direzione
del sostegno sperimentale e statistico alle pratiche cliniche, è
propenso ad una standardizzazione replicabile e generalizzabile della
terapia.
Per
concludere questa lunga carrellata sul concetto di malattia nella
civiltà occidentale, vogliamo riflettere su come, nel corso dello
sviluppo culturale e scientifico dell'occidente, le due grandi
dimensioni di analisi proprie del pensiero umano, quella somatica e
biologica (legata alla scienza in senso stretto) e quella spirituale
(legata alla religiosità nel senso più ampio del termine), si siano
alternate quasi come percorsi a senso unico, nella lettura dei
fenomeni, i più disparati possibili, e soprattutto, dei fenomeni che
coinvolgono i grandi temi della vita, come quello della salute.
Diventa ,così, importante, oggi, vedere come scienza e spiritualità,
ai nostri giorni, contribuiscano sempre più a rendere al meglio,
insieme, l'idea della complessità dell'essere umano, divenuto non
più solamente un meccanismo somatico da riparare o uno spirito
rinchiuso in un corpo da mortificare, senza riduzionismi o dogmi
vicini ad un pensiero unico, anzi, fornendo utili strumenti di
comprensione ed azione e aprendo fronti di sviluppo e di crescita,
verso una medicina integrata ed una cura che sia il più possibile, a
tutto tondo.
CAPITOLO III
IL CONCETTO DI MALATTIA IN ALTRE CULTURE DEL MONDO
1.3 ALCUNE CULTURE DELL'ASIA E LA MEDICINA COME CONOSCENZA OLISTICA
Dopo
aver ampiamente trattato il percorso di evoluzione e sviluppo che,
nella cultura occidentale, ha avuto il concetto di malattia,
consapevoli del fatto che una disamina approfondita meriterebbe molto
più spazio, è ora la volta di volgere la nostra attenzione
all'analisi degli aspetti etno-antropologici e culturali di alcune
delle civiltà più interessanti provenienti da aree diverse del
pianeta, nello specifico, dall'Asia e dall'America. La
malattia tra le società principalmente a tradizione orale è
un'esperienza assai complessa che coinvolge l'identità culturale di
un gruppo intero e non si esaurisce nella sola sfera delle tecniche
terapeutiche. Rappresentare una particolare condizione di malattia o
di un processo di guarigione richiede anche che ci si confronti
inevitabilmente con la natura umana. Si può pertanto comprendere il
perché, tra queste società, ogni gruppo umano ha riversato nel
campo della medicina i più disparati e intimi elementi della propria
psichicità, delle proprie strutture mentali, e così pure delle
proprie rappresentazioni collettive. L'estrema "modernità"
nel concepire il concetto di salute, sta proprio nella più intima e
giusta armonia tra il gruppo umano e l'ambiente, la natura che lo
circonda, in una sorta di risultante equilibrio ecologico frutto del
rispetto delle regole morali del vivere sociale, piuttosto che di un
semplice equilibrio materiale tra gli organi interni del
corpo.
Tuttavia pratiche, credenze e formule rituali incluse in ogni sistema medico-religioso ribadiscono il senso di dipendenza da un ordine di autorità sovrannaturali, sovraumane, preposte al controllo di una condotta lecita, nonché allo svolgimento retto dell'esistenza comunitaria. Questo sistema ha come obbligo la funzione cognitiva di spiegare e giustificare ciascun caso di malattia o di morte secondo una logica di causalità, che attribuisce in larga parte all'uomo la responsabilità del male o dell'esperienza di morte. Stregonerie, azioni di spiriti malefici, infrazioni di tabù, risentimenti degli antenati, sono perciò i molteplici e più frequenti motivi chiamati in causa quali responsabili di malattie e di morte.
Tuttavia pratiche, credenze e formule rituali incluse in ogni sistema medico-religioso ribadiscono il senso di dipendenza da un ordine di autorità sovrannaturali, sovraumane, preposte al controllo di una condotta lecita, nonché allo svolgimento retto dell'esistenza comunitaria. Questo sistema ha come obbligo la funzione cognitiva di spiegare e giustificare ciascun caso di malattia o di morte secondo una logica di causalità, che attribuisce in larga parte all'uomo la responsabilità del male o dell'esperienza di morte. Stregonerie, azioni di spiriti malefici, infrazioni di tabù, risentimenti degli antenati, sono perciò i molteplici e più frequenti motivi chiamati in causa quali responsabili di malattie e di morte.
Per
l'Asia si tratteranno due culture di importanza considerevole, la
cultura cinese e quella indiana, per l'America, si proporrà una
analisi dettagliata sulla figura dello sciamano come medico e
guaritore.
Certamente,
uno studio comparato tra diverse culture, risulta sempre pregno di
una notevole complessità data da percorsi evolutivi sostanzialmente
differenti, seppur costruiti su radici comuni che, ad una prima
osservazione, almeno per quanto riguarda le tematiche della presente
trattazione, manifestano tuttavia una comunanza di intenti legati ad
una visione finalistica dei processi di cura: dalla malattia, alla
diagnosi, dalla terapia, al ripristino funzionale, totale o parziale.
Per
iniziare questo percorso di analisi, tra malattia e cura, e nello
specifico, in relazione ad alcune culture e civiltà rappresentative
del mondo orientale, dell'area geografica dell'Asia, area considerata
una vera e propria culla delle civiltà,
vogliamo
presentare, a grandi linee, gli elementi di nostro interesse, propri
del mondo cinese. Civiltà millenaria di fondamentale importanza nel
panorama mondiale, anche la cultura cinese, fin dalle origini, si
arricchì di un pensiero religioso, dai più disparati assetti, che
pose le basi, nelle pur grandi diversità, all'evoluzione complessiva
di quel mondo. Tra le due grandi visioni filosofico-religiose della
Cina, il Confucianesimo ed il Taoismo, la seconda, a parere di
diversi studiosi, si articolò e crebbe grazie alle solide fondamenta
poste dalla prima, intorno alla seconda metà del primo millennio
a.C.
Forti
furono le contrapposizioni tra Lao Tzu e Confucio, che, seppur
contemporanei e legati da un pensiero critico nei confronti della
dinastia regnante del periodo, proposero soluzioni diverse per
condurre gli uomini al cambiamento: per il Taoismo, era necessaria
la arcaica semplicità del Tao, per il Confucianesimo, era necessario
il ritorno alle virtù di carità e giustizia proprie dei santi
imperatori del
passato. Tuttavia, ad un'attenta analisi, risulterebbe che i concetti
espressi dai due importanti pensatori, fossero presenti fin dai tempi
più antichi. A Lao Tzu e Confucio, andrebbe però il merito, di una
codificazione scritta ed insegnata, dei principi basilari di questi
approcci filosofico-religiosi alla vita. Il maestro Lao Tzu visse
intorno al sesto secolo a.C., nacque in un modesto villaggio della
campagna cinese e divenne un funzionario imperiale. Durante il suo
percorso di crescita spirituale, volle compilare un testo grazie al
quale poter divulgare la sua filosofia e le sue dottrine. Nacque così
il Tao Te ching, opera suddivisa in due parti, una per il Tao e una
per il Te.
Per
il pensatore religioso cinese, il Tao
significherebbe, nello specifico, “Via”,
con l'accezione di “modo di condursi, sistema”, e sarebbe una
legge generale della natura, interconnessa con tutte le cose, la
fonte prima del mondo e l'origine sostanziale e formale di ogni
essere. Il Tao, energia metafisica, si individuerebbe nelle cose,
attraverso il Te, che, per Lao tzu, sarebbe potenza, vigore ed
efficacia.
Tutte
le cose esistono nel Tao ed il Tao è presente in ogni cosa.
L'equilibrio complessivo di ogni singolo individuo è dato
dall'equilibrio del rapporto tra soggetto ed universo. La malattia,
il disequilibrio, sono dati, quindi da una rottura della relazione
armoniosa tra energia cosmica ed essere umano, pensiero questo che,
anche nelle origini della scienza medica occidentale, è fermamente
presente come si è potuto vedere più sopra. Fin dai primordi, il
Taoismo, postula fermamente l'esistenza di bisogni spirituali e di
bisogni corporei, bisogni che vengono nutriti dall'esercizio della
moralità, per quanto concerne lo spirito, e da pratiche di ordine
dietetico, sessuale, respiratorio ed alchimistico, in relazione al
corpo. Soprattutto gli esercizi fisici inerenti specifiche dimensioni
fisiologiche, divengono importanti prassi preventive in funzione
dell'equilibrio cosmico da preservare. Anche dal Taoismo, come dal
Confucianesimo e dai vari influssi che si articoleranno e produrranno
la millenaria cultura cinese, si svilupperà quella pratica medica
conosciuta come Medicina Tradizionale Cinese (MTC), che, ad oggi
viene riconosciuta come importante fattore di prevenzione e di
sviluppo della salute dalla Nazione Cinese. La Medicina Tradizionale
Cinese, è una scienza olistica in quanto considera tutta la realtà
come unica e l'uomo come microcosmo inserito in un macrocosmo
onnicomprensivo. L'uomo, in sintesi, viene visto come un sistema
aperto, connesso con l'ambiente ed in continuo scambio energetico con
il cosmo.
Importanti,
come abbiamo visto, furono per la cultura cinese, i fermenti
intellettuali e religiosi che contribuirono alla strutturazione di un
pensiero complesso e volto alla riflessione sui grandi temi
dell'esistenza, dell'energia cosmica, della vita e della morte che
fece nascere sicuramente da questi presupposti, delle tecniche
terapeutiche di notevole pregio come il Qigong, lo Shiatsu, la
dietoterapia, la fitoterapia, l'agopuntura e la moxibustione,
tecniche queste ultime, di grande impatto anche in Occidente.
Con
lo sviluppo di numerose correnti di pensiero e di nuove tecniche
terapeutiche, anche la Medicina Tradizionale Cinese vide il fiorire
di più scuole di pensiero e la più antica suddivisione all'interno
della scienza medica cinese, la si può trovare tra medici colti o
studiosi, che fondavano la loro scienza sullo studio accademico dei
classici e medici plebei o marginali, legati alla prassi comune
quotidiana. Ad oggi vi sono numerose prove documentarie su studi e
pratiche delle scuole mediche, testi di notevole interesse per gli
studiosi. Con lo sviluppo delle ricerca e della pratica clinica,
fiorirono anche le scuole universitarie dove si formavano i giovani
medici e gli studiosi e la produzione trattatistica anche nel campo
della farmacologia.
L'Agopuntura
divenne, nel corso dei secoli, la prassi clinica più adottata,
consentendo ai clinici di sperimentare con ampi margini di successo,
sempre nuove applicazioni e nuovi strumenti inerenti.
L'origine
dell'Agopuntura si perde nella notte dei tempi e, secondo gli
studiosi, tale tecnica si svilupperebbe in ambito magico-religioso e
probabilmente il suo primo periodo di utilizzo, con forme
apotropaiche, si potrebbe far risalire al neolitico (8000- 5000
a.C.). Sviluppatasi poi, nel corso dell'evoluzione della millenaria
cultura cinese, l'Agopuntura si legò strettamente alla Medicina
Tradizionale Cinese e fino alla sua marginalizzazione, a partire dal
Novecento e dalla Rivoluzione culturale maoista, che adottò i
principi e le pratiche della medicina occidentale emarginando nelle
campagne e nelle comunità rurali i medici che adottavano tecniche
tradizionali, rimase il più importante strumento clinico-terapeutico
in uso.
Divenuta
così una delle pratiche cliniche principali nella Medicina
Tradizionale Cinese, l'Agopuntura si vide utilizzata da diverse
scuole mediche. Tra le principali, troviamo la Scuola del Nei Jing,
per la quale le malattie erano date da problemi di circolazione e di
stasi dei flussi energetici vitali; la Scuola dello Shan Han Lung,
che si occupò delle patologie esterne da freddo o da calore
utilizzando i principi della fitoterapia; la Scuola dello yin e dello
yang, che propose la malattia come causata da vuoti o stasi dei
principi vitali dello yin e dello yang; la Scuola dei cinque
movimenti, attiva ancora oggi, che fa riferimento a leggi come
inibizione, attivazione e disprezzo ed utilizza pratiche come l'
agomoxibustione, la fitoterapia e la dietetica; la Scuola del Ming
Men che applicò all'eziologia delle malattie l'idea della carenza di
energia (qi) e di sangue (xue); la Scuola della moxa, che trasformò
la prassi dell'agopuntura in una tecnica di sollecitazione calorica
di vari punti della cute, tecnica, ad oggi, studiata anche da
scienziati occidentali, incuriositi dai processi biochimici innescati
dall'uso di moxe che vanno a stimolare la batteriolisina ematica,
l'anticorpopoiesi splenica, il titolo anticorpale ed il livello della
blastizzazione linfocitaria segnalare, a parere di chi scrive, per
l'interesse antropologico e per la direzione altamente spirituale e
psicologistica intrapresa, due scuole, nate in epoca molto antica, da
un lato, la Scuola della guarigione cosmica, che sviluppò pratiche
mediche e preventive peculiari come il massaggio, la ginnastica, il
TaiJiquan e tutta una serie di complessi rituali alchemici di tipo
meditativo, dall'altro lato, la Scuola sciamanica ed invocativa,
basata su formule magiche e talismani ed imperniata su un simbolismo
dal forte valore emozionale.
Altra
grandissima ed antichissima cultura, in area asiatica, sorta intorno
al fiume Indo, è la cultura indiana. L'origine di questa civiltà si
perde nella notte dei tempi ed essa si sviluppa, nel corso dei
millenni, grazie a continue migrazioni, verso la terra indiana e
fuori da essa, migrazioni foriere di notevoli contaminazioni
culturali, non da ultime quelle proposte dagli studiosi come origine
delle civiltà sparse sul suolo europeo grazie alle influenze dei
popoli indo-europei.
Di
grande interesse, per il tema di questa trattazione, sono le
concezioni della medicina e della salute sviluppatesi nelle culture
che hanno dato vita alla civiltà indiana, la principale delle quali
risulta essere l'Ayurveda, conosciuto come il più antico sistema di
teorie e prassi di medicina.
Le
prime testimonianze che provano l’esistenza di un sapere medico
organizzato sono rintracciabili nell’Atharva
Veda
e possono essere datate forse intorno al 2.000 a.C.
L'Ayurveda,
a detta degli studiosi, nasce e si sviluppa nell'India Vedica per
migliaia di anni ed il termine che denomina questo composito insieme
di tecniche e teorie significa
letteralmente “La Scienza della Vita”, dal sanscrito AYUS, o
“vita” e VEDA o “scienza”. Fondamentali rimangono per tale
sistema medico, i concetti della presa in carico terapeutica della
salute e delle vita umana, in ogni possibile sfaccettatura,
psicologica, fisiologica, comportamentale ed ambientale, aspetti che,
in una visione olistica, possono venire intaccati dalle malattie,
concepite, in ultima istanza come squilibrio dei componenti
fondamentali della fisiologia, combattute anche con la prevenzione,
intesa non semplicemente come diagnosi precoce, ma piuttosto come
insieme di metodi volti a promuovere e rafforzare lo stato di
benessere e di salute.
Grazie alla consistente
importanza della trattatistica medica in ambito culturale indiano,
possiamo oggi ricostruire tutte le raffinate concezioni inerenti
salute e malattia, che fanno parte del bagaglio filosofico e
scientifico della civiltà indiana. Nel trattato chiamato “Sushruta
samhita”, antichissimo testo dell’Ayurveda, si può trovare una
interessante definizione di salute: “La salute è quella condizione
nella quale i principi fisiologici del corpo sono in equilibrio, la
digestione è efficiente, i tessuti sono in condizione normale, le
funzioni escretorie sono regolari e mente, sensi e spirito sono
pienamente appagati”.
Analizzando questi assunti di
origine arcaica, è facile notare come primari risultino per il
benessere e la salute, anche gli aspetti psicologici ed emozionali,
volti ad integrare una concezione antica e tuttavia modernissima,
inerente la salute ed il benessere come condizione positiva di
equilibrio dinamico e non come situazione negativa legata a disordini
manifesti.
Una delle teorie mediche più
importanti, nel complesso corpus torico ayurvedico, è senza dubbio
la teoria dei Dosha.
Secondo la dottrina ayurvedica i
principali fattori fisiologici che occorre mantenere in equilibrio
per conservare la salute sono i tre Dosha. I Dosha sono definiti da
S. Sharma come “gli ultimi irriducibili principi metabolici che
governano l’intera struttura psicosomatica dell’uomo”. Nella
loro condizione di equilibrio essi mantengono la salute, mentre in
quella di squilibrio causano le malattie. Il termine Dosha
significa letteralmente “impurità”, con evidente riferimento
alla possibilità di determinare malattie. I Dosha sono tre: Vata,
Pitta e Kapha:
Vata rappresenta il principio del movimento e dell’attivazione.
Esso presiede alle funzioni nervose, circolatorie, respiratorie,
escretorie e di locomozione. Pitta rappresenta il principio della
trasformazione e della termogenesi. Esso presiede alle funzioni
digestive, metaboliche ed endocrine. Kapha rappresenta il principio
della coesione e della struttura. Esso governa i fluidi, promuove la
crescita e la forza, ed è responsabile della lubrificazione delle
articolazioni e dell’immunità.
Diventa interessante ,così,
osservare come, si possano analizzare in modo comparato, gli assunti
di una dottrina antichissima come l'Ayurveda nell'ottica di una
corrispondenza con le modernissime ipotesi della PNEI,
psiconeuroendocrinoimmunologia.
Per il sistema dell'Ayurveda, la
malattia costituisce uno degli aspetti, forse nemmeno il più
importante, sui cui si focalizza la prassi clinica, costruita sulla
conoscenza approfondita del paziente volta alla ricerca delle radici
del problema e ad una più completa ed incisiva azione. La
valutazione clinica, quindi, sarà orientata all'analisi del grado di
disordine presente nella fisiologia del paziente ed il grado di
ordine rimasto, facendo leva su quest’ultimo, da un punto di vista
terapeutico, per ottenere una piena e duratura guarigione.
Nella prassi diagnostica
dell'Ayurveda non si cercherà allora la definizione precisa della
malattia ma una sempre più accurata ricerca eziopatogenetica ed
un'analisi precisa di tutti i possibili fattori coinvolti nello
scatenarsi della patologia.
Interessante diviene, in ultima
analisi, presentare le svariate pratiche terapeutiche di cui si è
arricchito, nel corso dei millenni, il sistema ayurvedico come
l’impiego delle piante medicinali, preparate secondo ricette che
risalgono il più delle volte ad oltre 2000 anni fa. La farmacopea
ayurvedica è estremamente ricca, contando oltre 9000 piante. Ad essa
ha attinto a piene mani anche la farmacopea occidentale che ha
utilizzato piante come la Rawolfia serpentina, la Commiphora mukul e
la Phyllantus amara, tanto per citarne alcune. Il principio di
impiego delle erbe è rigorosamente allopatico, nel senso più
stretto del termine. Ogni sintomo ed ogni problema vengono trattati
con il loro opposto. Non si può non rilevare come in ciò l’Ayurveda
sia estremamente moderna e vicina al pensiero della medicina attuale.
La peculiarità delle preparazioni ayurvediche sta però nel fatto
che esse contengono dei principi in grado di stimolare le difese
interne dell’organismo e di risvegliare i meccanismi naturali ed
intelligenti di autoriparazione ed autoguarigione che sono insiti
nella natura stessa del corpo.
Ulteriori prassi terapeutiche da
citare sono il drenaggio, le terapie comportamentali e nutrizionali e
l'utilizzo di tecniche di rilassamento e proiettive basate su
strumenti creativi, prassi terapeutiche che dimostrano ampiamente
come l'Ayurveda sia, fondamentalmente, un sistema medico i cui
fondamenti olistici tengono strettamente in considerazione l'unità
mente-corpo.
Per concludere, chi scrive
vorrebbe sottolineare che, nel corso dello sviluppo delle diverse
culture, quella occidentale e quelle orientali, una profonda
differenza sostanziale si è manifestata in considerazione del fatto
che, mentre in Occidente abbiamo avuto un'evoluzione meccanicista e
razionalista della scienza, basata sull'idea del dualismo mente-corpo
di origine cartesiana e continue rivoluzioni scientifiche che spesso
hanno fatto piazza pulita di dottrine e ricerche precedenti, in
Oriente le ipotesi arcaiche legate all'idea della totalità e del
legame tra corpo e psiche e del loro aggancio fondamentale con la
natura e con il cosmo, hanno fatto da assunto inviolabile a qualsiasi
possibile innovazione scientifica. Tuttavia, la notevole differenza
tra il pensiero prevalentemente materialista e razionalista della
scienza occidentale e il pensiero spiritualista e cosmico della
scienza orientale, in questi ultimi anni è stata sanata con il
tentativo, supportato empiricamente e sperimentalmente, di
integrazione di teorie e prassi di quella ricerca scientifica
conosciuta come medicina integrata, filone della ricerca che inizia a
dare i suoi frutti.
2.3 ALCUNE CULTURE AMERINDIE E LA MEDICINA COME CONOSCENZA SCIAMANICA
Passeremo ora in rassegna, dopo
aver affrontato a grandi linee il pensiero medico di alcune culture
dell'Asia, le esperienze culturali di varie popolazioni amerindie
che, a parere di chi scrive, risultano veramente interessanti e degne
di riflessione. Il continente americano, è noto, ha visto
l'affermarsi di popoli indigeni conosciuti come nativi
americani, civiltà e
comunità, prima dell'arrivo della presenza occidentale, dalla
notevole raffinatezza culturale e dalla profonda complessità.
Secondo gli studiosi, l'ipotesi più probabile è che circa 13.000
anni fa, il continente americano avrebbe visto una forte migrazione
di gruppi umani che, attraverso una lingua di terra che univa i
continenti asiatico ed americano, avrebbero popolato, da sud a nord,
tutte le americhe, diversificandosi in etnie e tribù e dando origine
ad imperi, regni e comunità.
Questa ipotesi è stata
approfondita anche utilizzando i contributi delle scienze biologiche
che hanno notato come la
maggior parte dei nativi presenta caratteristiche somatiche affini
alle popolazioni
asiatiche:
occhi allungati, zigomi sporgenti, con in più la quasi assenza di
barba e capelli perlopiù scuri e lisci, solitamente neri; il
gruppo sanguigno predominante
è lo 0.
In Centro e Sud America, questi
nativi americani costruirono importantissime civiltà come, Maya,
Aztechi ed Incas, mentre, nel Nord America, gli indigeni erano
prevalentemente dediti alla pastorizia e al nomadismo. Al giorno
d'oggi, ancora molti nativi sono presenti nel continente americano,
anche dopo la tormentata invasione e lo sfruttamento economico
secolare portato avanti dagli uomini occidentali che, a parere di
chi scrive, rappresentano un esempio classico di integrazione
culturale forzata, imposta con armi e sotterfugi, a discapito della
scelta di individui o comunità. Una prassi diffusa e
complessivamente ben conosciuta, legata probabilmente all'idea
occidentale, articolatasi nei secoli, ma presente fin dall'antichità,
di Stato, sovrano, centralista burocratico ed unitario, in continua
espansione politico-territoriale ed economica, senza nessun rispetto
per minoranze etniche e culturali appartenenti ad altre tradizioni e
ad altre evoluzioni storiche, che tanto ha permeato e continua a
permeare il mondo dell'Occidente, Italia inclusa.
Consapevoli della moltitudine di
orientamenti culturali e di civiltà presenti nelle americhe
precolombiane, vogliamo tuttavia presentare due focus, per
concentrare l'attenzione, che, chi scrive reputa di grande interesse
in relazione alla panoramica etno-antropologica della presente
trattazione. Il primo focus è inerente le culture dei nativi
conosciuti come Indiani d'America e il secondo focus concerne le
pratiche dello sciamanesimo sul continente americano. Per
gli Indiani Americani la parola "medicina" significava
molto più che una sostanza per poter ristabilire la salute e la
vitalità ad un corpo ammalato o esaurito. Medicina
significava "potere", forza vitale vista dentro ogni
aspetto della madre terra, "completezza" e "integrità".La
medicina di una persona era la sua energia, l’espressione del
suo organismo vitale, significava anche "conoscenza",
perché conoscere dà alla persona il potere di fare nella sua vita
mentre senza non si otterrebbe altro che un deambulare cieco e sordo.
"Medicina”, dunque, è tutto ciò che può sostenere l’uomo
nel sentirsi collegato e in armonia con la natura e tutti gli esseri
viventi ogni cosa che guarisce il corpo, la mente e lo spirito è
medicina. Per reperire le risposte a un problema, gli uomini delle
tribù indiane andavano nelle foreste o nelle mesas per osservare i
presagi o i segni che li avrebbero aiutati e sostenuti nel processo
di guarigione in questo modo essi si ricollegavano con i poteri
superiori e i cosiddetti aiutanti
di medicina.
Noto agli studiosi è l'esempio di Manitonquat , uomo di medicina e
leader spirituale degli Assonet Wampanoag, grande racconta-storie,
il quale aveva fede nel potere che le storie hanno di guarire le
persone, la comunità e perciò la terra stessa. Molto spesso le
persone della comunità andavano da lui chiedendogli di insegnare
loro come diventare sciamani e, se lui raccontava loro le estreme
difficoltà del percorso, queste persone se ne scappavano via piene
di disappunto, alla ricerca di qualcosa di più veloce. Questo
esempio è estremamente significativo in relazione all'importanza di
queste determinate figure di medici tradizionali nelle culture
amerindie. Presenteremo in rassegna ora alcuni ulteriori esempi
tratti da svariate ricerche di antropologi e studiosi che hanno
raccolto numeroso materiale di indubbio fascino. Presso i Lakota,
altra tribù indiana, si distinguono diversi tipi di medicine men: Il
Wichasha wakan
ovvero "uomo sacro" che
a un antropologo apparirebbe come il classico "Sciamano".
Per la cultura tribale dei Lakota, lo si può divenire in molti modi:
fin da bambino il candidato dimostra particolare senso della
solitudine e della contemplazione in rapporto all'ambiente in cui si
trova a crescere ed anche se non ci può essere la certezza della sua
propensione per entrare nel ruolo di sciamano, la figura più anziana
della comunità, stimata e rispettata per la saggezza, lo porta alle
cerimonie, gli narra le credenze e le tradizioni del suo popolo e
farà in modo che un uomo sacro lo istruisca sulle cose spirituali.
Il futuro sciamano, dopo l'apprendistato, così, potrà ricevere il
potere da un animale, sia tramite un sogno, sia come risultato di una
visione,
oppure riceverà il potere da un altro Wichasha wakan, al momento
della sua morte.
Altra
figura di medicine man è il Pejuta
Wichasha
che significa letteralmente "uomo delle erbe" ossia
il classico uomo di medicina che ha il potere di guarire i malati.
Questo guaritore deve saper parlare la lingua Lakota, perchè lingua
e religione sono strettamente correlate, deve inoltre possedere il
potere di parlare con gli spiriti ed essere in grado di parlare il
linguaggio segreto degli sciamani, l’hambloglaka.
Deve conoscere i canti giusti per ogni medicina che utilizza e quelli
delle cerimonie che esegue nel caso non li conosca o usi quelli
sbagliati, tutto ciò che farà non avrà alcun effetto. Deve essere
stato istruito nel suo lavoro da un uomo sacro più anziano possedere
sincerità e sapere quando ha potere, infatti il potere va e viene e
può svanire in un batter d’occhio. Può utilizzare una sola o
diverse medicine perché a nessuno è consentito conoscerle tutte.
Deve avere alcune cose essenziali per le cerimonie di guarigione cioè
un’ala d’aquila, una borsa per la pipa, e una pipa di pietra
rossa (per i Lakota). Deve avere un sonaglio e un tamburo cerimoniali
per invocare l’aiuto degli spiriti, ed anche salvia, cedro ed erba
dolce, che userà per le fumigazioni purificatrici. Ogni
Pejuta
wichasha
ha la propria borsa di medicina, con
le sue erbe medicinali e i suoi oggetti di medicina sacri che non
presterà mai a nessuno nè dovrà farsi rubare, pena la perdita dei
poteri e delle sue peculiarità. Egli apprende i segreti delle erbe
da un esperto o da sogni e visioni. Un uomo di medicina sa dove e da
quale direzione avvicinarsi ad un’erba e se essa sia efficace di
giorno o di notte. Si dovrebbe sempre raccogliere l’intera pianta,
compresa la radice e mai raccogliere una pianta con i semi che, se
raccolta in modo non cerimoniale non farà guarire nessuno. Lo
sciamano è capace di introdursi nella mente del malato e percepirne
il dolore (questi
sono principi di empatia e rispetto verso la natura). Presso i Lakota
per chiedere l’aiuto di un uomo di medicina è necessario inviare
come dono una pipa di pietra rossa, che lui poi restituirà. Alcune
guarigioni vengono eseguite spiritualmente attraverso cerimonie,
preghiere, sventolando ali d’aquila e attraverso l’atto di fumare
la Sacra Pipa. In questi casi non si somministra alcuna medicina
speciale mentre altre cure vengono effettuate preparando una certa
tisana, un infuso o una poltiglia ottenuti da una pianta speciale
cosa che spesso viene combinata con la capanna sudatoria.
Altra
affascinante figura di medicine man è il Yuwipi
che significa "lo scopritore", "il sognatore della
Roccia", "l’uomo delle luci tremolanti", "colui
che viene legato", "l’uomo delle pietre che
rintracciano":
queste sono alcune espressioni Lakota che indicano questa figura
misteriosa, per il fatto inerente la cerimonia particolare di
guarigione che solo lui può compiere. Ci si rivolge a lui quando un
bambino si è allontanato e non lo si trova più, quando si perde o
ci viene rubato qualcosa, quando una persona malata vuole sapere la
causa della sua malattia. Allora l’uomo Yuwipi
prepara il rito del mistero notturno dove attraverso la propria
personale pietra sacra, si metterà in contatto con gli spiriti per
conoscere ciò che è necessario sapere. La sua pietra è sempre
perfettamente rotonda e spesso dipinta di rosso, ed è una "pietra
che rintraccia". In questa pietra è incarnato Tunka,
la roccia, il potere soprannaturale dell’inamovibile.
Wapiya,
invece,
è lo stregone e mago,
temuto e ammirato al tempo stesso, a seconda dell’uso che fa del
proprio potere infatti con la sua conoscenza positiva guarisce i
malati, mentre nel suo aspetto negativo è il "custode delle
ossa", lo stregone malefico che provoca le malattie. Un Wapiya
buono
può utilizzare un bastone di legno per perforare una vena e far
uscire il sangue cattivo insieme alla malattia oppure può aspirarla
con la bocca direttamente dal corpo del malato e poi sputarla via
come avviene nei riti di guarigione peruviani.
Waayatan
è
il profeta, colui che è in grado di vedere nel futuro e di predire
ciò che accadrà. Heyoka
rappresenta il "contrario",
colui che fa tutto alla rovescia. Heyoka
è
l’inversione dell’espressione hoka hey che i nativi indiani
guerrieri gridavano lanciandosi nelle battaglie. Egli è un
"sognatore del tuono", cioè deve aver sognato Wakinyan,
gli uccelli del tuono poiché sognandoli diventa automaticamente un
heyoka, che lo voglia o no. La sua figura fa entrare il divertimento
nel sacro ma essere un heyoka
è
cosa importantissima
perchè il suo potere è immenso, infatti può guarire in maniera
incredibile o addirittura cambiare il tempo atmosferico quando sia
necessario.
Nella
tradizione di un'altra tribù nativa delle americhe, i Seneca, non
viene mai svelato quali, tra i membri
della nazione
sono le persone di medicina. Una vera persona di medicina non dice
mai "Io sono un uomo o una donna di medicina." Altri
potranno dirlo di qualcun altro, ma è proibito dichiararlo di se
stessi. Presso i Seneca una persona di medicina deve avere cinque
requisiti: deve essere un consulente, cioè assistere gli altri
aiutandoli a scoprire le proprie inclinazioni personali, la propria
medicina e un buon sentiero da percorrere nella vita. Deve essere
capace di impartire soluzioni tradizionali facendo uso della legge
tribale e della saggezza. Deve essere uno storiografo dei ricordi
della terra, cioè conoscere i racconti della creazione e i primi
quattro mondi o età dell'umanità, come pure le profezie dei futuri
quinto, sesto e settimo mondo. Deve essere un erborista e guaritore,
cioè conoscere l’utilizzo delle piante medicinali e delle cure di
guarigione naturali che derivano da madre terra. L’Erborista
conosce
anche la medicina delle creature animali e il modo in cui esse
assistono gli uomini nel trovare cure spirituali o mentali. Questo
talento include anche la capacità di riconoscere e diagnosticare le
malattie del corpo, della mente e dello spirito. Deve possedere il
dono della profezia ovvero essere un veggente, un sognatore o
comunque essere in grado di comunicare con il mondo dello spirito a
proprio piacere, poichè in qualsiasi momento potrebbe verificarsene
la necessità. Deve avere la capacità di insegnare ad altri tutti
gli aspetti della saggezza e della conoscenza, la sua esperienza deve
essere condivisa perchè la medicina possa continuare a vivere e ad
assistere le generazioni future. Fools
Crow , morto nel 1989, capo cerimoniale dei Teton Sioux,
considerato da molti il più grande uomo sacro dei nativi americani
nell'ultimo secolo, definiva le persone di medicina " ossa vuote
" attraverso le quali operano i poteri superiori agivano per
curare il mondo e la terra, disse anche al suo biografo ed amico
Thomas E. Mails: "Le ossa più pulite servono Wakan Tanka e i
poteri superiori nel modo migliore; le persone sacre e le persone di
medicina lavorano duramente per divenire pulite. Più l’osso è
pulito, più acqua vi si potrà versare dentro e più velocemente
scorrerà. Il potere ci arriva dapprima perchè facciamo di noi ciò
che dovremmo essere, e quindi scorre attraverso di noi verso
l’esterno, verso gli altri. Il potere prende il sopravvento nella
vita di una persona sacra. Influenza ogni cosa di noi. Siamo in grado
di guarire noi stessi e gli altri. Possiamo compiere viaggi con il
nostro spirito fino alle dimore dei poteri superiori, e possiamo
trasformarci in creature animali o in uccelli che vadano tra la gente
a vedere cosa sta accadendo. Ma tutte le persone di medicina sono
differenti dalla gente comune. Il modo in cui pensano è differente.
Ciò che accade loro è differente. Comprendono cose dentro di sè
che gli altri non capiscono. Sono questi pensieri e questa
comprensione a far sì che raggiungano gli apici di potere necessari
per il loro lavoro. Le nostre vite sono una danza di potere; la
nostra gente lo vede e perciò ci onora. Non ho mai toccato nè
alcool nè droghe; non ho nemmeno fatto uso del peyote come avviene
nella Native
American Church.
Wakan Tanka è in grado di portarmi più in alto di quanto possa fare
qualsiasi pianta."
Al
termine di questa breve panoramica, raccolta dal materiale elaborato
e presentato alla comunità scientifica da svariati studiosi ed
antropologi, risulta evidente come, per le culture precolombiane e,
nello specifico, per le culture dei nativi nord-americani, lo
strettissimo legame tra dimensione sacra e sfera diagnostica e
terapeutica sia imprescindibile. L'esistenza dell'uomo e la cura
delle sue malattie non possono essere sganciate da una spiritualità
che coinvolge la terra, i corpi, e le potenze superiori e ogni
dimensione del vivere quotidiano risulta così pregna di una
interazione continua con i riti e con il sacro.
Il
secondo focus che si vuole proporre, legato in modo consistente con
gli ambiti culturali che in questo paragrafo presentiamo ma che, in
modo trasversale, attraversa la maggior parte delle culture umane, è
una riflessione sulla figura e sulle pratiche dello Sciamano.
Mircea
Eliade (1907-1986), enorme figura di studioso che si occupò, tra
l'altro, nella sua ricerca, anche della figura dello sciamano, nel
considerevole saggio “Lo
sciamanesimo e le tecniche dell'estasi” propose
di
considerare lo
sciamanismo principalmente come un fenomeno religioso siberiano e
centro-asiatico. Secondo Eliade, attraverso il russo, il termine
deriva dalla parola tungusa shaman.
In altre lingue del centro e del nord dell'Asia i termini
corrispondenti sono: lo yakuta ojun,
il mongolo buga,
boga
e udagan,
il turco-tartaro kam.
Per Eliade lo
sciamanismo corrisponde ad una "specialità" magica
particolare: implica
il "dominio del fuoco", il volo magico e così via. Così,
benché lo sciamano sia, fra l'altro, un mago, non ogni mago può
essere qualificato come sciamano. La stessa precisazione, sottolinea
lo studioso, si impone nel riguardo delle guarigioni sciamaniche:
ogni medicine-man è un guaritore, ma lo sciamano utilizza una
tecnica propria solo a lui. Quanto alle tecniche sciamaniche
dell'estasi, esse non esauriscono tutte le varietà dell'esperienza
estatica attestate dalla storia delle religioni e dall'etnologia
religiosa: non si può dunque considerare un qualsiasi estatico come
uno sciamano; questi è lo specialista di una trance durante la quale
si ritiene che la sua anima possa lasciare il corpo per intraprendere
ascensioni celesti o discese infernali.
Eliade,
nell'articolazione del suo saggio “Lo
sciamanesimo e le tecniche dell'estasi”,
presenta allora lo sciamano come “specialista” nei
rapporti con gli "spiriti", dotato di capacità estatiche
permettenti il volo magico, l'ascensione al cielo, la discesa agli
Inferi, il dominio sul fuoco e così via. Per l'antropologo rumeno, i
popoli che si dichiarano "sciamanici" danno un'importanza
considerevole alle esperienze estatiche dei loro sciamani; queste
esperienze li riguardano personalmente e direttamente, perché sono
gli sciamani che, per mezzo della loro trance, li guariscono,
accompagnano i loro morti nel "regno delle ombre" e fanno
da mediatori tra loro e i loro déi, celesti o infernali, grandi o
piccoli. Questa ristretta élite mistica non solo dirige la vita
religiosa della comunità, ma in un certo modo veglia sulla sua
"anima". Lo sciamano è il grande specialista dell'anima
umana: lui solo la "vede", perché ne conosce la "forma"
e il destino.
Abbiamo
voluto citare alcuni interessanti passaggi tratti dal lavoro di
Mircea Eliade, per introdurre, in questo paragrafo dedicato a culture
che, nella maggior parte dei casi, hanno visto un prevalente utilizzo
della figura dello sciamano come medicine man in relazione a malattia
e salute, a rapporti tra sfera del sacro e dello spirituale e sfera
del somatico e del fisiopatologico, l'idea, già sostenuta da molti
scienziati ed antropologi, dell'importanza delle pratiche suggestive
legate al sacro e alle figure carismatiche che, probabilmente,
facendo leva su processi di reciproco influenzamento
psico-somatico, da leggere anche in chiave transpersonale, giungono
attraverso diagnosi e terapie, alla guarigione, psicologica e
somatica, del paziente.
Lo
sciamanesimo, dunque, come prassi gnostica legata a figura sacre e
carismatiche,
è una conoscenza antichissima e universale che si è diffusa in
società molto diverse, dai cacciatori-raccoglitori del paleolitico
fino alle società sedentarie e agricole più complesse. Si è
preservato nella maggior parte delle comunità indigene e si è
riadattato in quello che oggi, nella società occidentale
contemporanea, è chiamato “neo-sciamanesimo”.
Uno dei temi fondamentali della
conoscenza sciamanica, come premesso più sopra, riguarda la capacità
di curare sia malattie fisiche che disturbi spirituali. Questa
qualità terapeutica dello sciamanesimo, basata su una concezione
integrale e multidimensionale della realtà, della persona e della
salute, ci rivela il suo potenziale sanante e il suo potere
spirituale. Ed è ciò che precisamente promuove, oggigiorno, il
risorgere dell'interesse sullo sciamanesimo, un fenomeno che
trascende il campo accademico e suscita inquietudini in un pubblico
molto più ampio, poiché è un campo che ha grande risonanza e
potenzialità per far riflettere e agire sui i problemi
contemporanei.
Secondo la maggior parte di
studiosi, dunque, gli sciamani svolgono
la funzione di mettere in comunicazione i diversi piani di realtà e,
grazie alla capacità di coltivare la facoltà di sdoppiare la loro
coscienza, fanno da ponte tra le loro comunità e il sovrannaturale,
ottemperando ad una diversità di funzioni come il divinatore,
medico, saggio, officiante di cerimonie o perfino capo politico. Ciò
che distingue gli sciamani e attribuisce loro questa identità tanto
speciale è la loro capacità
di uscire dalla realtà ordinaria, andare verso lo straordinario e
saper ritornare, portando qui qualcosa che viene dalla loro
connessione con questi altri piani sacri o sovrannaturali.
Gli sciamani si occupano
specialmente di mantenere la comunicazione con le forze spirituali,
del dialogo con gli spiriti degli animali, ai quali devono chiedere
il permesso o la riconciliazione dopo una partita di caccia. Si
occupano degli elementi della natura per portare la pioggia,
scongiurare una siccità o fermare il fuoco; delle piante, da cui
apprendono l'arte di curare le malattie del corpo e dell'anima. Si
occupano anche dei morti, le cui anime a volte non vogliono partire,
o delle stesse divinità che è necessario onorare e servire sempre.
Le attività e le competenze
principali dello sciamano sono ,così, a parere degli studiosi,
il viaggio in mondi differenti o
piani della realtà; la
capacità visionaria, facoltà scrutatrice che permette loro di
vedere attraverso la materia e sapere quello che succede in altri
mondi ed ,in un senso più ampio, la visione sciamanica o “l'occhio
forte”, si riferisce alla capacità di ampliare la percezione
ordinaria e avere visioni, o affinare la sensibilità per captare e
vedere energie e forze sottili; la capacità di sdoppiare la sua
coscienza ed entrare in uno stato di trance estatica. La trance è il
veicolo del viaggio e per ottenerlo si utilizzano diversi mezzi tra i
quali la vibrazione della musica, il canto, il ballo ripetitivo, le
percussioni, il movimento fisico costante e, specialmente,
l'assunzione di piante o sostanze psicoattive considerate sacre per
l'uso esclusivamente rituale e curativo che se ne fa. Un elemento, a
volte meno considerato nella tecnologia della trance, è l'uso e la
realizzazione di immagini e icone, così come statuine, manufatti,
vasetti o pezzi decorati, pitture sia sul corpo che
su altre superfici
naturali come cortecce, rocce o sulla terra stessa. Come risultato
del viaggio, sopraggiunge la trasformazione dello sciamano, che
comporta la sua morte e la sua resurrezione, così come la sua
conversione in altri esseri, generalmente animali. Ciò è possibile
grazie alla profonda connessione o consustansazione dello sciamano
con le forze naturali e animali. L'arte sciamanica, in particolare
precolombiana, è ricca di rappresentazioni in cui si integrano e si
confondono gli attributi umani e quelli animali, con un'enfasi
particolare sulla simbiosi tra il giaguaro e lo sciamano, o il
serpente e lo sciamano, immagini che ci parlano delle possibilità
sciamaniche dello sdoppiamento, della trasformazione e dell'accesso
ad altri piani di realtà.
Il compito sciamanico è sempre
di trasformare qualcosa: una malattia in salute, una siccità in
pioggia, un segnale in annuncio. Potremmo dire che l'arte sciamanica
per eccellenza è l'arte di trasmutare, di unire, di connettere per
trasformare. Per questo deve imprescindibilmente attraversare
l'esperienza della propria trasformazione personale che in linea
generale implica, per prima cosa, la sua auto guarigione. E'
attraverso le esperienze limite che lo sciamano apprende l'arte di
curare, che in definitiva è sapere come trasformare la malattia,
vincere la morte e rigenerare la vita. Le sue facoltà lo dotano
della capacità di andare e venire dalla dimensione umana. In questo
modo il suo lavoro ruota permanentemente sulla dialettica morte e
rinascita, partendo da una visione cosmica in cui la morte non
comporta una fine definitiva, ma piuttosto un passaggio a un altro
stato di realtà. Uno dei principali poteri sciamanici è quello di
riuscire a curare sia malattie fisiche che disturbi dell'anima, tanto
che in molte culture, citando un esempio presentato più sopra, tra
gli indiani delle praterie nordamericane, il termine che si utilizza
come sinonimo di sciamano è “medicine-man” o “medicine woman”,
che allude sia alla condizione di essere una persona di potere sia
alla conoscenza dei metodi di guarigione. Nell'attuale Perù si
chiamano anche curanderos o medico vegetalista, grazie alla profonda
conoscenza sulle applicazioni e proprietà delle piante sia
medicinali che psicoattive. E' interessante mettere in risalto che in
questo stesso contesto culturale le piante psicoattive, considerate
anche come piante maestre o di potere, sono genericamente designate
come “la medicina”.
Questa qualità terapeutica, che
lo sciamano esercita attraverso molti mezzi, è il risultato del suo
lungo e doloroso processo di apprendimento e auto-guarigione.
Per quanto concerne le
dimensioni di salute e malattia, esistono diverse tipologie di
diagnosi e di terapie utilizzate dagli sciamani a seconda
dell'origine del problema che devono trattare. I più comuni disturbi
sono: l’intrusione di spiriti malefici, aderenze o oggetti magici
nel corpo fisico o energetico della persona malata; la perdita
dell'anima, di parti di questa o di qualcuna di queste anime, dato
che, tra gli indigeni, la persona può essere concepita come dotata
di varie anime; la rottura di un tabù o di qualche regola del
gruppo, nel qual caso il compito dello sciamano è ristabilire
l'ordine che è stato guastato o alterato dalla trasgressione; gli
incantesimi o stregonerie si considerano come azioni di un altro
sciamano stregone o mago che si dedica a fare del male, a volte per
sua iniziativa e altre volte su richiesta di altri che lo incaricano
di danneggiare persone.
Di solito le malattie vengono
concepite come qualcosa di concreto che affligge la persona e lo
sciamano deve intervenire anche praticamente; ma il suo intervento
opera sempre su più piani simultaneamente, non solo nel corpo
fisico, quanto piuttosto sul piano spirituale, mentale o, come
diremmo oggi, energetico.
La cornice concettuale nella
quale si concepiscono la salute e la malattia nella visione cosmica
sciamanica è multidimensionale e fondamentalmente spirituale.
Nonostante possa sussistere un agente esterno, un'aggressione, un
trauma o qualsiasi altro evento violento, la radice o causa più
profonda dei disturbi sta sempre in uno squilibrio o in una mancata
armonia delle forze. La vera causa della malattia è la perdita
dell'equilibrio. Per questo la terapia dello sciamano è chiaramente
un lavoro energetico, una ricerca costante per restituire equilibrio.
Questa è in definitiva l'essenza del lavoro sciamanico: assicurare
la comunicazione, il flusso dinamico delle energie, fisiche, mentali,
spirituali, attraverso il dialogo e la corrispondenza tra le forze o
gli spiriti che operano nei diversi piani o diverse realtà. Lo
studioso colombiano Carlos Pinzon, ha sostenuto, in numerosi
interventi che “Gli sciamani sono coscienti del fatto che noi siamo
energia fin da prima che esistesse la medicina bioenergetica. Sanno
che il pensiero è una forma di energia, che ciò che fa muovere i
circuiti del cuore e la circolazione sono forme di energia, che
l'espressione verbale è una forma di esistenza energetica. Questo lo
sapevano molto prima di noi. Gli sciamani sono specialisti in uno dei
sistemi più importanti che ha il corpo nella gestione dell'energia,
e cioè il sistema immunitario, che è quello che decide cosa deve
entrare e cosa no.”
In sintesi, anche nel caso delle
culture sciamaniche, a parere di chi scrive, è lampante la
correlazione stretta, in relazione a malattia e salute, tra aspetti
psicologici ed aspetti somatici ed anche in questo caso, come
accennato per le medicine asiatiche, un forte momento di integrazione
tra cultura medica occidentale e teorie e prassi terapeutiche di
altre culture, si trova, senza ombra di dubbio, nella pratica
sperimentale all'avanguardia e nella ricerca scientifica della PNEI.
Per concludere questa
carrellata, che non può essere esaustiva in toto a causa della forma
che deve assumere una trattazione di laurea, come nello specifico,
chi scrive, reputa di estremo interesse proporre uno spunto di
riflessione inerente il parallelismo tra culture che presentano a
tutt'oggi figure di sciamani ed il mondo occidentale dove, parrebbe,
non esistano più figure carismatiche legate alla cura ed al sacro.
Tuttavia, un legame stretto, si può certamente ritrovare tra lo
sciamano di altre culture e il medium, presente in considerevole
modo, in tutti i secoli ed oggi, nella cultura occidentale. Essendo
l'autore della presente trattazione un fervente ed appassionato
cultore della psicologia del profondo, analitica e del pensiero di
Carl Gustav Jung, non è sfuggito lo studio considerevole e
documentato, portato avanti dallo psichiatra e psicologo svizzero,
fin dalla tesi di laurea in medicina dal titolo “Psicologia e
patologia dei cosiddetti fenomeni occulti”, relativo ai processi
psichici che oggi potremmo definire transpersonali, processi che
possono essere considerati trait d'union tra sciamanesimo e
medianità. Come espresso chiaramente più sopra, almeno in linea
generale, secondo Mircea Eliade, lo sciamano è colui che, attraverso
un percorso iniziatico che prevede, al suo termine, una morte
simbolica seguita da una rinascita, ha raggiunto la possibilità di
dialogare con una realtà e con esseri sovrumani. Vogliamo ribadire
la concezione di Eliade, e nello specifico, riportare soprattutto gli
aspetti peculiari del rapporto tra sciamano e realtà sovrannaturale.
Lo Sciamano dunque, è un maestro dell'estasi perché può
padroneggiare tale stato e servirsene per raggiungere, ogni volta che
lo desideri, sia il mondo superiore degli dei, sia quello sotterraneo
degli spiriti e degli antenati. Grazie a questo suo peculiare
rapporto con le dimensioni ulteriori, e grazie agli insegnamenti che
da esse può trarre, egli svolge l'importante compito sociale di
guaritore, di consigliere, di indovino e di psicopompo oltre che,
spesso, quello di capo spirituale e di custode delle tradizioni della
propria comunità. In svariate culture umane, a tutt'oggi sono
presenti queste figure carismatiche e terapeutiche e solo nei paesi
cosiddetti occidentali esso sembrano scomparse da tempo. Meglio
sarebbe dire che in Occidente lo Sciamano si è trasformato, che ha
assunto nuove sembianze, un diverso modo di apparire. L'esasperato
razionalismo e tecnicismo che caratterizzano la nostra cultura,
insieme ad un rapporto della gente sempre più distaccato con la
natura, hanno emarginato da tempo quei solitari e molto particolari
personaggi che dovrebbero rappresentare il ricordo di un mondo
ancestrale nel quale lo sciamanesimo era una costante di vitale
importanza. Spesso, la nostra cultura e la nostra civiltà li hanno
contrastati, se non eliminati fisicamente. Secondo Bruno Severi,
cultore della materia, in Occidente, ma anche altrove, gli spiriti
guardiani dello sciamano e degli altri membri della comunità tribale
hanno preso le vesti dell'angelo custode. I rapporti con la
dimensione trascendente sono stati fatti propri dai sacerdoti delle
religione istituzionalizzate, che si sono presi pure l'incarico di
svolgere quelle cerimonie, i riti funebri che, prima di loro, gli
sciamani svolgevano per accompagnare agli inferi l'anima di chi era
appena deceduto. L'iniziazione, che gli sciamani dovevano affrontare
solo dopo essere passati attraverso difficili prove culminanti in una
morte e in una resurrezione rituali, trova un parallelo nel
sacramento del battesimo ( Eliade, 1954; 1984). Anche l'esorcismo,
praticato ancor oggi nell'ambito della Chiesa cattolica, vede un
preciso equivalente in uno dei compiti più tipici dello sciamano:
quello di liberare, in chi ne è posseduto, dagli spiriti maligni.
Qua e là per l'Europa assistiamo tuttora alla celebrazione di feste
e cerimonie che, pur rivestite di una cornice cristiana, sono di
chiare origini pagane e che tradiscono, in molti dei loro aspetti,
alcuni caratteri antichi tipici dello sciamanesimo (Eliade, 1954;
1984). Ogni iniziativa personalizzata per raggiungere
un'emancipazione spirituale al di fuori dell'ordine ecclesiastico
costituito è sempre stata, talora con estrema durezza, osteggiata
dai rappresentanti della Chiesa. Specialmente in passato, chi
solamente udiva voci, o parlava con esseri invisibili, o dava prova
di capacità che al giorno d'oggi definiremmo paranormali, o
riteneva, infine, di avere raggiunto, in qualche modo, verità
trascendentali non del tutto ortodosse, veniva, con i dovuti modi,
ridotto alla ragione o alla pace perpetua. La stessa caccia alle
streghe di alcuni secoli fa è stata interpretata come un tentativo
fatto dalla Chiesa per eliminare, una volta per tutte, ogni residuo
di riti e pratiche arcaiche e pagane che si sovrapponevano e si
mescolavano alle ritualità cristiane (Eliade, 1984). Probabilmente,
tra questi sciagurati figuravano anche gli eredi di quel mondo
sciamanico che ha rappresentato, ed in parte rappresenta tuttora, un
modo istintivo e personale di confrontarsi con una realtà che ci
trascende. La figura del medium compare anch'essa in tempi molto
antichi e raggiunge, ad un certo momento e presso le maggiori
civiltà, una funzione sociale molto importante.
Severi, in molti suoi scritti,
sostiene che il medium fosse quella persona prescelta dagli spiriti
o dagli dei per comunicare agli abitanti di questo mondo i loro
messaggi (profani, spirituali e profetici). Questo compito implica
che il medium sia letteralmente posseduto da queste entità
soprannaturali che, una volta penetrati in lui, usano il suo corpo e
la sua voce per far conoscere i loro pensieri o per rispondere alle
domande che vengono poste. Il medium è realmente un mezzo, uno
strumento e, in quanto tale, è in genere inconsapevole durante la
sua trance di ciò che avviene e di ciò che è comunicato (trance
di possessione con incoscienza e successiva amnesia spesso totale).
Al contrario, i veri sciamani,
dopo avere percorso il loro lungo cammino iniziatico, hanno imparato
a produrre ed a controllare la propria trance e ad entrare in nuove
dimensioni, a convivere con entità benevole o non, a trattare con
forze estranee alla nostra usuale esperienza fenomenica. Essendosi
lasciati simbolicamente morire nel corso del loro processo
iniziatico, gli sciamani sono
nati ad una nuova vita
all’interno della quale sanno padroneggiare con tecniche
appropriate i misteri e le forze di questo nuovo mondo e dialogare
con essi avendo superato ogni paura. Sono gli intermediari tra questo
ed un altro piano esistenziale.
Un altro studioso, interessato
al rapporto sciamano-medium-guarigione, Pierangelo Garzia (1993), in
accordo con altri ricercatori (Bourguignon, 1979; Eliade, 1974,
etc.), ha proposto l'ipotesi che gli sciamani presentino un
atteggiamento attivo nei confronti delle loro esperienze, a cui si
contrappone un atteggiamento passivo da parte dei medium. Per i primi
c'è il conforto di una luce di conoscenza che li guida e li
consiglia; per i secondi questo conforto è in genere assente ed essi
subiscono passivamente esperienze che li trascendono e li trascinano
come foglie al vento. Severi sostiene, inoltre, che i medium
sarebbero, in definitiva, strumenti tenuti in mano da forze che
albergano in altre dimensioni, anziché essere loro stessi chi sa
padroneggiarle.
Tuttavia vi sono anche
autorevoli voci, provenienti dalla comunità scientifica, che
sostengono che tra le due figure in questione vi si una stretta
parentela, come il noto parapsicologo John Beloff (1979), che,
parlando di spiritismo, ha affermato: "La sua idea fondamentale,
quella della comunicazione con gli spiriti dei defunti, sgorga da una
venerabile tradizione occulta: gli sciamani e gli stregoni furono i
predecessori dei medium". Lo stesso Mircea Eliade (1974), ci
descrive alcune popolazioni presso le quali la vera tradizione
sciamanica sembra in buona parte decaduta ed è stata gradatamente
sostituita da manifestazioni con caratteri più spiccatamente
medianici.
Abbiamo voluto proporre queste
analisi finali su cura, sciamanesimo e medianità , oltre che per
l'indubbio interesse scientifico, anche perché certi che
l'Occidente tecnologico e razionale pur avendo negato o rimosso la
propria anima ancestrale, simile a quella di tutte le altre culture
umane, abbia visto e veda innervarsi tutt'ora, nelle proprie
produzioni scientifiche e culturali, input, idee, suggestioni ed
ipotesi, che fanno parte del patrimonio collettivo dell'umanità, dei
vissuti sacri ed arcaici, di quello che Carl Gustav Jung chiamerebbe
inconscio collettivo,
senza ombra di dubbio, capaci di arricchire le proposte culturali e
le intuizioni geniali della scienza, medica e non, per come l'abbiamo
conosciuta e la conosciamo oggi.
CAPITOLO IV
GRANDI MALATTIE
1.4 ANTICHITA', MEDIOEVO E RINASCIMENTO
Dopo
aver trattato lo sviluppo del concetto di malattia nel mondo
occidentale, sviluppo andato articolandosi a partire dalla sfera del
sacro e poi giunto alle rivoluzioni scientifiche, al metodo
sperimentale e alla medicina dell'evidenza di base, e dopo aver
presentato, seppur per sommi capi, l'evoluzione di alcune teorie e di
alcune prassi mediche di altre culture, vogliamo, con questo capitolo
finale, proporre un excursus storico, medico ed antropologico, sulle
grandi patologie epidemiche della storia e sui diversi metodi e
diverse concezioni di approccio ai problemi. Chi scrive ha
appositamente scelto di voler riflettere, utilizzando come filo
conduttore di questo ultimo capitolo il prezioso saggio di Giorgio
Cosmacini dal titolo “ Le spade di Damocle – Paure e malattie
nella storia.”, sulle grandi emergenze sanitarie legate
all'innescarsi di patologie epidemiche di vasta portata, sia in
Occidente che in altre culture, perché consapevole che il
coinvolgimento di considerevoli gruppi sociali e della trasversalità
dell'azione devastatrice delle malattie sicuramente possono dare la
giusta misura, e così fungere da lente di ingrandimento, su come,
nel corso dei secoli, le comunità umane hanno reagito a morte e
sofferenza. Il macro-fenomeno dell'epidemia di una qualche patologia,
sincronico e diacronico, amplifica, in ultima analisi, tutti i
micro-fenomeni, sincronici e diacronici, culturali e scientifici, che
lo compongono, e risulta, così, interessante per lo studio e
l'approfondimento antropologico.
Diverse
discipline scientifiche e di ricerca si sono orientate verso lo
studio dell'innescarsi delle grandi patologie nei secoli, la
paleopatologia, che, grazie ai contributi di archeologia ed anatomia
patologica, ha consentito di recuperare dati e testimonianze di
enorme utilità, l'epidemiologia, disciplina di sintesi, che studia,
da un punto di vista biomedico, la distribuzione e la frequenza di
eventi patologici in una popolazione, l'antropologia medica, la
medicina sociale e di comunità e così via.
Grazie
ai contributi, agli studi e alle ricerche di queste discipline, oggi
il patrimonio di conoscenze, relativo alle grandi epidemie del
passato e a quelle odierne e all'elaborazione scientifica e
culturale, sulla malattia e sulla cura, da parte dei gruppi umani, è
giunto a livelli veramente imponenti. Tuttavia, il panorama
antropologico rimane complesso e di impegnativa lettura.
Tra
le prime patologie di forte impatto sociale e sanitario che colpirono
le comunità umane all'inizio e nel corso della storia dell'uomo,
troviamo la lebbra e la peste.
Già
le antiche civiltà sorte intorno al bacino del Mediterraneo e
nell'area mediorientale conoscevano una malattia devastante come la
lebbra, patologia infettiva a carico del sistema nervoso e dell'
apparato cutaneo il cui agente infettivo, il Mycobacterium
leprae,
fu scoperto solamente nel 1871 da Gerhard Hansen ( 1841-1912). Di
origine antichissima, la lebbra, fin da epoche ancestrali veniva
assimilata a diverse patologie cutanee. Appariva una malattia
misteriosa o sacra – elephas
sacer
– che nella sua forma classica copriva il corpo di piaghe, attutiva
la sensibilità, alterava la fisioniomia, faceva cadere a pezzi le
dita delle mani e dei piedi. Una malattia cosiffatta, dove
l'anestesia delle parti era tale che il malato poteva bruciarsi un
arto senza accorgersene, non poteva non apparire carica di mistero e
con origine sovrannaturale70.
Fin
dall'antichità, gli studiosi, non solo occidentali, erano a
conoscenza del fatto che in ampie aree delle terre allora conosciute,
come la Mesopotamia, la Fenicia, l'India e la Cina la patologia era
anche di natura endemica e, probabilmente, furono queste le zone del
pianeta da cui si diffusero i contagi descritti nelle opere di uomini
di scienza dell'antichità classica.
A
partire dal VI° secolo, la lebbra era da considerarsi stabilmente
insediata nell'Europa occidentale e alla fine del primo millennio
dell'era cristiana, il controllo sociale della malattia era affidato
ad un complesso di leggi emanate ed aggiustate via via. Da un punto
di vista clinico e terapeutico, diverse furono le prescrizioni e le
prassi adottate, il tocco delle parti veniva evitato, il contatto era
pericoloso, il contagio in agguato. In uso era la prova
dell'anestesia che consisteva nell'infiggere un lungo spillone nelle
zone di cute maculata o piagata, onde cimentarne la sensibilità che,
in caso di lebbra, era ridotta o inesistente71.
A
partire dal Medioevo, i malati di lebbra, vennero confinati sempre
più in luoghi adibiti alla segregazione istituzionalizzata, i
lebbrosari, che divennero vere e proprie comunità che si
auto-organizzavano in ogni minimo dettaglio del vivere quotidiano.
Altra
consistente patologia infettiva, conosciuta fin dall'antichità e
documentata già in diversi libri sacri delle principali religioni, è
la peste. Causata dal microrganismo, scoperto alla fine del XIX°
secolo dallo scienziato Alexandre Yersin (1863-1943), e chiamato
Yersinia
pestis,
la peste si diffonde nell'organismo, contagiato da organismi
parassiti degli animali, attraverso le vie linfonodali ed il sangue,
trasmettendosi direttamente da uomo a uomo a causa dell'espettorato
dovuto a tosse.
Tra
le prime grandi culture antiche, dove vengono descritte epidemie di
peste, troviamo, oltre alla civiltà greca e a quella egizia,
sicuramente la civiltà ebraica ed è nei testi sacri del popolo
eletto che ritornano, in modo consistente, le descrizioni del
tremendo flagello, delle morti e della distruzione portata dalla
patologia, vissuta come punizione divina.
Numerose
sono le descrizioni nell'Antico Testamento, di grandi morie di
popolazione a causa di pestilenze interpretate come momenti legati
alla collera divina, ed il quadro epidemiologico della peste,
caratterizzato da topi, bubboni, terrore e strage, si arricchisce da
descrizioni dettagliate di decorsi fulminanti72.
Decisamente
famosa, per la comunità di studiosi, rimane però l'epidemia
conosciuta come peste
di Atene,
del 430 a.C., magistralmente descritta da Tucidide ( ca. 460-395
a.C.) e da Lucrezio (98-55 a.C.). Scrive Tucidide: “LA peste
cominciò in Etiopia, sopra l'Egitto, poi sorse anche in Egitto ed in
Libia. Il corpo malato, a toccarsi esteriormente non era né troppo
caldo né pallido, ma rossastro, livido, fiorito di piccole pustole
ed ulcere […..] la maggior parte morivano dopo nove o sette giorni
per l'ardore interno, ancora in possesso di qualche forza; oppure, se
scampavano, con lo scendere della malattia negli intestini e con il
prodursi di una forte ulcerazione ed il sopraggiungere di una diarrea
violenta, i più morivano in seguito, sfiniti per questa ragione.”73.
Il
quadro descritto, però, farebbe pensare più ad altre patologie
ionfettive come il tifo
esantematico o petecchiale,
anche se, pur con le incertezze manifestate, gli scritti di Tucidide
rimangono esemplari per l'approfondimento e per la lucida capacità
descrittiva.
Le
malattie pestilenziali come quella di Atene, venivano importate
nell'area mediterranea dai sub-continenti arabo-etiopico, indiano,
cinese tramite i porti mediorientali. Un equilibrio microbiotico
sensibile veniva periodicamente cimentato e reso precario dagli
spostamenti di truppe e dai traffici, scambiatori di merci e di
malattie74.
Contribuivano all'esplosione delle grandi epidemie dell'antichità,
le scarse condizioni igieniche, le consistenti interazioni
commerciali e sociali, il clima, le guerre, le carestie. Fin da
subito, possiamo dire, che il macro-panorama eziopatogenetico delle
varie patologie, nello specifico, delle malattie infettive, si è
costruito su una complessità e su una multiformità di elementi
interagenti tra loro con correlazioni spesso invisibili ma foriere di
morte e distruzione. Nel IV° secolo dopo Cristo, un'ennesima
epidemia di peste scoppiò a Costantinopoli, probabilmente
un'esacerbazione delle precedenti epidemie, portando con sé morte e
devastazione, dall'Asia minore all'Italia, ai paesi limitrofi. Il
grande Paolo Diacono, nella sua Hiostoria
Longobardorum,
traccia una panoramica dettagliata ed approfondita: “ […]
cominciavano a nascere negli inguini degli uomini ed in altre parti
molto delicate, delle ghiandole grosse come noci o datteri, cui
seguiva un ardore febbrile intollerabile, sicché, in tre giorni,
l'uomo moriva.”75.
La
classe medica, all'epoca, aveva ben pochi rimedi per far fronte al
potere devastante della peste, e, salvo sperimentazioni terapeutiche
di vario genere e di dubbia utilità, il consiglio principale che
poteva dare alla popolazione era il cito,
longe,
tarde,
ossia fuggi,
va lontano, torna più tardi che puoi.
L'esempio
storico forse più consistente di devastazione e morte, legato ad
un'epidemia di peste, rimane però quello della “atra mors”, la
peste nera del 1300. Epidemia deflagrata in un'epoca di grandi
cambiamenti sociali ed economici, che vedeva l'Europa attraversata da
fermenti culturali di svariata natura, quella della peste nera
produceva una morte inevitabile, repentina che fulminava gli
individui ed ancora una morte collettiva, di massa, che fulminava la
società76.
Ed è proprio l'enorme numero di vittime, che vennero falcidiate
dall'atra
mors,a
rendere questa epidemia una delle più terribili della storia. La
disgrazia collettiva è un crollo demografico, anzitutto italiano.
Muore oltre il 30 per cento degli abitanti di Genova, Pisa, Venezia.
Poi quasi tutte le zone d'Italia vengono colpite, da nord a sud, ed è
proprio dal porto di Messina che inizia a diffondersi il contagio, a
causa di navi genovesi che giungono dalla Crimea con a bordo i topi
che porteranno il fatale parassita, vettore della patologia
infettiva. Dall'Italia la peste inizia a diffondersi in tutta Europa,
Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna. La classe medica dell'epoca
ancora non è in grado di definire bene cause e terapie per la peste,
e non riponeva attenzione al fatto che potesse essere portata da
pulci e topi, elementi questi, presenti in continuazione nel
metabolismo cittadino in continuo svolgimento tra magazzini e
cloache, tra granai e canali di scolo, tra approvvigionamento di cibo
e smaltimento di rifuti77.
Tuttavia,
tra le innumerevoli teorie mediche dell'epoca, si fece strada sempre
più l'idea che causa della pestilenza fosse dovuta al mal
aere,
ipotesi che si accordava pienamente con l'impostazione
ippocratico-galenica dell'epoca.
Un
aere corrotto pensato anche come corruttore, propiziato da eclissi e
comete, da primavere piovose e da estati nebbiose. Un mal
aere sparso
dappertutto, come sparsa dappertutto, diffusa ed epidemica era la
peste78.
Tuttavia
la scienza medica si trova spesso impotente verso una patologia
infettiva di una violenza inaudita che colpisce soprattutto ambienti
urbani affollati e porti commerciali dove le norme igieniche basilari
erano assenti. La peste non discrimina tra ricchi e poveri, tra
iponutriti ed ipernutriti, ma si comporta come un puro accidente
biologico colpendo la totalità del corpo sociale grazie ad una forma
di contagio assoluto che porterà allo sviluppo di una teoria nuova,
portavoce della quale sarà il medico veronese Gerolamo Fracastoro
esperto de
contagione et contagiosis morbis79.
Per
il Fracastoro, non più, quindi, l'eziologia della peste sarà da
ricercarsi nell'aria insana in toto, ma in ciò che conduce l'aria
malata, ossia in un veleno, un
virus,
conosciuto anche come seme.
I fracastoriani semi
di pestilenza
sono agenti materiali infinitesimi provenienti dalla materia alterata
delle parti malate , indirizzati ad un bersaglio80.
Dal
Trecento al Seicento si configura il caso dell'Italia come quello di
una geografia umana posta al centro di un mare epidemico, il
Mediterraneo, favorita dagli scambi dei traffici, dall'andare e
venire degli eserciti, dalle penurie e fragilità concomitanti alle
guerre. Quella italiana è una società aperta ai commerci, alle
invasioni, alla libertà di ammalarsi81.
Dopo la peste del 1300, ulteriori epidemie colpiranno, nei secoli,
l'Europa, con svariati esiti infausti, e sarà solo nel XVIII°
secolo che improvvisamente le epidemie pestilenziali scompariranno
dal suolo europeo. Gli studiosi hanno proposto alcune ipotesi molto
interessanti legate alla cessazione della peste nel 1700, non da
ultima l'idea che l'attenzione agli aspetti igienici di base,
divenuta sempre più consistente, abbia portato ad una limitazione
drastica del contagio, oppure, altra ipotesi altrettanto
interessante, all'evoluzione di difese immunitarie specifiche da
parte degli organismi umani nel corso dei secoli che avrebbero
consentito un immunizzazione di base contro gli agenti eziologici
della tremenda patologia pestilenziale.
In
ultima analisi, dopo lebbra e peste, chi scrive, vuole proporre
alcune riflessioni su un'altra grande patologia epidemica che
investì, in modo considerevole, i paesi europei a partire
probabilmente dall'epoca rinascimentale: la sifilide, causata da un
batterio, il Treponema
pallidum,
che
si presenta al microscopio come un piccolo filamento a forma di
spirale, identificato nel 1905
da
Fritz Schaudinn ed Erich Hoffmann.
Verso
la fine del 1400, diversi medici documentarono l'apparire di una
forma di infezione e di contagio che: “ […] provocava diverse
pustole in faccia e su tutto il corpo, le quali cominciavano
generalmente fuori o dentro il prepuzio, oppure sopra il glande con
prurito al paziente. Talvolta principiava una sola pustola, a mo di
vescichetta, non dolente ma pruriginosa; grattavano, onde si formava
un'ulcera come per un tarlo rodente e dopo pochi giorni andavano
incontro a sofferenze per dolori alle braccia, alle gambe, ai piedi,
con diffusa pustolazione.”82.
La
patologia, definita fin da subito mal
franzese dagli
italiani e mal
de Naples
dai francesi, sconosciuta fino all'epoca, sembrerebbe fosse stata
importata grazie alle scoperte geografiche e ai grandi viaggi del
finire del XV° secolo , in special modo, gli studiosi ritengono
probabile che derivi proprio dai contatti avvenuti tra europei e
popolazioni precolombiane.
Fin
quasi da subito si comprende come, la sifilide, sia strettamente
legata alla sfera della sessualità, e come proprio i rapporti
sessuali siano i veicoli del contagio. Un contagio che si diffonde a
macchia d'olio in tutte le terre fino allora conosciute, grazie alla
mobilità esasperata di marinai, soldati e prostitute.
La
nuova malattia, contagiosa e dilagante, conosciuta come patologia
venerea (da Venere), è caratterizzata da un esordio acuto (sifiloma
genitale con linfoadenite inguinale satellite) e da pustolazione
susseguente generalizzata. Il decorso è subacuto, l'esito spesso
letale. In seguito, per il mutare dei rapporti fra virulenza
aggressiva e difese organiche, il decorso si protrarrà, portando
all'emergere di manifestazioni tardive83.
Nuovamente,
la medicina dell'epoca, si trova impreparata ad affrontare, dal punto
di vista pratico, il diffondersi della malattia venerea. Se da
un'angolazione teorica permangono nella comunità scientifica le
vetuste teorie di matrice ippocratico-galenica legate all'ipotesi del
mal
aere,
contrapposte alle più innovative ipotesi inerenti l'idea del
contagio,
a fare da cornice a qualsivoglia spiegazione eziologia e clinica,
c'è da dire che la prassi terapeutica, pur con i molti tentativi di
sperimentazione in varie direzioni, è talmente variegata e complessa
da ottenere meramente effetti lenitivi e non curativi. Dal canto suo,
la religione, associando la sifilide agli aspetti più truci del
peccato carnale, tentò, operando da un punto di vista morale, di
limitare la diffusione del male, portando avanti una sorta di
prevenzione ante-litteram.
Diversi
medici del tempo, inoltre, osservarono che la patologia venerea era
più complessa e variegata di quanto si pensasse e che, insieme alla
sifilide emergevano ulteriori malattie di natura sessuale, come la
gonorrea ed altre ulcerazioni disparate. Con il modificarsi nel tempo
dei rapporti tra la virulenza del morbo e le resistenze degli
organismi, la malattia, inoltre, tende oltreché a definirsi, a
presentarsi endemica, anziché epidemica, e a decorrere cronica,
anziché acuta e spesso rapidamente mortale84.
Tuttavia,
poco per volta, i medici e la comunità scientifica dell'epoca,
riuscirono, grazie all'osservazione accurata e a primi interessanti
tentativi di sistematizzazione dei dati e sperimentazione mirata,
prassi che sfoceranno poi nella Rivoluzione scientifica, a definire e
diagnosticare in modo accurato la patologia. Nel lento mutare del
quadro biologico, epidemiologico e clinico di riferimento, la scienza
medica incomincia a guardare all'ulcerazione dura dei genitali
esterni come alla manifestazione primaria
di un processo morboso evolutivo a tre stadi, del quale la
pustolazione cutanea rappresenta la fase secondaria
e
le tuberosità dure e gommose, la fase terziaria85.
Sarà
Fracastoro, medico innovatore e fervente ricercatore, ad imporre il
nome di sifilide e a descrivere in modo dettagliato la patologia ed
il suo progredire. Per molto tempo la terapia del male venereo
consisterà in forti somministrazioni di mercurio e guaiaco e sarà
solo in tempi molto vicini a noi che, con la rivoluzione
farmacologica della scienza moderna, si troveranno le soluzioni per
curare questa ed altre gravose malattie.
Per
concludere questa breve panoramica su tre importanti e dilaganti
patologie infettive che, nel corso dei secoli fecero strage di
milioni di vite umane e misero a dura prova la scienza medica e la
prassi terapeutica, vogliamo spendere una riflessione sull'impatto
sociale e psicologico degli eventi devastanti causati dalle epidemie.
Le tre grandi malattie trattate, lebbra, peste e sifilide, sono state
evenienze naturali e sociali di grande rilevanza – biologica,
psicologica, demografica, economica – e rappresentano tre modelli
fobico-genetici, o ad alto tasso ansiogeno anche a causa della loro
forte imprevedibilità86.
Alle
patologie epidemiche sono state associate diverse paure come la paura
dell'isolamento dagli altri membri della comunità in luoghi chiusi,
inaccessibili, dove la contenzione era l'unica proposta terapeutica
valida, la paura della morte fisica, con il carico di sofferenza
somatica e psicologica che si trascinava, la paura della morte
morale, associata all'idea religiosa di peccato e alle immagini
dell'inferno.
Come
si può notare allora, in ultima analisi, i macro-fenomeni delle
grandi epidemie, risultano complessi e interrelati, ed una lettura
antropologica e scientifica nell'ottica dei paradigmi sistemico,
della complessità ed olistico, risulta d'obbligo per tentare di
capire ed interpretare la pluridimensionalità fortemente dinamica
degli eventi patologici, che si sono dimostrati eventi causali e
causanti, dal sistema biologico al sistema psicologico, dal sistema
comunitario al sistema sociale, dal sistema politico al sistema
economico.
2.4 ETA' MODERNA E CONTEMPORANEA
Dopo
aver affrontato, per sommi capi, le grandi epidemie, dall'età antica
al Rinascimento, ci avviamo a presentare alcune patologie che hanno
colpito in maniera consistente, le comunità umane nell'età moderna.
A tutt'oggi vi sono molti esempi di malattie infettive che,
ciclicamente, producono morte e distruzione e che incidono in modo
importante su svariati piani, sanitario, psicologico, economico e
sociale, coinvolgendo, come visto in precedenza, diversi sistemi e
sottosistemi che compongono la rete di relazioni umane di cui è
fatta la vita.
Il
termine peste
era andato, nel corso dei secoli, denotando una vasto insieme di
patologie accomunate dagli esiti infausti, ma che, all'attenta
osservazione clinica si differenziavano per segni e sintomi. Se peste
era ogni epidemia ad alto tasso di mortalità, peste
bubbonica
era quella con i bubboni, peste
catarrale
o polmonare era quella con catarro e con sputi sanguigni, peste
nervosa
quella con perdita di conoscenza e convulsioni, peste
anginosa
quella con fauci infiammate e piagate, peste
degli ardenti,
quella detta anche ignis
sacer87.
Spesso
anche il tifo
petecchiale,
patologia il cui agente causale è la Rickettsia prowazekii che causa
macchie cutanee dette petecchie, è stato inserito a pieno titolo
nelle pestilenze della storia. A differenza della peste vera e
propria, causata da pulci, il tifo petecchiale è causato da
pidocchi, organismi legati strettamente a scarsa igiene personale ed
ambientale. Così gli ambienti dove maggiormente si innescavano le
epidemie di tifo, erano gli ambienti militari, i porti, le città,
dove le elementari norme igieniche preventive erano completamente
disattese. La fame, inoltre, con il suo corteo di denutrizione ed
impoverimento delle difese organiche, era propizia quanto la pessima
igiene all'insorgenza del tifo88.
Assieme
al tifo, altre malattie, cosiddette esantematiche,
dalla parola esantema che significa “efflorescenza”, nel corso
dei secoli, provocarono morte e sofferenza come morbillo, rosolia e
scarlattina, soprattutto in età infantile.
Patologie
infettive che, grazie ai consistenti traffici e alle grandi scoperte
geografiche dell'età moderna, si diffondevano da una sponda
all'altra dell'Oceano in un batter d'occhio.
La
comunità medica, con il passare dei secoli, influenzata dalla
Rivoluzione scientifica, dal metodo sperimentale e dalle innumerevoli
possibilità date da osservazione, clinica e prassi terapeutica, si
prodigò in più direzioni per il progresso medico, non da ultime,
ampliando le ipotesi teoriche ed anatomo-cliniche. Venne a cadere
quasi del tutto l'ipotesi dell'influenza astrale e del mal aere e
causa di malattia sono ormai “gruppi pestilenziali” o
agglomerati “semi di pestilenza”, “applicati dalla natura con
artificio chimico” e “condensati da forze di ordine fisico”89.
Insieme alle evoluzioni teoriche generali della scienza medica,
presero campo anche la sensibilità marcata sulle condizioni
socio-economiche delle popolazioni, e, soprattutto, la sensibilità
legata agli aspetti igienici che divennero, poco alla volta, sempre
più importanti nell'ottica della prevenzione e della cura.
Nel
corso del XVII°secolo e del XVIII° secolo, un'altra grande epidemia
scosse le comunità umane, soprattutto in area europea, causata
dalla malattia del vaiolo.
Patologia
esantematica innescata dal virus Orthopoxvirus,
da sempre esistita e documentata anche nell'antichità, come scrive
dettagliatamente il medico islamico Rhazes già nel X° secolo:
“L'eruzione del vaiolo è preceduta da una febbre continua, dolori
alla schiena, pizzicare al naso e delirio nel sonno. Si esacerba poi
un prurito che il malato accusa in tutto il corpo e un violento
rossore investe le guance, mentre gli occhi sono iniettati di sangue
ed infiammati [...] Quando si vedono erompere le pustole bisogna
sorvegliare attentamente gli occhi […] Tali pustole sono molto
piccole e di colore biancastro, contigue l'una all'altra, di
conseguenza dure.”90.
Sarà
il medico inglese Sydenham, diversi secoli dopo, ad interessarsi in
modo specialistico alla patologia, proponendo una terapia mirata,
soprattutto per l'infanzia, fascia d'età più colpita. La prassi
terapeutica di Sydenham utilizzava l'abbassamento della temperatura
corporea e la reidratazione ed all'epoca, ottenne più successi
terapeutici di altri medici che procedevano in modo contrario con
innalzamento della temperatura. Il flagello universalmente
distruttivo e degradante uccideva e deturpava di cicatrici il volto.
Se colpiva le palpebre e la congiuntiva, rendeva ciechi91.
Come
qualsiasi epidemia di grande portata, anche il vaiolo, colpiva
indiscriminatamente ricchi e poveri, classi agiate e classi meno
abbienti, e sarà solo durante il periodo illuminista che la comunità
scientifica ed il mondo politico si attiveranno per prevenire e
curare malattie devastanti, anche sotto l'aspetto igienico-sociale ed
economico, e sarà a partire dal XVIII° secolo che, grazie alle
intuizioni e alle sperimentazioni di medici e ricercatori, si opererà
sempre più verso trattamenti preventivi come le vaccinazioni.
Nel
più recente passato l'eliminazione dal pianeta del virus del vaiolo,
identificato al microscopio elettronico negli anni Trenta del
Novecento, è stata ottenuta grazie alla diffusione mondiale della
vaccinazione e nel maggio del 1980, l' Organizzazione mondiale della
sanità, ha dichiarato ufficialmente che il vaiolo risulta
globalmente eradicato92.
Con
l'utilizzo della prassi della immunizzazione da vaccinazione fatta
dal medico britannico Edward Jenner (1749-1823), che sperimentò sul
vaiolo la sua importante e fondamentale scoperta, enormi passi avanti
furono fatti dalla comunità medica nello sviluppo di prevenzione e
terapia. Tuttavia, nel corso del XIX° secolo, un'ennesima devastante
epidemia colpì l'Occidente, questa volta a causa del colera.
L'agente causale di questa patologia fortemente debilitante è il
bacillo conosciuto come Vibrio
cholerae che
provoca nell'ammalato la necrotizzazione della mucosa intestinale
producendo una disidratazione consistente ed una debilitazione letale
per tutto l'organismo. Approfondite e dettagliate furono le prime
descrizioni della patologia epidemica da parte di medici e studiosi:
il quadro del morbo è sempre impressionante, in pieno benessere,
l'individuo “viene assalito subitamente da prostrazione di forze,
vertigini e brividi.”. “Seguono quasi immediatamente il vomito e
la diarrea.”, la considerevole disidratazione produce ispessimento
del sangue e collasso cardiaco. Sul volto è stampata la facies
cholerica, la
maschera della morte93.
Diffusosi
in Occidente a partire dalle aree asiatiche, il colera colpirà
dapprima le periferie ed i quartieri malfamati delle grandi città
europee, fino a diffondersi a macchia d'olio. Dal Meridione al
Settentrione il tasso di letalità si impennò nei quartieri urbani
intersecati da strade disselciate, percorse da rigagnoli
maleodoranti, sulle quali si riversavano le immondizie e si
ammonticchiavano i cumuli di letame94.
A
partire dai pozzi d'acqua, da cui si approvvigionavano quartieri
interi di grosse città, la patologia colerica si diffonderà a causa
della scarsissima igiene e dell'inquinamento organico urbano.
Le
classi più abbienti e colte riuscivano, in qualche maniera, a fare
fronte all'epidemia, avendo, nel corso dei secoli, acquisito
culturalmente alcune regole preventive di base, mentre le classi più
povere, emarginate e prive di strumenti verranno duramente colpite
dal diffondersi della malattia. Anche questo divario darà manforte
ad idee di rivalsa in campo economico-sociale, intrecciando sempre
più i già forti legami tra salute individuale e condizioni globali
di vita.
Per
quasi tutto il XIX° secolo, l'idea dell'igiene e della sanità
pubblica, saranno portate avanti da alcuni pionieri in ambito
sanitario. In Germania Max von Pettenkofer (1818-1901), nel 1872
fondatore a Monaco di Baviera del primo Istituto di igiene
sperimentale in Europa, fortemente convinto che fosse l'ambiente
malsano la principale causa di ammorbamento della “salute delle
città”, vedeva il colera come una malattia causata dalla
commistione nel suolo urbano tra le acque luride e le acque potabili
e non credeva ancora all'importanza dei microrganismi portatori del
contagio. Ma Robert Koch (1843-1910), nell'Istituto superiore di
sanità da lui diretto a Berlino, identificò nel 1882, al
microscopio il bacillo del colera. Fu l'inizio della rivoluzione
batteriologica95.
Tuttavia,
almeno durante le prime fasi della grande epidemia europea di colera,
saranno le idee legate al complessivo miglioramento igienico a
prevalere rispetto alle ipotesi microbiologiche, dando nuovi impulsi
di cambiamento sociale, economico e politico. Estinto in Europa dal
1923, per il generale miglioramento delle condizioni
economico-sanitarie, il colera ha fatto inaspettatamente ritorno in
Italia nel 197396.
Come
abbiamo visto, a grandi linee, a partire dalle rivoluzioni culturali
proposte dall'Illuminismo nel XVIII° secolo, sempre più
l'attenzione di scienziati e medici si è rivolta anche alle cause
economico-sociali, se non come fattori scatenanti in senso specifico
di svariate patologie, come fattori almeno predisponenti. Miseria,
carestie, carenze igieniche, scarso livello di istruzione e fame sono
entrati a far parte, dal lato sociale, insieme a virus, batteri ed
altri microrganismi, dal lato biologico, e a prostrazione, senso di
sconfitta, demotivazione, dal lato psicologico, nel corposo panorama
proposto da una lettura eziologica che ha fatto della complessità e
dell'ottica sistemica dei paradigmi di riferimento.
Così
stante le cose, ulteriori patologie sono state lette grazie alla
complessità che fonda il vivere, patologie carenziali, come la
pellagra,
causata da carenza sostanziale di vitamine dovuta a fame cronica,
trasformata ben presto da denutrizione in malnutrizione97,
l'astenia
cronica
e il rachitismo,
malattie che colpivano considerevolmente le popolazioni povere e
malnutrite anche e soprattutto nell'Italia postunitaria.
Anche
la malaria,
causata dal Plasmodium
falciparum,
microrganismo parassita delle zanzare anopheles, patologia che
provoca febbri e prostrazione, a lungo fu considerata malattia dei
poveri. Patologia antichissima, fu l'Italia a detenere il triste
primato di morti e contagio nel bacino del Mediterraneo tanto da
essere considerata “malattia italiana”98.
Per
secoli, la sola ipotesi eziologica inerente lo scatenarsi della
malaria, fu quella ambientalista che proponeva le insalubri pianure
italiane come causa della patologia e solo nel 1881 lo scienziato
Charles-Louis Laveran (1845-1922) scoprì nei globuli rossi dei
soggetti malarici il parassita che causava la malattia.
Grazie
ad un consistente sforzo dell'Italia post-unitaria, importanti
risultati sanitari si ebbero, oltre che con la riorganizzazione del
sistema sanitario e con la bonificazione delle aree insalubri, anche
con l'introduzione e l'utilizzo del chinino che, dal 1901, verrà
distribuito gratuitamente ai malarici poveri, diventando il moderno
progenitore dei moderni ed attuali antimalarici, efficaci contro la
malattia dal punto di vista sia terapeutico che profilattico99.
Veniamo
ora ad una patologia che, forse più di tutte quelle fin'ora
descritte, è entrata a far parte di un patrimonio di elaborazioni
culturali ed intellettuali poiché è assurta, nel corso dei secoli,
a simbolo, soprattutto in età romantica e decadente, di nobiltà,
arte, poesia, drammaticità del vivere e solitudine creativa, la
tubercolosi.
A parere di chi scrive risulta di grande interesse, dal punto di
vista antropologico e culturale, anche l'elaborazione intellettuale
costruita intorno alla patologia e, soprattutto, alla cura, in epoca
tardo ottocentesca e primo novecentesca; esempio sommo e
insuperabile, la descrizione dettagliatissima fatta da Thomas Mann
nel suo capolavoro “La montagna incantata”. Di notevole
interesse, crediamo, sia il forte legame intravisto dalle élite
culturali, tra una patologia somatica devastante, una predisposizione
psicologica all'introspezione e al nichilismo decadente, un percorso
di cura che tendeva ad isolare in piccole comunità ad in ambienti
particolarmente legati ad un immagine superomistica e la profonda
crisi della soggettività di impianto idealistico che, avendo
permeato il Romanticismo, stava transitando verso una rivoluzione
complessiva, ontologica, estetica ed etica a cavallo tra XIX°
secolo e XX° secolo.
Chi
scrive non nega che, in un percorso di ricerca e in un saggio che
intenderà produrre successivamente, sarebbe interessato a proporre
una riflessione sulla patologia tubercolare e sulla cura, anche in
relazione al proprio ambiente di provenienza, la montagna dolomitica,
che rimase per moltissimi anni, sede di sanatori e preventori,
nell'ottica della cura di alta montagna, unico rimedio, fino alle
scoperte più recenti, per la prevenzione e la terapia.
La
tubercolosi, dunque, il cui agente causale è il Mycobacterium
tubercolosis o
bacillo di Koch dal nome del suo scopritore nel 1882, è stata ed è
a tutt'oggi una patologia le cui conseguenze sono devastanti e legate
ad una forma di consunzione in relazione alle aree somatiche
coinvolte come, a titolo di esempio, l'apparato respiratorio oppure
l'apparato scheletrico.
La
tubercolosi, conosciuta anche come tisi o tabe, è malattia le cui
prime tracce storiche si perdono nella notte dei tempi e nei testi
medici delle più antiche civiltà – cinese, indiana, mesopotamica
– compare il riferimento a malattie destruenti, consumatrici di
uomini100.
Sicuramente già gli antichi avevano letto l'innescarsi della
malattia come legato anche a situazioni ambientali e lavorative
precarie, soprattutto, in quelle classi di lavoratori che venivano a
contatto con agenti tossici da inalazione. La storia sociale della
malattia vide la tubercolosi trasformarsi nel corso dei secoli e,
nell'Ottocento, diventare il “mal sottile” a lungo idealizzato
come esperienza di vita romantica entrando in letteratura e musica,
esempi sommi sono la Dame
aux camèlias di
Alexandre Dumas figlio o la Bohème
di Giacomo Puccini101.
Tuttavia
la malattia non colpiva solo esteti, nobili o poeti, ma era una vera
e propria piaga sociale per tutte le classi ed importanti medici e
scienziati dedicarono la loro ricerca e la loro opera alla patologia
tubercolare, come Xavier Bichat (1771-1802), che fermamente sosteneva
che la caverna scavata per consunzione nel tessuto polmonare appariva
come un processo bio-tanatologico di necro-biosi102.
Solo nel 1882, il medico Robert Koch, scoprirà il microrganismo
responsabile della malattia e la comunità scientifica si adoperò,
da allora, nella ricerca di possibili cure per eradicare
definitivamente la patologia, ma sarà nella seconda metà del
Novecento, però, che si troverà una soluzione grazie alla scoperta
di farmaci antibiotici come la streptomicina.
Ad
oggi, l' Organizzazione mondiale della sanità stima in oltre 7,5
milioni i casi di tubercolosi nel mondo, di cui 4,9 milioni tra il
Sud-Est asiatico e l'Ovest del Pacifico e di cui più di un milione
in Africa103.
Il
Novecento, insieme alla tubercolosi, ha visto numerose altre
patologie diffondersi e tuttavia, grazie all'affinamento di notevoli
tecniche preventive e terapeutiche ed al miglioramento complessivo,
almeno per il mondo Occidentale, della qualità della vita, vari sono
stati i traguardi raggiunti nella cura di malattie di varia natura
come poliomielite, malattie cardiocircolatorie, cancro e così via.
Risulta interessante notare come negli anni a noi vicini, grazie
all'innalzamento dell'età media e ai cambiamenti nella qualità di
vita, è emersa una tendenza alla cronicizzazione, quindi ad una
progressione nel lifetime, di varie patologie rispetto a forme in
acuto, più gravi e debilitanti ma meno protratte nel tempo, ed è
risultata prevalente la comparsa di patologie da ipernutrizione e da
stress, patologie che risultano, oggi più che mai, fortemente
correlate con gli aspetti ambientali e psico-sociali.
Per
chiudere questa panoramica sulle grandi patologie che hanno colpito
le comunità umane nel corso della storia, vogliamo ricordare una
vera e propria epidemia che ha devastato l'umanità nel corso degli
ultimi anni del XX° secolo e che ancora oggi non risulta estinta.
Intendiamo
parlare dell' AIDS,
o
sindrome da immunodeficienza acquisita, causata da un virus, l' HIV,
contratto per vie sessuali o per altre vie, che distrugge le difese
immunitarie, esponendo l'organismo all'attacco di ulteriori organismi
patogeni di varia natura.
Secondo
gli scienziati, esiste una protostoria della patologia che, dal
Nordamerica, dove sono emersi i primi casi, rimanda all'Africa, dove
il virus infettante esiste praticamente da sempre. Virus antico per
malattia moderna, figlia del nostro tempo, determinata dalla
trasformazione odierna dei modi di vivere, una trasformazione
selettiva che diventa una scelta obbligata degli agenti patogeni e
degli eventi morbosi conseguenti104.
Anche
la Sindrome da immunodeficienza acquisita, come tutte le grandi
epidemie della storia, non sfugge alle forti interazioni tra
biologia, psicologia e società. Il sangue e lo sperma sono i vettori
biologici del virus, ma il pluralismo sessuale, con il corollario
della prostituzione e l'uso della droga, con la correlata pratica del
bucarsi, sono i fattori sociali della malattia, come dimostra il
prevalere di questa nel sottoproletariato urbano dei super-sviluppati
paesi nord-occidentali e nelle moltitudini africane tragicamente
migranti, sospinte dalla siccità e dalla fame. Le malattie non sono
mai fenomeni solo naturali: anche l' AIDS non sfugge alla regola105.
Dopo
l'esplosione epidemica degli anni Ottanta e Novanta del Novecento,
apparentemente sembrerebbe che al giorno d'oggi vi sia punto o poco
traccia dell'AIDS, secondo un pericolosissimo gioco, a parere di chi
scrive, del “meno se ne parla attraverso i media, meglio è”
legato ai bisogni di iperefficienza e salute ad ogni costo propri
della società attuale. Tuttavia ecco alcuni dati odierni: nonostante
il recente miglioramento all'accesso al trattamento antiretrovirale,
in molte regioni del mondo, la pandemia di AIDS ha coinvolto circa
2,1 milioni (range
tra
gli 1.900.000 e i 2.400.000) di persone nel 2007, di cui circa
330.000 erano bambini sotto i 15 anni.
A
livello globale, si stima che 33,2 milioni di persone vivevano con
l'HIV nel 2007, di cui 2,5 milioni di bambini. Si stima che circa 2,5
milioni (range tra gli 1.800.000 e i 4.100.000) di persone siano
state contagiate nel 2007, tra cui 420.000 bambini.
Numeri impegnativi con cui vogliamo chiudere questa carrellata, per
sottolineare che prevenzione, diffusione del sapere, attenzione verso
la salute, investimenti nella sanità pubblica non devono
assolutamente essere mai ignorati, nascosti o dimenticati.
Scientificamente, socialmente, politicamente, economicamente, ma
soprattutto eticamente.
3.4 CONCLUSIONI
Per
terminare questo saggio, il cui tema principale è stata la disamina
degli sviluppi del concetto di malattia, tra dimensione magica,
religiosa e sacra e dimensione scientifica, nell'ambito della
cultura occidentale e nell'ambito di altre culture del mondo,
l'autore intende proporre una riflessione che voglia presentare un
punto di vista sulla contemporaneità. Abbiamo potuto osservare come,
a partire da epoche primordiali, l' elaborazione dei concetti di
malattia e salute, comune a tutta l'umanità sia transitata da una
lettura legata alla sfera del sacro e della magia fino a giungere,
almeno nel mondo occidentale, ad una lettura scientifica e
iper-razionale. La tendenza all'interpretazione magico-religiosa dei
fenomeni e alla correlazione che la scienza moderna definisce
illusoria, tra dati immediatamente disponibili alla coscienza, sono,
probabilmente, connaturati all'immediatezza della percezione, comune
a tutti gli esseri umani anche oggi, esempio lampante di queste
dinamiche, è, a nostro avviso, l'idea immediata che sorge alla
domanda se la terra gira attorno al sole o viceversa. Subito, il
primo pensiero che emerge è legato ai dati inerenti la realtà dei
fenomeni immediatamente percettibili, ossia che il sole gira intorno
alla terra, ed è necessario uno sforzo riflessivo e razionale, fatto
di conoscenze acquisite, per dare la corretta risposta. Questo un
piccolo esempio di natura aneddotica che chi scrive ha voluto
presentare per sottolineare come, nel corso della sua evoluzione,
l'uomo ha maturato, probabilmente, due capacità di visione cosmica,
una immediata, fatta di intuizioni percettive e di sintesi olistica,
andata sacralizzandosi, e l'altra, mediata dalla conoscenza ed
elaborata scientificamente, fatta di ricerca, studio ed analisi dei
fenomeni. Entrambe queste visioni rappresentano il vero
esclusivamente in relazione ai vissuti di ogni singolo individuo e
all'impatto che i fenomeni ed i dati immediati o mediati della
conoscenza possono avere sulla vita degli individui. Fedeli al
pensiero di Carl Gustav Jung ed ai suoi studi sull'alchimia e sulla
fisica quantistica, vogliamo, ancora una volta, pensare che ogni
prodotto della cultura, ogni filone della ricerca scientifica ed ogni
interpretazione dei dati emersi dalla ricerca, rappresentino, in
larga parte, proiezioni psicologiche provenienti dall'io o
dall'inconscio, individuale o collettivo, e queste dinamiche sono di
estremo interesse in quanto capaci di ricollegare saperi e pratiche
alle culture, agli individui, all'umanità intera e alla sua storia
evolutiva fatta di filogenesi e di ontogenesi. Tuttavia, chi scrive,
è fermamente convito che, nel mondo occidentale prima, e poi
diffusamente anche in altre culture, anche a causa del fenomeno della
globalizzazione, l'iper-razionalizzazione e l'iper-semplificazione,
figlie del cosiddetto progresso delle scienze e della cultura
contemporanea, oggi predominanti, come chiavi per la lettura dei
fenomeni complessi, abbiano prodotto scarsissimi risultati dal punto
di vista delle conoscenze e degli sviluppi culturali. Questa
iper-razionalizzazione e questa iper-semplificazione dei fenomeni si
possono osservare chiaramente, secondo l'autore della presente
trattazione, nell'elaborazione contemporanea della morte e della
malattia. Come abbiamo visto, nel corso di tutta l'evoluzione delle
culture umane, la malattia, la sofferenza e la morte, non sono mai
state negate, nascoste, rimosse dalla coscienza collettiva, ma
eventualmente, lette con lenti disparate, sempre vissute con
rispetto e con interesse. Chi scrive, proveniente da una etnia e da
una cultura tradizionale come quella ladina dolomitica, fortemente
legata alla civiltà contadina, ricorda ancora, per averlo vissuto in
prima persona, come nei piccoli paesi di montagna, l'esposizione di
bambini e giovani alla visione dei morti, vecchi o giovani che
fossero, era prassi comune. I morti, da un punto di vista psicologico
ed affettivo poi, rimanevano costantemente accanto ai vivi, nel
ricordo e nell'esposizione domestica di oggetti appartenuti ad essi e
di fotografie o ritratti che rappresentavano i defunti. Con i morti
si parlava e si chiedeva loro consiglio, in un gesto di estremo
rispetto e di forte volontà di legame. Oggi, la morte e le malattie,
vengono negate, nascoste quasi fossero il male assoluto in relazione
all'eterna giovinezza e all' iper-efficientismo richiesti dalla
cultura di massa ,globalizzata, contemporanea. Oggi i corpi devono
essere sani, perfetti, rinvigoriti da una cultura del corpo che,
lontana anni luce dalla cultura del corpo dell'antichità classica, è
divenuta cultura del corpo-macchina, che non deve invecchiare, non
deve ammalarsi e non deve morire, pena l'esclusione dalla società.
Anche la scienza moderna ha contribuito, in parte, alla costruzione
di questa visione, concentrandosi, a parere di chi scrive, sulla
dimensione riduzionista e determinista di un corpo biologico i cui
singoli pezzi possono essere sostituiti a piacimento se
disfunzionali, con l'idea, seppur degna di lode in determinati
momenti, di prolungare la vita, quasi in un'eterna giovinezza dei
singoli pezzi di un corpo. Quindi, la scienza ha prolungato
un'esistenza che, se rinvigorita e falsamente giovane, viene
accettata ma quando invecchia e si ammala, anche cronicamente, la
società nega, nasconde, esclude. Ecco probabilmente, il grande
conflitto di oggi, la grande crisi paradossale della società
contemporanea, che corre tra la negazione della sofferenza e della
morte nel quotidiano e la continua tambureggiante esposizione
mediatica di guerre, sofferenza e morte, tanto negate e lontane
quanto più filtrate dai media e dai social network. Conflitto, in
ultima analisi, fondamentalmente psicologico, conflitto tra
l'accettazione e la non accettazione della finitezza umana, tra una
giovinezza ed un immaturità psicofisiche volontariamente mantenute
ad ogni costo, ed un invecchiamento legato ai ritmi vitali e
naturali, fatto di saggezza e consapevolezza. Conflitto tra la
volontà di possedere una perenne adolescenza del corpo e della
psiche e la evidente finitezza dell'essere umano. Per concludere, è
probabilmente questo distacco della cultura contemporanea dagli
elementi spirituali e trascendenti dell'essere in funzione di una
dimensione neo-scientista bio-neuro-centrica più facilmente
controllabile ed assoggettabile, questo distacco dal naturale e
vitale fluire del tempo, dell'esistenza scandita anche da malattie,
da sofferenze e da morte, la causa, in parte, dello smarrimento
complessivo che personalmente leggiamo nella civiltà odierna.
Probabilmente, un ritorno alla riflessione sulla morte e sulla
malattia, sull'insita spiritualità e trascendenza proprie dell'uomo
oltre che sulla vita, sul tempo e sulle stagioni dell'esistenza,
potrebbero riportare un po' di luce in questa contemporanea oscurità
fatta di superficialità, semplificazione, razionalità a senso unico
e negazione, in ultima analisi, dei confini psicologici, sulla mappa
dell'uomo, costituiti dai territori chiamati Io ed Altro.
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